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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

martedì 29 novembre 2011

Autoscatti esotici dalla villeggiatura piccolo-borghese

Arno Schmidt, Paesaggio lacustre con Pocahontas [1959], Rovereto, Zandonai, 2011


Due amici, ex reduci, – nella Germania adenaueriana della ricostruzione industrial-cristiana – passano qualche giorno sul lago Dümmer. Qui si spupazzano due giovani dattilografe. Non che ci fosse altro da pretendere. Quella dell’io narrante, romanziere e intellettuale, viene ribattezzata Pocahontas dall’amante.  E l’aura di Pocahontas, per quanto ancora sconosciuta in Europa prima che Disney ne facesse un pupazzetto, esercitava il fascino di una fugace e intensa libertà, un sogno perduto e vissuto per essere rimpianto. E basta ripensare a certe immagini di The New World di Terrence Malick per capire cosa volessero essere quei giorni. E, naturalmente, questo libro finì sotto processo per blasfemia e pornografia. Il che fa supporre che i censori dell’epoca dovessero essere dotati di strumenti ermeneutici di primissimo livello perché la Pocahontas è un testo di tale complessità e rivoluzionario sperimentalismo per struttura, linguaggio, punteggiatura, strumenti narrativi, da rasentare in taluni casi una fertile oscurità.

Nei Calcoli che accompagnano la Pocahontas Arno Schmidt riconosce che, se ogni argomento ha un genere privilegiato, per il diario di viaggio quel genere dovrebbe essere l’album di foto. La Pocahontas, per Schmidt, è proprio un album di foto; di più, l’esemplificazione di come debba essere un “album di foto” per esperienze “con personaggi a curva di movimento ipocicloide e velocità lenta” in piccoli mondi (paradisi o inferni in sé conchiusi: soggiorni estivi; infanzie)”.



E se album di foto deve essere,allora la Pocahontas deve riflettere i moti di coscienza che si sviluppano di fronte a un albo di foto: prima le immagini testuali che si presentano, poi i ricordi che ne sorgono. Coerentemente, la forma testuale della Pocahontas non può restare ancorata a un linguaggio classico. I diciotto capitoli sono quindi rigidamente bipartiti. Prima una immagine, atti e scena, un groviglio caotico di sensazioni e impressioni. Il mio capo nel suo grembo (tra l’erba alta delle sue dita) : e aveva chiazze verdi alla coscia, nerazzurre con orlo giallo, tutte per il tirarsi su nella canoa, attorno a parecchie si vedevano perfino archi dentali, e rabbrividii ipocritamente empatico. Nella ragnatela di parole sussurrate, tra brillii d’acqua e di piombo. / Quasi ferma una vela, davanti all’albero la figura in duepezzi traforato, verde come una piscina coperta; alzò alla fronte un binocolo nero, assai distinta, e occhieggiò più volte verso noi : : (dopo però apparì sgualcita come la madre dei Gracchi, occhi pettegoli, e man-worn). Dopo, il ricordo, il racconto, lo sviluppo.



I giorni si snodano in un flusso di coscienza intercalato da squarci, impressioni, interiezioni, sinestesie, retropensieri, sensazioni, accumuli di immagini, oggetti; e tutto con un linguaggio insieme immaginifico e scientifico, di strenua inventività, verbi secchi all’infinito, segni matematici, punteggiatura espressiva e scompositiva, effetti fonici, pastiche letterario-materiale. Ad esempio, questa bellissima alba.
/ (Treno lontano : la sua barra del suono era pazientemente orizzontale; fresò un solco nel nostro dormiveglia; si ritrasse a mo’ di biella). / ((Il gallo gridò in triangoli grandi quanto pescecani sul muro del sonno; più lontani vi stavano appesi spaghi con cipree)). / (((Quando ? Tetti avevano cominciato a bisbigliare grigio pietra ))).

Questo bellissimo romanzo breve, però, va ben oltre lo sperimentalismo. Proprio le sue forme linguistico-narrative portate all’estrema tensione sono la forma di un inno alla vita. Non interpretate : studiate e descrivete. Non futurate : siate. E morite senza ambizioni : siete stati. Al più, pieni di curiosità.


E quando le nebbie si chiuderanno definitivamente su un primissimo mattino lacustre, un’ultima immagine ritornerà agli occhi. (((((((E poi : sarà malinconia)))))))




Alcune chicche interessanti su Satisfiction

venerdì 25 novembre 2011

Bosna, mon amour - 2

In fondo al mercato di Travnik, sotto la sorgente fresca e gorgogliante del fiume Šumeć, è sempre esistito, da che mondo è mondo, il picco Caffè di Lutvo. Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo, il suo proprietario; da almeno cento anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio. Nel giardino del caffè, proprio sotto la parete rocciosa del colle, vi è un angolino appartato e fresco, leggermente rialzato, dove cresce un vecchio tiglio. Intorno fra pietre e zolle erbose, sono sistemate alcune panchine basse, di forma irregolare, sulle quali è un piacere sedersi e da cui è una fatica rialzarsi. Consumate e imbarcate per gli anni e il lungo uso, sono ormai diventate tutt’uno con l’albero, la terra e le pietre. (trad di D. Badnjević)

La Cronaca di Travnik [1945] comincia l’ultimo venerdì di ottobre del 1806, quando alla Plava Voda di Travnik, il sistema di vasche e salti d'acqua attorno al quale ancora oggi si affollano i bar e i ristoranti della città, si diffonde la notizia che in città arriverà un console francese. 

Plava voda, Travnik


E il romanzo, che termina con la caduta del potere napoleonico, è imperniato proprio sul rapporto tra il console francese e quello austriaco, figure ottuse, meschine, decadenti, "occidentali". Lo sfondo, quello bosniaco, in cui il tempo è eterno e lento, immerso in una saggezza spirituale che sa ricondurre a un senso superiore. Lo sfondo bosniaco, in cui è ambientato il romanzo, e che ancora è possibile riconoscere, era qualcosa di molto simile a questo.

Vista dal forte


Il forte di Travnik

Il forte di Travnik


La Šarena Dzamija (Moschea colorata)
E proprio a Travnik si trova la casa natale (rodna kuća) di Ivo Andrić (Ive Andrića).



In realtà in questa casa Andrić visse pochissimo , e si trasferì, a circa due anni di età, a Višegrad. Ad ogni modo il primo piano è stato trasformato in un museo (nel cortile interno, c'è un locale). Nel museo, si trovano vari documenti, dai materiali utilizzati da Andrić per le sue ricerche sulla città proto-ottocentesca, alle edizioni di Andrić, a foto antiche, al diploma per il Nobel per la Letteratura.


La motivazione per il Nobel

Edizioni in lingua italiana 

Interno



Bosna,mon amour - 1

lunedì 21 novembre 2011

De te vita narratur

John Barth, La vita è un’altra storia. Racconti scelti, Roma, Minimum Fax, 2010

Una copertina come questa è tanto facile, quanto significativa. Un cappello da prestigiatore dal quale esce un libro, il nostro libro, il quale in copertina ha un cappello da prestigiatore dal quale etc. [E questo etc. sarebbe tipico della scrittura di John Barth] [[E una quadra per dire che questo etc. sarebbe tipico della scrittura di John Barth, è molto John Barth] [E questa ulteriore osservazione metabarthiana, anch’essa è molto etc]]. La mise en abyme è uno degli elementi più propri di questo padre longevo e radicale della narrativa postmoderna nel solco riconosciuto di Borges e Calvino. Ma l’ultimo dei cappelli della sequenza en abyme non contiene un altro libro ad infinitum, ma, finalmente, un coniglio. Perché in fondo ai racconti di smontaggi, rispecchiamenti, meta e ipertestualità, c’è ancora quella vita che è un’altra storia. Irriducibilità di vita e letteratura o vita come plot nel mai finito insieme dei plot?

Dodici racconti, estrapolati da varie raccolte lungo la parabola autoriale di Barth, da Lost in the Funhouse ([La Casa dell’Allegria] 1968), a On with the Story (1996), a The Book of Ten Nights and a Night (2004), a The Development (2008). Titoli che, di per sé, fanno capire come Barth si muova sul filo sottile della citazione, dell’indagine metaletteraria, dell’ambiguità tra fabula e vita, dei processi di scrittura, di come la vita segua trame letterarie, e la letteratura sia il riflesso dell’esistenza, e ancora di come noi stesso raccontiamo la nostra vita. Racconti nel racconto e esistenze in cornice, come nell’amato Decameron, e nell’amatissimo Le mille e una notte, al quale The Book of Ten Nights and a Night è un esplicito tributo. E che dire del fatto che Verso l’occidente l’impero dirige il suo corso (l’ultimo racconto di La ragazza con i capelli strani di un certo DFW, autore anti-barthiano iper-barthiano giunto invece al tragico punto di rottura tra vita e letteratura), è proprio la cornice-espansione-riscrittura di Perso nella casa stregata, il racconto eponimo di Lost in the Funhouse? L’autore metaletterario che, nel grande gioco narrativo, diviene personaggio di altro autore.

E, proprio in Lost in the Funhouse, Ambrose, il piccolo Ambrose, smarritosi all’interno della casa dei fantasmi di un Luna Park e incapace di ritrovare l’uscita, morì raccontando storie a se stesso, e raccontando a se stesso la propria storia di bambino incapace di vivere e destinato a vivere tutto attraverso una chiave narrativa. È solo un bambino, va da sé, e quindi non morirà, ma per lui quella casa stregata in cui si è smarrito è il mondo, è un libro, è l’esistenza che è solo narrazione. Vorrebbe essere morto. Ma è vivo. Perciò costruirà case stregate per gli altri, e sarà il loro manovratore segreto – anche se preferirebbe essere uno degli innamorati per cui le case stregate vengono costruite.

E così uno dei temi dominanti della raccolta, è l’elemento principale della vita umana, il tempo. Come nel bellissimo, e misteriosamente tragico, Ad infinitum: un racconto breve, attuazione del paradosso di Zenone, in cui la donna latrice di un tragico messaggio non raggiungerà mai il marito per distruggere con tale messaggio quel che resta delle felicità a causa del tempo narrativo dilatato e dei rallentamenti del racconto. E così, Avanti con la storia è un gioco di rispecchiamenti, di incastri en abyme: una lettrice che legge la sua storia accanto all’autore della storia che sta leggendo. Due vite concentriche, all’interno di un sistema di anelli concentrici seguiti fino agli estremi confini dell’universo. E dove accade la lettura? Su un aereo in volo, cellula e frammento che non ha spazio né tempo.

Ma se a volte può sembrare che la metaletteratura stanchi, e che tutto si possa ridurre a un gioco sterile, segno del fallimento di raccontare storie, così non è. Sia perché sempre forte è il rapporto tra complessità del vivere e complessità dello scrivere – come persino nel complicatissimo Click, in cui “Mark il velocizzatore” e “Valerie la ritoccatrice”, personaggi dell’ipertesto “Ipertestualità della vita quotidiana” letto da Fred e Irma, sono forme del carattere, della vita, e ancora delle tecniche narrative e la loro integrazione è il segreto della felicità di coppia e di quella della narrazione – sia perché altri racconti hanno forza naturale propria, come Toga party (bellissima tragedia della vecchiaia) o il meraviglioso primo racconto della raccolta Viaggio nel mare della notte: una potente cosmologia, in cui – quando ormai flebile è la speranza che esista davvero quella riva promessa verso la quale sta nuotando – uno stremato io narrante rivive la lunga traversata in quel mare notturno che è tutta la sua esistenza, ricordando i compagni con cui aveva cominciato il viaggio quasi tutti annegati o lasciatisi annegare, e tutti i pensieri nati sul senso di quella traversata. Chi li ha creati. Quale il loro destino. Che cosa sia quel “mare della notte”. Che cosa sia quella riva promessa, riformulando genialmente le grandi concezioni della filosofia occidentale, dalla monadologia di Leibniz al manicheismo, dal concetto di ciclicità infinità a Berkeley. Chi sono quei nuotatori? Uomini? Pesci? Metafore? Mare enim in figura dicitur saeculum hoc, falsitate amarum, procellis turbulentum (Agostino, Enarr. in Ps. LXIV 9). E il sesso, terminato il racconto, sarà tragedia.

lunedì 14 novembre 2011

Tra gli scaffali di notte...

Che cosa fa una ragazzina tanto fuori moda da leggere Antonia Byatt e Chaucer e ascoltare Puccini? Che cosa fa una ragazzina talmente faccia smorta da lavorare in biblioteca? Fa una delle cose più seducenti che si possano trovare in rete!

giovedì 10 novembre 2011

Prendete, e bevetene tutti

Walter Tevis, L’uomo che cadde sulla terra [1963], Roma, Minimum Fax, 2006

Ci sono libri che non sono nemmeno belli. Rudimentali, semplici, artigianali. Forse persino grossolani. Eppure sono libri che vorresti avere scritto tu. L’uomo che cadde sulla terra dovrebbe essere soltanto un libro di science-fiction; un’evoluzione dello schema dell’invasione aliena: il sedicente Thomas Jerome Newton attraversa il sistema solare per sbarcare in un paesino del Kentuky, dove si mescola agli umani imitandone le fattezze; qui, progressivamente, attraverso le sue conoscenze scientifiche dovute all’enormemente superiore tecnologia del pianeta di provenienza, Newton arriva a diventare un ricchissimo industriale, accumulando un colossale capitale economico. Grazie alla sua abnorme ricchezza, l’alieno avvia la costruzione di un progetto d’avanguardia, che si rivelerà un traghetto spaziale per trasportare gli altri abitanti del pianeta Anthea sul pianeta Terra, in cui si infiltreranno nelle posizioni di potere. Un  canovaccio non particolarmente rivoluzionario, insomma.
Però Tevis non è stato solo un autore di fantascienza, ed è anzi ben più noto per Lo spaccone e Il colore dei soldi, di cui sono state fatte celebri trasposizioni filmiche. Anche L’uomo che cadde sulla terra ha avuto una bellissima trasposizione, con un David Bowie al suo primo film da attore.
E ciò che rende questo romanzo un piccolo capolavoro è proprio che, come tutti i grandi libri di fantascienza, è ben più che solo questo.  Thomas Jerome Newton, infatti, non “scende”, non “arriva”, non “atterra”. Thomas Jerome Newton cadde.
La vicenda dell’antheano ha un correlativo oggettivo nella tavola di Bruegel il Vecchio, Paesaggio con caduta di Icaro, posseduto da uno dei personaggi. Nel dipinto, mentre – sulla fedele sinopia delle Metamorfosi di Ovidio (VIII 152-235) – la vita ferve, e gli uomini, ignari, attendono ai lavori quotidiani, in un angolo, sottratto anche allo sguardo dello spettatore frettoloso, il pennello afferra la tragedia sconosciuta, l’ultimo istante prima che le gambe di Icaro, al termine del volo, sprofondino per sempre nelle acque. E la prima sezione del romanzo si intitola proprio La discesa di Icaro.

Perché sotto l’involucro della fantascienza si snoda un romanzo polisemico e doloroso. Un grande apologo sulla solitudine e il fallimento, l’alienazione di chi attraversa un’esistenza disgustosa e fuori-posto: un’anatra sola in mezzo al lago, un migratore stanco.

Thomas Jerome Newton, alto uno e novanta, magrissimo, senza peli e capezzoli, senza unghie, quattro dita dei piedi, niente sterno niente denti del giudizio niente traspirazione niente appendice niente midollo niente coccige niente costole mobili, deve vivere camuffato, negando se stesso, per confondersi tra gli uomini; per lui, abituato a una gravità pari a un terzo di quella terrestre, e a un pianeta molto più freddo, ogni movimento è una terribile sofferenza, costretto ad assumere continue misteriose medicine per sopravvivere. Costretto a vivere in un mondo ripugnante, tra gli uomini come un uomo potrebbe vivere in un branco di scimmie.
Si sentì disgustato e stanco di quel popolo dozzinale ed estraneo, di quella cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell’aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti.
La stanca nausea di chi non si riconosce nella propria vita, esule nella propria esistenza, lottando contro la nostalgia, la paura, il tempo. Perché il suo popolo, lassù, sta morendo, in un deserto freddo sconvolto dalle guerre atomiche; senza energia, materiali, cibo, i trecento antheani rimasti, e sua moglie e i suoi figli, muoiono poco a poco. E muore il pianeta Terra, precipitando rapinoso verso la catastrofe nucleare. L’unica speranza, per antheani e terrestri, è che lui riesca a costruire quel traghetto che possa trasportare tra gli umani gli ultimi antheani, sottraendoli alla morte per inedia e permettendo loro di salvare la Terra, quando ne avranno assunto la guida, dal suo destino. Ma Newton – cognome che ha in sé la legge inesorabile e naturale della gravità – non potrà infine che cadere.
Newton assurge infatti a figura cristologica, come quel crocifisso dai tratti antheani visto in una delle primissime pagine. Uno Jesus Patibilis, prigioniero della cecità di un mondo rozzo e impuro. Henri-Charles Puech, in Sul manicheismo, scrive: «Questo Gesù cosmico e atemporale è crocifisso sulla Materia cui la sua anima luminosa è “mescolata”. Il mondo intero è la “Croce della Luce”». Newton, che come tutti gli antheani, conosce il senso di colpa e di espiazione, sarà allora tradito, imprigionato, vilipeso, torturato, sconfitto. Così si segna il destino di Newton, la morte di due mondi, nella cecità, non più solo metaforica, in cui lo stesso antheano infine sprofonderà.
La fuga dalla paura, dalla malinconia, dallo sconforto, dalla tragedia, da una vita stupida e tremenda, può essere solo l’alcool. Tevis, alcolista cronico e doloroso, raffigura, in tutti i suoi personaggi, il rifugio e il sollievo nell’opacità donata dal gin. Questa storia di solitudine affonda nei lineamenti incerti del liquore e delle lacrime, da cui, quando tutto sarà compiuto, si alzerà una poesia triste, liquida, a lunghe vocali, con strane curve di tono levata verso un pianeta lontano, nella speranza che qualcuno possa ancora ascoltare il suo addio, là da qualche parte tra le stelle. Lama sabachtani.

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.
(W.H. Auden, Musée des Beaux Arts, 1938)

domenica 6 novembre 2011

Patrick Kavanagh

Quando nel 1954 Patrick Kavanagh si ammala di cancro ai polmoni, molte cose cambiano. Nella lunga degenza che segue l’asportazione di un polmone, “Paddy” Kavanagh trascorre molto tempo sul Grand Canal, la lunga via d’acqua che partendo dal cuore di Dublino raggiunge Limerick nell’ovest dell’Irlanda. Kavanagh vive allora una nuova stagione poetica – segnata da Recent poems, 1958 e Come dance with Kitty Stobling, 1961 – più meditativa e scabra. Lì compose il Ciclo di sonetti del Grand Canal.

Camminando lungo l’argine del canale

Rigogliose di fogliame d’amore le sponde del canale e l’acqua verde
Che versa redenzione per me affinché io faccia
La volontà di Dio, sguazzando nel consueto, nel banale
Crescendo assieme alla natura così come ho fatto finora.
Il boschetto luminoso ha messo in trappola, col vento che ha aggiunto
Il terzo incomodo, la coppia che si bacia sulla vecchia panchina.
Un uccello raccoglie materiale per il nido della Parola,
Eloquentemente nuova e abbandonata al suo delirante battito.
O mondo incontaminato afferrami, afferrami nella maglia incantata
Di erba favolosa e voci eterne sulla riva,
Nutri il bisogno dischiuso dei miei sensi e dammi a piacere
Di pregare disinteressatamente con parole traboccanti
Perché quest’anima ha bisogno di essere onorata con un abito nuovo intessuto
Di cose verdi e blu e ragionamenti che non possono essere provati.

Lì, sul Grand Canal, c’è una sua bellissima statua, nota ai dublinesi come “the krank on the bank”, ossia “il malatuccio sulla riva”.



La statua è chiaramente ispirata al bellissimo sonetto che segue.

Versi scritti sedendo di fronte al Grand Canal, Dublino

Ricordatemi dove c’è acqua,
Preferibilmente acqua di canale, così placidamente
Verde al cuore dell’estate. Fratello,
Ricordami così benignamente
Dove da una chiusa come fosse il Niagara mucchia
LA cascata per chi siede nel tremendo silenzio
Di metà luglio. Nessuno parlerà più in prosa
Tra coloro che hanno trovato la strada a questa isola degna del Parnaso.
Un cigno procede a testa bassa tra molte scuse,
E una luce fiabesca trapela dagli occhi del ponte –
E poi, guarda! C’è una chiatta che arriva da Athy
O da altre città remote con le loro mitologie.
Ricordatemi non con una tomba da eroe coraggioso –
Mi basta una panca, di lato al canale, per chi passa di qua.




Poiché, poi, ovviamente, una statua di bronzo è ben più che una panca, di lato al canale, sul Grand Canal esiste una vera e propria “panchina Kavanagh”, una panca di granito con il solo nome inciso a fianco. (http://kavanaghseat.com/index.html).

E se vi chiedete chi fosse Kavanagh, qui c’è Van Morrison che canta la sua On Raglan Road, qui Sinead O'Connor, qui Mark Knopfler, qui Loreena McKennitt, e qui infine Luke Kelly dei Dubliners, che fu il primo a musicarla su una vecchia aria gaelica.

(i testi sono nella traduzione di S. Simonelli, da Andremo a rubare in cielo, Ancora, 2009)