Un mattino del novembre del 1516, il giovanissimo Bajica diede addio alla sua terra, alla sua famiglia, alla sua lingua, alla sua religione, ai suoi monti, e attraversò su una barca a remi il fiume Drina. Il passaggio del fiume era l’ingresso in una nuova vita, quella in cui sarebbe diventato Gran Visir della Sublime Porta, e uno degli uomini più potenti d’Europa.
Che cosa pensasse quel bambino mentre attraversava la Drina per raggiungere, dal suo villaggio sui monti bosniaci, la remota e misteriosa Istanbul, quale fosse davvero il suo addio monti, non sappiamo. Ma Ivo Andrić riconosce, in quel muto dolore infantile che torna sempre più aspro quanto più ci si inoltra nella vecchiaia, il bisogno di Bajica, ormai diventato il grande Mehmed Pascià Sokolovič, di sanare, o annichilire, quella sofferenza. E riannodare la propria infanzia alla propria vecchiaia, il mondo che aveva lasciato e quello che lo avevo reso uno degli uomini più temuti nello scacchiere internazionale, una vita all’altra. Con un ponte. Che sorgerà là dove Bajica attraversò il fiume. A Višegrad.
Per arrivare da Sarajevo a Višegrad, si attraversano valli come questa, così simili a quelle valicate in carovana dal piccolo Mehmed.
Improvvisamente a Višegrad tutto cambia.
Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d’armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio.
Il ponte è lungo circa duecentocinquanta passi e largo una decina, tranne che al centro, dove è ampliato mediante due terrazzi perfettamente identici, uno su ciascun lato della carreggiata, che gli fanno raggiungere una larghezza doppia. È questa la parte che si chiama “porta”.
Questi due terrazzi, questa “porta”, sono l’anima del ponte, e della città.
Il terrazzo di destra, venendo dalla città, si chiama sofà. Vi si accede salendo due gradini, ed è orlato di sedili cui il parapetto funge da spalliera, e sia i gradini che i sedili ed il parapetto sono tutti della medesima pietra chiara.
Qui, la città si ferma.
Ogni abitante del luogo, in ogni ora del giorno e della notte, può andare alla “porta” e sedersi sul sofà, oppure indugiare nelle vicinanze per trattare affari o per chiacchierare. Germogliato ed elevato fino a una quindicina di metri dal fiume verde e rumoroso, quel sofà di pietra è sospeso nello spazio, al disopra dell’acqua, i mezzo a montagne verdescuro che lo cingono da tre lati, col cielo e le nuvole o le stelle in alto, e con una vista aperta lungo il fiume che sembra un angusto anfiteatro chiuso, in fondo, da monti azzurri.
Se il terrazzo di destra rappresenta la parte “sociale” del ponte, il luogo in cui il tempo – nelle discussioni, o nel ripiegamento su di sé – pare farsi liquido e fuggitivo, quello di sinistra, invece, rappresenta l’elemento monumentale, la rivendicazione dell’eterno.
Il terrazzo di sinistra, dinanzi al sofà, è identico, ma è vuoto, senza sedili. Al centro del suo parapetto il muro si eleva al disopra dell’altezza di un uomo: in esso, nella parte superiore, è situata una targa di marmo bianco sulla quale è incisa una ricca iscrizione turca, un tarih, con un cronogramma che, in tredici versi, indica il nome del costruttore del ponte e l’anno della costruzione.
Questo è il Ponte sulla Drina, il fulcro e tema del romanzo di Ivo Andrić, uno dei massimi capolavori del Novecento europeo. Il vero protagonista del romanzo è infatti proprio il ponte.
Sul ponte e vicino al ponte sbocciano i primi sogni d’amore, avvengono i primi incontri casuali, i primi approcci e sussurri. Qui si svolgono anche i primi lavori e gli affari, i litigi e gli accordi, gli appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra del ponte, vengono messi in vendita le prime ciliegie e i meloni, i salep del mattino e il pane caldo. Ma qui si raccolgono pure i mendicanti, gli storpi e i tignosi, così come i giovani e i sani che desiderano farsi vedere o vedere qualcuno, o come tutti coloro che hanno da mettere in mostra qualche frutto, qualche abito o qualche arma speciale. Vengono spesso a sedersi qui uomini maturi e ragguardevoli per discorrere intorno alle cose pubbliche e alle faccende d’interesse collettivo, ma ancora più spesso i giovincelli che non hanno mente ad altro che ai canti e agli scherzi. In occasione di grandi eventi e di storiche trasformazioni è qui che vengono esposti appelli e proclami (sul muro sopraelevato, al di sotto della targa marmorea con l’iscrizione turca e al disopra della fontana), ma qui, fino al 1878, venivano anche impiccate o impalate le teste di tutti coloro che, pe un qualsiasi motivo, erano giustizianti, e le esecuzioni, in questa cittadina di frontiera, specialmente negli anni turbolenti, furono frequenti e in certi tempi, come vedremo, perfino quotidiane.
Il ponte è un fondale eterno delle tragedie e degli amori, di suicidi ed esecuzioni, amicizie e odii, matrimoni e funerali, rivolte e guerre, pesti e alluvioni e innovazioni tecnologiche. Generazione dopo generazione, lutto dopo lutto, gioia dopo gioia. Secoli e secoli di storia si accavallano gli uni agli altri; i personaggi si susseguono, tragici o grotteschi, percorrendo il ponte, sedendo sul sofà. Il ponte, per gli uomini di Višegrad, per il lettore, è ciò che resta nella storia che collassa, l’ordine nel caos. Fino al 1918, fino a quel colpo di cannone che chiude il libro. Fino a che gli uomini di Višegrad vedranno frantumarsi il loro mondo, e il lettore solleverà lo sguardo dall’imam Alihodža agonizzante in spasimi brevi sulla strada.
È stata una strada lunga fino a Višegrad, per infilarsi in una strada chiusa poco prima del confine con la Serbia, solo una lunga deviazione che poi bisognerà percorrere a ritroso. Eppure lì, su quell’acqua, il ponte ha davvero qualcosa da raccontare.
Višegrad è la più brutta città della Bosnia, casermoni, negozi tristi. Eppure, inaspettatamente, la sera la città fiorisce, e le persone si allargano per le strade, e lente, lentamente, ancora oggi, raggiungono il ponte, e lo attraversano, e tornano, e si siedono sul sofà, e sollevano gli occhi all’oscurità luminosa là in alto.
Tu che passi, ti chiedi quanti di loro cerchino nel buio del ponte il ricordo di coloro che nel 1992 furono scacciati dalla città, o furono massacrati sul ponte, o scomparvero per sempre. E chi sa dove sono ora. E, come Bajica, portano in giro per il mondo un ricordo che a volte riaffiora.
Perché il ponte ha visto anche questo, e lui è sempre lì, a dare ordine, e forse serenità.
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