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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

martedì 5 luglio 2011

“Questa è la triste fine di Sid il bradipo”

Sam Savage, Il lamento del Bradipo [2009], Torino, Einaudi, 2009, euro 12

Redigere i quarti di copertina, è arte e maestria. Mica facile, entro una griglia paratestuale data, riuscire ad allettare il lettore, senza dirgli troppo; essere referenziali e insieme seduttivi; fornire chiavi di lettura, embrioni di critica, e insieme non asfissiare il più ampio respiro del libro. Prendo in mano Il lamento del bradipo, di Sam Savage, fratello minore del caso letterario del 2006, Firmino, affascinante episodio di debutto letterario alla soglia dei settanta. Prendo in mano questo Lamento, e sul retro leggo: “La storia struggente, di chapliniana semplicità di Andrew, tenero e inguaribile fabbricante di illusioni”. Però! Subito dopo, bella citazione da Citati: “Savage è spiritosissimo e divertentissimo ed eredità tutte le corde del riso: shakespeariano, cervantino, swiftiano, dickensiano, carrolliano, stevensoniano, chapliniano”. Siccome lamentoso sono pure io, quantomeno quel riecheggiante chapliniano in due diversi elementi del paratesto mi pare un po’ fastidioso, e mi fa pensare che il redattore qualche sforzo in più avrebbe pure potuto farlo. E penso pure, già che c’era, che tra “tutte le corde del riso”, potevano starci anche – che so – plautino, sveviano, lewisiano, rabelaisiano, jeromiano, pirandelliano, e magari, per amore di variatio fonetica, flaianense e aristofanesco. Ma Citati non si discute, e quindi questo libro non potrà che essere spiritosissimo e divertentissimo, nonché di chapliniana semplicità. Ad esempio, questo passo: Non sono stato sincero con te. Non lo sono stato con me stesso. Il fatto è che la macchina della mia vita sembra aver voltato in un vicolo cieco. L’ho portata a schiantarsi contro un muro di mattoni. È simile al muro dietro la mia scuola elementare, dove mi facevano stare mentre mi tiravano addosso delle cose. Non voglio starci più. Spassosamente chapliniano, direi. O forse era stevensoniano, e allora qui sono io in difetto, che Stevenson lo conosco poco.

Qualcosa di ironico c’è, in realtà, qualcosa dell’ironia settecentesca, in quel lunghissimo sottotitolo In cui sin narra la storia perlopiù tragica di Andrew Whittaker, ovvero la raccolta completa e definitiva dei suoi scritti. In questa distanza ironica c’è tutta la tragedia di un uomo fallito: scrittore frustrato e che si pretende di rottura, immobiliarista sull’orlo del tracollo, marito tradito e abbandonato e sfruttato, editore di “Bolle”, una miseranda e moribonda rivista letteraria di rilevanza provinciale e dileggio nazionale. Tutto collassa e crolla, come la sua casa, tra formiche e topi e cedimenti strutturali, invaso da un disordine che nemmeno sa da dove venga. Come la sua salute, tra psoriasi, soffio al cuore e mancamenti. E come crolla la sua psiche. Un cieco in una casa cieca. Whittaker la puntella scrivendo. Per quattro mesi, e quattro capitoli. Scrivendo a tutti. Colleghi giovanili di consorteria letteraria ormai famosi e sprezzanti e odiati; l’ex-moglie a cui passa gli alimenti perché possa cercare di fare l’attrice a New York; vecchie fiamme che ricordano la splendida notte d’amore e sesso come un orribile incubo con un “nevrotico che l’angariava”; collaboratori di “Bolle” paranoici e patetici; giovani promesse della poesia pornografica che non sarà con lui che finiranno a letto; inquilini squattrinati che lo accusano di avere insinuato che la moglie avesse una tresca con Archimede.

Potrebbe in effetti sembrare divertente. Se non che le sue lettere sono un’alluvione di ipocrisie, mistificazioni, vaniloqui, ossessioni, paranoie, menzogne a se stesso e agli altri che emergono solo dal confronto tra le lettere. Con squarci di straziante sincerità. È questo montaggio e smontaggio della personalità di Andrew a dare un valore a un libro interamente costruito sulla tecnica del collage, che di per sé ha sempre qualcosa di visto e stravisto; e alla stanca tecnica del romanzo epistolare, genere a cui il romanzo, proprio per la sua facilità, è indissolubilmente legato dalla nascita. Un immenso catalogo di destinatari molteplici, di appunti personali, di comunicati stampa, di pagine di un romanzo orrendo, di avvisi agli inquilini, di liste della spesa. Ciò che lo rende affascinante è il genere epistolare non è solo elemento narrativo, ma forma della solitaria disperazione contemporanea. Raramente si ha un simile tragico riconoscimento dell’alienazione della comunicazione epistolare, dialogo con se stesso, con una proiezione di se stesso. Per bisogno di esserci. Dialogo ininterrotto e riscritto e immaginato e risillabato, come quello con un’amante perduta. Da qui - con alcune osservazioni da manuale della teoria dell'epistolografia - i continui dubbi sullo statuto del lettore, sul tempo di scrittura e il tempo di lettura, sul dialogo col nulla e con nessuno. Trovo facile parlare con te, probabilmente perché non ti ricordo troppo bene. È come parlare ai mobili, ma con il vantaggio che nel tuo caso i mobili capiscono, o almeno fingono di capire. Al punto da scrivere di sé in lettere firmate dai facili anagrammi Dyna Wreathkit, Warden Hawktiter, Kitten Hardway. Al punto da scrivere ai propri eteronimi. E a costruire un gioco di specchi tra un eteronimo che lo guarda vivere e se stesso che racconta dello spettacolo allestito perché l’eteronimo creda di vederlo vivere.

E al cuore del romanzo, la tragedia del bradipo, tragica vittima di uno dei più crudeli scherzi della natura. “Tipetti estroversi” i bradipi, in realtà, lo sanno tutti. Disperatamente alla ricerca di compagnia e amore, e vivacità e socievolezza. Ma che la natura ha destinato a quell’unico albero che è la loro casa, la loro città, il loro mondo. Alla solitudine, alla lentezza, alla monotonia, alla inesorabile pazzia. A sprofondare in un mondo immaginario di compagni amorevoli e vita sociale vertiginosa. Finché un giorno, immerso nei suoi sogni, dimentica di aggrapparsi e muore precipitando al suolo. Davvero è la raccolta completa e definitiva degli scritti di Andrew Whittaker; in questa piccola glossa, forse la svolta di tragica inedia in una grottesca tragedia.

Mi fa l’effetto di trovarmi davanti a una porta chiusa dietro cui tu vivi e che non si aprirà mai. Non possiamo capirci che picchiando alla porta (F. Kafka a Felice, 3-4 marzo 1913)

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