Mancano pochi giorni allo Strega 2011; avevo formulato la brillante idea di preparare una scheda per ognuno dei finalisti della Cinquina. Naturalmente, l’idea era proprio brillante. Per rimediare, supplisco con la scheda del vincitore 2010, che – con i miei incolmabili ritardi – in fondo ho finito di leggere solo pochi giorni fa.
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010
Di molti libri si dice, o lo si odia o lo si ama. Poi, ci sono quelli che sono un “Ma dai, non è poi tutto ’sto malaccio”. Al netto di un po’ di cose.
L’intenzione, qui, è ottima. Un grande saga familiare italiana, come in Italia non ce n’è. O meglio, come non ce n’è a parte Bacchelli, e il debito lo riconosce lo stesso Pennacchi. Anzi, quel riallacciare la famiglia del romanzo a un certo avo reduce della Grande Armée, tornato dalla Russia con una ricchezza misteriosa e finito a fare il padrone di un mulino sul Po, è qualcosa di più che un tributo criptato. E poi, una grande saga familiare come in Italia non ce n'è a parte quell'altra famiglia là in Sicilia, ma questa è davvero un'altra storia.
E in più c'è l'intenzione fare un romanzo storico, come in Italia non ce n’è. Maledetto copia-incolla; volevo dire “che invece ce n’è fin troppi”. E fare allora, mettendo insieme tutto, una saga familiare, storico-popolare. La storia dei Peruzzi, tre generazioni (che poi forse sono quattro, ma questo bisogna arrivare all’ultima pagina per deciderlo) che – siano sempre maladéti i Zorzi Vila – dal Ferrarese scendono all’Agro Pontino per scampare a fame e povertà.
A voler essere retorici quanto il quarto di copertina, la grande epopea di una famiglia, e di tutto un popolo che in una forma o nell’altra si porta appresso, alla ricerca di una nuova terra: un’Eneide incentrata su Pericle Peruzzi, il Leone dei Peruzzi, fumantino e generoso, un Enea contadino che ("il solco dell'aratro, e la spada che lo difende", com'era...) sa prendere in mano la zappa e la spada. O il manganello. Perché la nuova Terra Promessa, l’humilis Italia, è quell’Agro Pontino bonificato dal fascismo in cui tra il 1932 e il 1935 vengono inviati trentamila mezzadri dal Veneto, le Romagne, il Friuli, pezzenti cispadani di fatica e sudore e fame sbattuti come coloni tra i marochin e le zanzare, le paludi e la malaria.
Una grande opera di ingegneria idraulica, senza dubbio, in cui il Canale Mussolini (oggi Canale delle Acque Alte) raccoglie e drena tutte le acque della Piscinara tra Anzio e Terracina portandole nel mare, tra città modello che sorgono e il disastro che si approssima. E Canale Mussolini, nella sua natura di romanzo storico, è anche una storia dell’Italia dalle proteste anarco-sindaliste di inizio secolo alla fine della Seconda Guerra mondiale. Quota 90, delitto Matteotti, il Maggio radioso, la vittoria mutilata, Piazza San Sepolcro, la campagna d’Etiopia. Tutto seguendo le peregrinazioni, i matrimoni, i disastri, le nascite dei Peruzzi, che otterranno di poter ricominciare tutto in un podere dell’Agro Pontino, perché qualche merito Pericle Peruzzi presso il fascismo lo vanta, in primo luogo quella bastonata con cui ammazzò un prete resistente. Lo ammazzò per sbaglio, oh, sia chiaro, che lui mica voleva. Durante una punizione punitiva, va bene, ma per sbaglio, che se no il personaggio non sta più simpatico e non si vende. Famiglia fascistissima i Peruzzi, da sempre, che il Duce e Rossoni pranzavano da loro, e anzi il Duce, giovane torello, ci guardava il culo a nonna Peruzzi quand’era giovane anche lei. Sì insomma, il fascismo certo, le leggi razziali, e la guerra così sballata, e l’Uomo che ci ha creduto pure lui di essere infallibile, e comunque hanno cominciato i rossi, e però ha fatto tante cose buone.
E l’io narrante distingue e glossa, in quel filò di tradizione veneto-contadina che è tutto il libro, una chiacchierata co na ombra de moro nel bicer con un interlocutore muto, un po’ insofferente, un po’ puntiglioso, un po’ testone pure lui. Un io narrante che riallaccia la storia famigliare, seguendo le trame di quei nove fratelli (Temistocle, Pericle, Iseo, Adelchi, Adrasto, Turati, Treves, Cesio e uno che mi devo essere perso) e le otto sorelle, con continue emersioni dialettali venete dritte dritte dal sangue e le memorie e le zolle; un io orale che rilegge la storia mondiale con disincantato e bonario occhio contadino, facendo parlare i potenti come figure d’osteria di Copparo o di Bagnolo di Po, con esilaranti duetti tra Mussolini e Hitler, e il senatore Agnelli che esibisce un meraviglioso buon senso popolare quando, informato della dichiarazione di guerra all’America, se ne esce con un “Bòia fàus, ma non glielo avete fatto vedere un elenco del telefono di New York?”; un io che, con scetticismo e comprensione umana, sa anche sollevare la trama degli eventi, per trovare che la storia è fatta di sopravvivenza dalla parte del torto e che in fondo hanno tutti le proprie ragioni.
Un narratore che se ogni tanto avesse evitato qualche Come dite? di troppo per rilanciare il racconto, non sarebbe stato male. Un narratore che, anche, fosse stato un po’ meno onnisciente, tanto da risultare poco credibile, non sarebbe stato male neanche questo: un po’ perché come si fa il macadam o che cos’è la livellatura, al racconto serve fino a un certo punto; un po’ perché è poco credibile che l’interlocutore sia in grado di rimbeccare l’io parlante su aspetti minuti, richiedendo distinguo e puntualizzazioni, e poi necessiti di chiarimenti su argomenti da terza media o poco più.
Insomma, ogni tanto il canovaccio della necessità editoriale di portarsi appresso anche il lettore più sprovveduto, di costruire il romanzo storico del Novecento, o di voler fare assolutamente il “grande romanzo contadino delle nostre origini che mancava finora”, si vede un po’ troppo, e non sempre si raggiunge l’equilibrio tra dimensione narrativa e ricostruzione del contesto storico-culturale. Né il romanzo scorre sempre ottimamente; in certi punti si vede un po’ troppo la funzione di raccordo. L’impressione è che forse si sia puntato troppo sull’aspetto piacevole e divertente (e a tratti lo è molto) sacrificando il lavoro sui personaggi, a parte alcuni che si stagliano con una certa vivezza, sebbene a tratti più maschere che uomini. Alcune scene hanno in realtà una loro potenza, e non negherò che alcune siano quasi commoventi; molto spesso c’è però qualcosa, in realtà, di già letto; il richiamo al realismo magico è fin troppo evidente, col rischio – vista l’ambientazione ciociaro-latinese –di risultare a tratti un po’ maggico de noartri, e quelle api attorno ad Armida non possono non far venire subito in mente le farfalle intorno a un certo personaggio di un celebre autore colombiano.
Il romanzo, nel complesso, comunque tiene: la stessa tecnica del filò, con episodi ripresi e preannunciati, ripetuti e modificati, ha una certa forza trascinante, così come le divagazioni e le diversioni, che riescono con una certa naturalezza discorsiva a tornare sempre al punto di origine. E a far avanzare il romanzo, è anche la domanda fondamentale: ma questo io-parlante, quale accidenti di Peruzzi è? Di chi diamine è figlio? Vorrei dirvi che la rivelazione arriva bruciante all’ultima riga. Ecco no, ci si arriva un bel po’ prima. C’è però una parolina, quella sì, inattesa, che merita che si arrivi a concludere la lettura.
L’intenzione, qui, è ottima. Un grande saga familiare italiana, come in Italia non ce n’è. O meglio, come non ce n’è a parte Bacchelli, e il debito lo riconosce lo stesso Pennacchi. Anzi, quel riallacciare la famiglia del romanzo a un certo avo reduce della Grande Armée, tornato dalla Russia con una ricchezza misteriosa e finito a fare il padrone di un mulino sul Po, è qualcosa di più che un tributo criptato. E poi, una grande saga familiare come in Italia non ce n'è a parte quell'altra famiglia là in Sicilia, ma questa è davvero un'altra storia.
E in più c'è l'intenzione fare un romanzo storico, come in Italia non ce n’è. Maledetto copia-incolla; volevo dire “che invece ce n’è fin troppi”. E fare allora, mettendo insieme tutto, una saga familiare, storico-popolare. La storia dei Peruzzi, tre generazioni (che poi forse sono quattro, ma questo bisogna arrivare all’ultima pagina per deciderlo) che – siano sempre maladéti i Zorzi Vila – dal Ferrarese scendono all’Agro Pontino per scampare a fame e povertà.
A voler essere retorici quanto il quarto di copertina, la grande epopea di una famiglia, e di tutto un popolo che in una forma o nell’altra si porta appresso, alla ricerca di una nuova terra: un’Eneide incentrata su Pericle Peruzzi, il Leone dei Peruzzi, fumantino e generoso, un Enea contadino che ("il solco dell'aratro, e la spada che lo difende", com'era...) sa prendere in mano la zappa e la spada. O il manganello. Perché la nuova Terra Promessa, l’humilis Italia, è quell’Agro Pontino bonificato dal fascismo in cui tra il 1932 e il 1935 vengono inviati trentamila mezzadri dal Veneto, le Romagne, il Friuli, pezzenti cispadani di fatica e sudore e fame sbattuti come coloni tra i marochin e le zanzare, le paludi e la malaria.
Una grande opera di ingegneria idraulica, senza dubbio, in cui il Canale Mussolini (oggi Canale delle Acque Alte) raccoglie e drena tutte le acque della Piscinara tra Anzio e Terracina portandole nel mare, tra città modello che sorgono e il disastro che si approssima. E Canale Mussolini, nella sua natura di romanzo storico, è anche una storia dell’Italia dalle proteste anarco-sindaliste di inizio secolo alla fine della Seconda Guerra mondiale. Quota 90, delitto Matteotti, il Maggio radioso, la vittoria mutilata, Piazza San Sepolcro, la campagna d’Etiopia. Tutto seguendo le peregrinazioni, i matrimoni, i disastri, le nascite dei Peruzzi, che otterranno di poter ricominciare tutto in un podere dell’Agro Pontino, perché qualche merito Pericle Peruzzi presso il fascismo lo vanta, in primo luogo quella bastonata con cui ammazzò un prete resistente. Lo ammazzò per sbaglio, oh, sia chiaro, che lui mica voleva. Durante una punizione punitiva, va bene, ma per sbaglio, che se no il personaggio non sta più simpatico e non si vende. Famiglia fascistissima i Peruzzi, da sempre, che il Duce e Rossoni pranzavano da loro, e anzi il Duce, giovane torello, ci guardava il culo a nonna Peruzzi quand’era giovane anche lei. Sì insomma, il fascismo certo, le leggi razziali, e la guerra così sballata, e l’Uomo che ci ha creduto pure lui di essere infallibile, e comunque hanno cominciato i rossi, e però ha fatto tante cose buone.
E l’io narrante distingue e glossa, in quel filò di tradizione veneto-contadina che è tutto il libro, una chiacchierata co na ombra de moro nel bicer con un interlocutore muto, un po’ insofferente, un po’ puntiglioso, un po’ testone pure lui. Un io narrante che riallaccia la storia famigliare, seguendo le trame di quei nove fratelli (Temistocle, Pericle, Iseo, Adelchi, Adrasto, Turati, Treves, Cesio e uno che mi devo essere perso) e le otto sorelle, con continue emersioni dialettali venete dritte dritte dal sangue e le memorie e le zolle; un io orale che rilegge la storia mondiale con disincantato e bonario occhio contadino, facendo parlare i potenti come figure d’osteria di Copparo o di Bagnolo di Po, con esilaranti duetti tra Mussolini e Hitler, e il senatore Agnelli che esibisce un meraviglioso buon senso popolare quando, informato della dichiarazione di guerra all’America, se ne esce con un “Bòia fàus, ma non glielo avete fatto vedere un elenco del telefono di New York?”; un io che, con scetticismo e comprensione umana, sa anche sollevare la trama degli eventi, per trovare che la storia è fatta di sopravvivenza dalla parte del torto e che in fondo hanno tutti le proprie ragioni.
Un narratore che se ogni tanto avesse evitato qualche Come dite? di troppo per rilanciare il racconto, non sarebbe stato male. Un narratore che, anche, fosse stato un po’ meno onnisciente, tanto da risultare poco credibile, non sarebbe stato male neanche questo: un po’ perché come si fa il macadam o che cos’è la livellatura, al racconto serve fino a un certo punto; un po’ perché è poco credibile che l’interlocutore sia in grado di rimbeccare l’io parlante su aspetti minuti, richiedendo distinguo e puntualizzazioni, e poi necessiti di chiarimenti su argomenti da terza media o poco più.
Insomma, ogni tanto il canovaccio della necessità editoriale di portarsi appresso anche il lettore più sprovveduto, di costruire il romanzo storico del Novecento, o di voler fare assolutamente il “grande romanzo contadino delle nostre origini che mancava finora”, si vede un po’ troppo, e non sempre si raggiunge l’equilibrio tra dimensione narrativa e ricostruzione del contesto storico-culturale. Né il romanzo scorre sempre ottimamente; in certi punti si vede un po’ troppo la funzione di raccordo. L’impressione è che forse si sia puntato troppo sull’aspetto piacevole e divertente (e a tratti lo è molto) sacrificando il lavoro sui personaggi, a parte alcuni che si stagliano con una certa vivezza, sebbene a tratti più maschere che uomini. Alcune scene hanno in realtà una loro potenza, e non negherò che alcune siano quasi commoventi; molto spesso c’è però qualcosa, in realtà, di già letto; il richiamo al realismo magico è fin troppo evidente, col rischio – vista l’ambientazione ciociaro-latinese –di risultare a tratti un po’ maggico de noartri, e quelle api attorno ad Armida non possono non far venire subito in mente le farfalle intorno a un certo personaggio di un celebre autore colombiano.
Il romanzo, nel complesso, comunque tiene: la stessa tecnica del filò, con episodi ripresi e preannunciati, ripetuti e modificati, ha una certa forza trascinante, così come le divagazioni e le diversioni, che riescono con una certa naturalezza discorsiva a tornare sempre al punto di origine. E a far avanzare il romanzo, è anche la domanda fondamentale: ma questo io-parlante, quale accidenti di Peruzzi è? Di chi diamine è figlio? Vorrei dirvi che la rivelazione arriva bruciante all’ultima riga. Ecco no, ci si arriva un bel po’ prima. C’è però una parolina, quella sì, inattesa, che merita che si arrivi a concludere la lettura.
Gran bella analisi di un libro che ho molto amato. Condivido tutto, e ammiro allo stesso modo le cose che dici e come le dici. Un blog da seguire, il tuo. Grazie.
RispondiEliminaTi ringrazio molto; spero di riuscire a continuare. E buon lavoro anche a te.
RispondiElimina