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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

sabato 25 giugno 2011

Tutti i giorni che Lot entrò in Zo-ar

Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini [1969], Milano, Feltrinelli

A nascere maschio con sorelle maggiori, manesche e telecomandiste, c’è niente da fare, se sei un ragazzino degli anni ottanta. Footloose ti tocca vederlo. E mentre quelle ballonzolano in giro su “Holding out for a Hero”, tu riesci a distrarti da Ariel per concentrarti su una battuta di due secondi in una scena secondaria. E ti resta la curiosità per quel libro (ormai un classico, come lo definisce quella faccia da schiaffi di Ren McCormack) che in quel buco di posto da qualche parte della Bible Belt in cui è finito – dove rock e ballo sono proibiti per legge – a leggerlo a scuola si suscita scandalo e riprovazione. Devo proprio leggerlo, ti dici, questo Mattatoio N. 5. E te lo dici per parecchi anni. C’è voluto un po’. E ormai pure Kevin Bacon non sta più tanto bene; figuriamoci io.
Ma se l’avessi letto allora, non so che cosa avrei capito.
Formalmente un libro di fantascienza. E come definire altrimenti la storia di un uomo, Billy Pilgrim, che viene rapito dagli alieni del pianeta Tralfamadore, e da loro piazzato in uno zoo insieme alla nota attrice porno Montana Wildhack (bel nome d’arte, peraltro). E che altro, se non fantascienza, peraltro divertentissima, è un libro in cui il protagonista, come già dice il cognome, transita in continuazione nello spazio-tempo? Naturalmente, un libro non diventa un capolavoro della letteratura mondiale, né uno dei libri più banditi da biblioteche e scuole, sulla base di un plot così bislacco. E potrebbero bastare per l’estromissione dagli scaffali, ma non per il riconoscimento di alcuna qualità letteraria, la caustica satira contro la società americana e il fatto che il libro sia uno dei testi fondamentali dell’antimilitarismo. Perché, certo, il nucleo del libro, la sua ragione esistenziale, è il racconto del devastante bombardamento anglo-americano su Dresda (13-15 febbraio 1945), di cui lo stesso Vonnegut fu testimone oculare da prigioniero di guerra. E anche Billy Pilgrim è testimone del disastro, sopravvissuto solo perché riparato nei sotterranei del mattatoio della città.


Il libro è meraviglioso invece perché lo straziante trauma della guerra diventa il perno di un’intera esistenza, quella di Billy, dalla primissima infanzia alla morte nel 1976: una vita fragile, scossa dal dolore, opacizzata da una America civilmente atrofizzata e culturalmente astenica, casa-soldi-matrimoniod’interesse-bulimia-“Denunciate il giudice Earl Warren per alto tradimento”-“sosteniamo i nostri ragazzi in Vietnam”. Così va la vita. Qualcuno crepa? Così va la vita. Tragedia incalza tragedia in grottesca e insensata sequenza? Così va la vita. Per 106 volte. Ma non è così per gli abitanti di Tralfamadore. Loro vivono ogni tempo contemporaneamente, incastonati nell’ambra di ogni istante, senza un “perché”. Loro vivono in quattro dimensioni. Per loro un essere umano è un millepiedi, con gambette da bambini a un capo e gambe da vecchi all’altro. Solo gli umani dicono quella frase così strana, “Così è la vita”, perché la vedono come attraverso un tubo “la cui estremità è appoggiata a un sostegno a due gambe imbullonato a un pianale”. Un mito della caverna moderno e ineludibile.E per di più i Tralfadoriani trovano stupidi i terrestri, i soli della galassia a credere nel libero arbitrio, come se qualcosa potesse essere scelto o mutato; loro, invece, vivono tutto, ogni istante, ogni luogo. Anche Billy, che ha potuto beneficiare della loro saggezza, allora viaggia in un tempo non lineare, tra tutti i suoi ricordi, e tra i ricordi di ciò che ancora non è avvenuto. E il libro stesso è costruito come un romanzo tralfadoriano. Brevi frammenti, che un tralfadoriano saprebbe leggere contemporaneamente, perché contemporaneamente coesistono.
E per quanto tutto ciò sia alquanto un-American, proprio per la sua esperienza con gli alieni con le manine sugli occhi, Billy ha capito che nulla è modificabile, né il passato, né il presente, né il futuro, in un cimitero della volontà, dove tutto è già segnato e definitivo, e può essere sempre solo rivissuto, in un ordine caotico e imprevedibile. Un tempo che torna sempre, immodificabile. “Mi chiamo Yon Yonson / e sto nel Wisconsin”, come riporta il limerick del capitolo di prologo. Noi diremmo, “C’era un voltà un re / seduto sul sofà”; già, perché il libro si apre con un prologo di un narratore, un vecchio rudere con i suoi ricordi e le sue Pall Mall, anche lui costretto a riflettere sulla storia, il tempo, e la letteratura. A tracciare linee di plot con pastelli colorati su un grande rotolo di carta, in uno dei più brevi e affascinanti brani “Io i miei libri li scrivo così”. E un narratore che arriva ad accettare che scrivere un libro contro la guerra è come scrivere un libro contro i ghiacciai.
E allora agli occhi di un umano, questo libro tralfadoriano è breve, confuso e stonato perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Nulla da dire, e nulla da chiedere. Dopo un massacro tutto tace, e solo gli uccelli dicono Puu-tii-uiit. Re Salomone parlava agli uccelli. E qualcosa di biblico c’è in questo libro; nella figura di Lot, che seppe voltarsi e restare di sale, mentre Sodoma e Gomorra bruciavano; nel suo incipit profetico, Ascoltate. Billy Pilgrim ha viaggiato nel tempo; nelle ultime parole, quella domanda Puu-tii-uiit?, che un uccello rivolge a Billy quando affiora dal mattatoio n. 5, lui che ha viaggiato nel tempo e ha visto e rivisto la propria morte e la distruzione dell’universo.

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