Manuele Fior, Cinquemila chilometri al secondo, Bologna – Roma – Parigi, Coconino Press, 2010, euro 17
Con questo graphic-novel, vincitore come Miglior Album al festival di Angoulême 2011*, uno dei migliori autori della penultima generazione italiana del fumetto racconta una storia di dispersioni e ritrovamenti lungo vent’anni di vita.
Di tre vite: Piero, Lucia, Nicola. Tre ragazzini cresciuti in un paesone senza nome che sembra fermo agli anni Cinquanta; chissà, forse proprio quella Cesena da cui Manuele Fior è partito per vivere in ogni dove dell’Europa; una di quelle cittadine tra la Romagna e le alte Marche in cui i sogni nascono e germogliano, e in cui un giorno si torna quando qualcosa finisce, o da cui nemmeno si parte mai.
Il graphic-novel si apre con un preambolo di un giorno affocato di prima estate, quando nascosti dietro le veneziane di una finestra, Piero e Nicola, amici inseparabili, osservano quella ragazza appena arrivata a vivere dall’altra parte del cortile. Ma Piero e Nicola sono troppo diversi; Piero, secchione e imbranato, un giorno sarà un grande egittologo. Nicola, sciupafemmine e scapestrato, rileverà il magazzino del padre. E Lucia partirà; “Senza di te ricomincio a respirare”, scrive a Piero quando finalmente arriva a Oslo per raccogliere materiale per la sua tesi su Ibsen. E Lucia da Oslo non se ne andrà; si sposerà; avrà una figlia. Anche Piero, tra un successo professionale e l’altro, si rifarà una vita, tra una donna che non ama e un figlio inatteso, perché non è questione di felicità o di libertà, ma di giusto e sbagliato, come ben sa Hassan, il volto segnato dalla vita, il vecchio lavoratore egiziano dello scavo di Abu Simbel.
I cinque capitoli del romanzo sono scanditi – numerati – da una goccia di pioggia, due gocce, tre gocce, quattro, cinque; perché piove sulla favola bella che ieri c’illuse, e piove sul fallimento dei sogni di Lucia (ancora a casa di mia madre, una bambina di 8 anni, a insegnare letteratura in un istituto tecnico di provincia, grassa come una vacca); piove su Nicola, spento e appesantito, tradito e traditore; piove su Piero, meschino e disilluso, confuso di fronte a una trama di vita che non riesce a riallacciare. E l’ultimo capitolo, bellissimo e doloroso, malinconico e amaro, si apre con una pittorica tavola a piena pagina dell’asfalto allagato dal temporale. “Non siamo mica qui per la resa dei conti”; ma forse è proprio così.
I bellissimi acquarelli di Fior, che ora sono più densi e tersi, e ora improvvisamente si allargano e diluiscono e sporcano in tavole di grande formato come quadri onirici e silenziosi, guidano nei colori e negli umori di questi vent’anni; il verde-azzurro freddo della Norvegia, il giallorosso dell’Egitto, sabbioso e disidratato nel sogno erotico della febbre di Piero, il grigio-cobalto dell’ultimo incontro, di quando, placato il nubifragio, si torna a dare l’ultimo sguardo a un mare che non si vedrà più. Sai cos’è peggio di partire? Ritornare. Tutto di cambiato. Tranne se stessi.
Di tre vite: Piero, Lucia, Nicola. Tre ragazzini cresciuti in un paesone senza nome che sembra fermo agli anni Cinquanta; chissà, forse proprio quella Cesena da cui Manuele Fior è partito per vivere in ogni dove dell’Europa; una di quelle cittadine tra la Romagna e le alte Marche in cui i sogni nascono e germogliano, e in cui un giorno si torna quando qualcosa finisce, o da cui nemmeno si parte mai.
Il graphic-novel si apre con un preambolo di un giorno affocato di prima estate, quando nascosti dietro le veneziane di una finestra, Piero e Nicola, amici inseparabili, osservano quella ragazza appena arrivata a vivere dall’altra parte del cortile. Ma Piero e Nicola sono troppo diversi; Piero, secchione e imbranato, un giorno sarà un grande egittologo. Nicola, sciupafemmine e scapestrato, rileverà il magazzino del padre. E Lucia partirà; “Senza di te ricomincio a respirare”, scrive a Piero quando finalmente arriva a Oslo per raccogliere materiale per la sua tesi su Ibsen. E Lucia da Oslo non se ne andrà; si sposerà; avrà una figlia. Anche Piero, tra un successo professionale e l’altro, si rifarà una vita, tra una donna che non ama e un figlio inatteso, perché non è questione di felicità o di libertà, ma di giusto e sbagliato, come ben sa Hassan, il volto segnato dalla vita, il vecchio lavoratore egiziano dello scavo di Abu Simbel.
I cinque capitoli del romanzo sono scanditi – numerati – da una goccia di pioggia, due gocce, tre gocce, quattro, cinque; perché piove sulla favola bella che ieri c’illuse, e piove sul fallimento dei sogni di Lucia (ancora a casa di mia madre, una bambina di 8 anni, a insegnare letteratura in un istituto tecnico di provincia, grassa come una vacca); piove su Nicola, spento e appesantito, tradito e traditore; piove su Piero, meschino e disilluso, confuso di fronte a una trama di vita che non riesce a riallacciare. E l’ultimo capitolo, bellissimo e doloroso, malinconico e amaro, si apre con una pittorica tavola a piena pagina dell’asfalto allagato dal temporale. “Non siamo mica qui per la resa dei conti”; ma forse è proprio così.
I bellissimi acquarelli di Fior, che ora sono più densi e tersi, e ora improvvisamente si allargano e diluiscono e sporcano in tavole di grande formato come quadri onirici e silenziosi, guidano nei colori e negli umori di questi vent’anni; il verde-azzurro freddo della Norvegia, il giallorosso dell’Egitto, sabbioso e disidratato nel sogno erotico della febbre di Piero, il grigio-cobalto dell’ultimo incontro, di quando, placato il nubifragio, si torna a dare l’ultimo sguardo a un mare che non si vedrà più. Sai cos’è peggio di partire? Ritornare. Tutto di cambiato. Tranne se stessi.
La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto.
(M. Luzi)
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto.
(M. Luzi)
* Che, per chi non lo sapesse, non è proprio pizza e fichi.
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