Walter Tevis, L’uomo che cadde sulla terra [1963], Roma, Minimum Fax, 2006
Ci sono libri che non sono nemmeno belli. Rudimentali, semplici, artigianali. Forse persino grossolani. Eppure sono libri che vorresti avere scritto tu. L’uomo che cadde sulla terra dovrebbe essere soltanto un libro di science-fiction; un’evoluzione dello schema dell’invasione aliena: il sedicente Thomas Jerome Newton attraversa il sistema solare per sbarcare in un paesino del Kentuky, dove si mescola agli umani imitandone le fattezze; qui, progressivamente, attraverso le sue conoscenze scientifiche dovute all’enormemente superiore tecnologia del pianeta di provenienza, Newton arriva a diventare un ricchissimo industriale, accumulando un colossale capitale economico. Grazie alla sua abnorme ricchezza, l’alieno avvia la costruzione di un progetto d’avanguardia, che si rivelerà un traghetto spaziale per trasportare gli altri abitanti del pianeta Anthea sul pianeta Terra, in cui si infiltreranno nelle posizioni di potere. Un canovaccio non particolarmente rivoluzionario, insomma.
Però Tevis non è stato solo un autore di fantascienza, ed è anzi ben più noto per Lo spaccone e Il colore dei soldi, di cui sono state fatte celebri trasposizioni filmiche. Anche L’uomo che cadde sulla terra ha avuto una bellissima trasposizione, con un David Bowie al suo primo film da attore.
E ciò che rende questo romanzo un piccolo capolavoro è proprio che, come tutti i grandi libri di fantascienza, è ben più che solo questo. Thomas Jerome Newton, infatti, non “scende”, non “arriva”, non “atterra”. Thomas Jerome Newton cadde.
La vicenda dell’antheano ha un correlativo oggettivo nella tavola di Bruegel il Vecchio, Paesaggio con caduta di Icaro, posseduto da uno dei personaggi. Nel dipinto, mentre – sulla fedele sinopia delle Metamorfosi di Ovidio (VIII 152-235) – la vita ferve, e gli uomini, ignari, attendono ai lavori quotidiani, in un angolo, sottratto anche allo sguardo dello spettatore frettoloso, il pennello afferra la tragedia sconosciuta, l’ultimo istante prima che le gambe di Icaro, al termine del volo, sprofondino per sempre nelle acque. E la prima sezione del romanzo si intitola proprio La discesa di Icaro.
Perché sotto l’involucro della fantascienza si snoda un romanzo polisemico e doloroso. Un grande apologo sulla solitudine e il fallimento, l’alienazione di chi attraversa un’esistenza disgustosa e fuori-posto: un’anatra sola in mezzo al lago, un migratore stanco.
Thomas Jerome Newton, alto uno e novanta, magrissimo, senza peli e capezzoli, senza unghie, quattro dita dei piedi, niente sterno niente denti del giudizio niente traspirazione niente appendice niente midollo niente coccige niente costole mobili, deve vivere camuffato, negando se stesso, per confondersi tra gli uomini; per lui, abituato a una gravità pari a un terzo di quella terrestre, e a un pianeta molto più freddo, ogni movimento è una terribile sofferenza, costretto ad assumere continue misteriose medicine per sopravvivere. Costretto a vivere in un mondo ripugnante, tra gli uomini come un uomo potrebbe vivere in un branco di scimmie.
Si sentì disgustato e stanco di quel popolo dozzinale ed estraneo, di quella cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell’aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti.
La stanca nausea di chi non si riconosce nella propria vita, esule nella propria esistenza, lottando contro la nostalgia, la paura, il tempo. Perché il suo popolo, lassù, sta morendo, in un deserto freddo sconvolto dalle guerre atomiche; senza energia, materiali, cibo, i trecento antheani rimasti, e sua moglie e i suoi figli, muoiono poco a poco. E muore il pianeta Terra, precipitando rapinoso verso la catastrofe nucleare. L’unica speranza, per antheani e terrestri, è che lui riesca a costruire quel traghetto che possa trasportare tra gli umani gli ultimi antheani, sottraendoli alla morte per inedia e permettendo loro di salvare la Terra, quando ne avranno assunto la guida, dal suo destino. Ma Newton – cognome che ha in sé la legge inesorabile e naturale della gravità – non potrà infine che cadere.
Newton assurge infatti a figura cristologica, come quel crocifisso dai tratti antheani visto in una delle primissime pagine. Uno Jesus Patibilis, prigioniero della cecità di un mondo rozzo e impuro. Henri-Charles Puech, in Sul manicheismo, scrive: «Questo Gesù cosmico e atemporale è crocifisso sulla Materia cui la sua anima luminosa è “mescolata”. Il mondo intero è la “Croce della Luce”». Newton, che come tutti gli antheani, conosce il senso di colpa e di espiazione, sarà allora tradito, imprigionato, vilipeso, torturato, sconfitto. Così si segna il destino di Newton, la morte di due mondi, nella cecità, non più solo metaforica, in cui lo stesso antheano infine sprofonderà.
La fuga dalla paura, dalla malinconia, dallo sconforto, dalla tragedia, da una vita stupida e tremenda, può essere solo l’alcool. Tevis, alcolista cronico e doloroso, raffigura, in tutti i suoi personaggi, il rifugio e il sollievo nell’opacità donata dal gin. Questa storia di solitudine affonda nei lineamenti incerti del liquore e delle lacrime, da cui, quando tutto sarà compiuto, si alzerà una poesia triste, liquida, a lunghe vocali, con strane curve di tono levata verso un pianeta lontano, nella speranza che qualcuno possa ancora ascoltare il suo addio, là da qualche parte tra le stelle. Lama sabachtani.
Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.
(W.H. Auden, Musée des Beaux Arts, 1938)
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