Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene [1960], Milano, Adelphi, 2009 (1992), euro 8
Nel quarto di copertina, il brano estrapolato dalla presentazione di Terry Pratchett recita “Il libro che avete fra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni”. E questo non è certo un incipit rivoluzionario per una scheda sul fortunatissimo libretto di Lewis; la citazione compare infatti in parecchie delle recensioni disponibili su internet. Capita però che in un blog tale frase dia il destro per l’osservazione che l’umorismo sia un fatto soggettivo perché, in fondo, il libro non è poi così divertente.
Credo che quell’iperbole (“uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni”) si chiami anacronismo ironico.
E anacronismo e ironia sono i due elementi che rendono meritevole di una lettura questo libretto che – sarà anche merito del traduttore – non denuncia affatto, per brio e scorrevolezza, i suoi cinquant’anni e rotti. Un piacevolissimo libro da ombrellone, da corriera, da prato ombroso, da non lo reggo più questo esame in Storia delle istituzioni militari.
Avete presente le figure dell’Eva mitocondriale o dell’Adamo cromosomiale-Y? Quelle figure ancestrali comuni da cui, in linea retta, discenderebbe l’intero patrimonio cromosomico umano? Come Eva, vissuta ca. 200.000 anni fa, da qualche parte in Africa, unica tra tutte le donne contemporanee ad avere una linea genetica ancora attiva. Come Adamo, vissuto tra i 140.000 e i 60.000 anni fa, sempre in Africa, e da cui deriverebbero tutti i cromosomi Y in circolazione. Bene; qualcosa dobbiamo anche ad Edward, il più grande uomo scimmia del Pleistocene.
È a lui – vissuto nel Pleistocene medio in un territorio tra i vulcani Kenya e Ngorongoro – che dobbiamo le grande tappe culturali e tecnologiche e sociali dell’evoluzione; dalla scoperta del fuoco a quella della sua producibilità e poi del suo uso alimentare, all’esogamia, ai primi tentativi di addomesticamento. Anzi, concentrati nella sua famiglia, osserviamo una sorta di flash-forward dell’evoluzione paleolitica, nonché la prima articolazione sociale e professionale della specie umana. I cinque figli di Edward rappresentano infatti gli embrioni di diversi tipi sociali e psicologie: il guerriero (Oswald), l’artigiano (Wilbur), l’artista (Alexander), l’allevatore (William).
Non solo, come divertentissimo controcanto agli studi di Emmanuel Anati (Origini dell’arte e della concettualità, Arte rupestre: il linguaggio dei primordi, Le radici della cultura), per dirne uno, in seno alla sua famiglia nasce anche l’arte rupestre, con tutte le sue implicazioni concettuali, la sua rottura dell’immaginario.
Altamira |
Lascaux |
Lascaux |
Alta |
Alta |
Bansky, Early Man |
Early Man di Bansky, "esposto" al BM |
E sempre a lui dobbiamo un Neanderthaliano con vassoio take-away. Perché in fondo l’uomo paleolitico serve per parlare di noi.
Bansky, Caveman |
E allora la grande avventura di Edward verso l’Olocene, il suo inquieto interrogarsi sul punto del Pleistocene a cui la “sub-umanità” è giunta e di quali siano le glaciazioni che si susseguono, la sua insoddisfazione per ogni inerzia tecnologica e culturale (“ma cosa avete fatto di nuovo”), l’impegno a lasciare un mondo migliore di quello trovato, il timore di ogni specializzazione come preludio all’ossificazione e alla decadenza, la coscienza che un ristretto spettro di attività comporti una povertà di linguaggio che a sua volta implica una ridotta astrazione, tutto ciò parla di noi.
Perché non è tutto così semplice; non solo per le resistenze di zio Vania, che di fronte alla conquista del fuoco inveisce “Tu stai cercando di migliorare te stesso. E questo è innaturale, disobbediente, presuntuoso, e potei aggiungere volgare, piccolo-borghese e materialistico. [...] Non sei più innocente, ma sei ignorante.” Ma soprattutto la sua irrequieta ricerca è raccontata dal quinto figlio, Ernest. Che non si capisce bene che cosa faccia; in concreto, nulla; si autodefinisce il pensatore, ma l’impressione è che abbia agito in Lewis una sorta di autocensura, e il fatto che Ernest sia colui che – sulla base dell’analogia con quel che resta del mondo parallelo dei sogni – elabora il concetto dei grandi territori di caccia in cui si va dopo la morte, fa supporre facilmente quali siano le sue vere identità e funzione (e se no che ne facciamo della tripartizione di Dumézil?). E c’è una ragione se è proprio Edward a raccontare, e a raccontare quello che accade il giorno in cui il padre, con spirito di vero ricercatore, decide che tutta la sub-umanità deve conoscere come produrre il fuoco. “Papà fa dei bellissimi sogni”.
E ringraziamo al riguardo il redattore che non sia stato adottato uno dei vari titoli con cui il libro comparve nel modo anglosassone, uno dei titoli più suicidi della storia editoriale.
Resta una bellissima frase di Edward, una riflessione che oggi è forse più pressante di quando fu scritta, di quando fu pensata, da qualche parte del Kenya, quando un Sapiens disse “Se la routine quotidiana ci impegna tanto, come facciamo a pensare? [...] Senza un certo agio e una certa tranquillità non può esserci lavoro creativo, né cultura, né civiltà”. E se nessuno la disse, e se forse nemmeno la pensò, forse almeno qualcuno, affilando una selce, in qualche modo la percepì.
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