In un precedente post accennavo al fallimento del velleitario progetto di pubblicare le schede di tutta la cinquina dei finalisti dello Strega 2011. Oggi, qualche ora prima della proclamazione, inserisco quella del testo che ha ricevuto più punti nell’ultima selezione.
Edoardo Nesi, Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia, Milano, Bompiani, 2011, euro 14
Non ricordo dove lessi di un qualche critico che non rammento il quale, per recensire un romanzo il cui titolo ora mi sfugge, preferì limitarsi a descriverne la copertina. La copertina di Storia della mia gente (progetto grafico Polystudio) presenta, incardinati in una cornice bianca, cinque campioni sovrapposti di tessuti; su ognuno corrono, incolonnati con giustificazione a epigrafe, in caratteri bianchi, il nome e cognome dell’autore (nel campione superiore, alto circa il doppio degli altri) e, una per una, le parole del titolo di primo livello. Sotto al tartan che costituisce il campione inferiore, a richiamarne il cromatismo con un color oro consonante, il titolo di secondo livello, in caratteri maiuscoli. Copertina confacente, senz’altro, e non per il tema del libro, il doloroso e repentino collasso dell’industria tessile pratese. Per la forma. Una campionatura un po’ di tutto; riconosciuta la sincerità dell’intento di Nesi, una campionatura di un po’ tutto ciò che può far ambire a un Premio Strega.
Il libro mi sembra qualcosa di irrisolto, persino di irresoluto; un libro che non riesce a prendere una forma. Non ci sarebbe nessun problema, se soltanto fosse difficile dare una definizione dell’opera. Saggio? Pamphlet? Invettiva? Memorie? Tutto insieme? Il problema è che i generi non dialogano; l’uno non serve agli altri. Il titolo Storia della mia gente: qui, purtroppo, non c’è né storia, né gente. Qui c’è solo Edoardo Nesi.
Arriva il mio martini e, prima di berne il primo sorso che è sempre il migliore per certe incontrovertibili ragioni fisiche, annuso il meraviglioso profumo di acqua di colonia che emana per qualche secondo, se è fatto bene – cioè con una presenza infinitesimale di vermouth e col Tanqueray (p. 46). Interessante.
So che esistono i diesis e i bemolle, ma aldilà dell’apprezzare la morbidezza di questi bei nomi antichi, non saprei definirli nemmeno se ne andasse della mia vita. Lo stesso per il tono, per il colore della musica, persino per l’armonia. Tutte astrazioni che fingo di capire. So che esiste il contrappunto, ma non so cosa sia. Della musica mi piacciono i nomi: clavicembalo, oboe, contrabbasso. Fagotto e controfagotto. Solfeggio. Xilofono e vibrafono. Dodecafonia. (p. 89) Anche io non ho mai capito che cosa sia l’armonia. E, cavoli, anch’io ho sempre trovato buffissimo il nome “controfagotto”. E vi ho mai raccontato che la mia prozia Ginetta, che però si chiamava Luigia (ma la prozia Ginetta non ha mai amato quel nome troppo maschile), una volta laureatasi al conservatorio non toccò più una tastiera perché il padre, buon borghese di inizio ventesimo secolo, ci teneva a una figlia che suonasse il pianoforte, per questione di distinzione? E della sig.na Clerici che ha tentato inutilmente di farmi imparare il più facile dei preludi di Chopin, vi ho mai parlato? Se non l’ho fatto, peccato, perché ho un bellissimo ricordo della sig.na Elena Clerici, che ancora nella sua stanzetta nella casa di riposo di via della Commenda teneva il pianoforte verticale.
Alla mia e-mail Joan Didion ha risposto subito, lo stesso giorno in cui le è arrivata. Ha scritto che mi ringraziava tantissimo – Thank you so very very much –, e che le avevo rischiarato un freddo e buio lunedì newyorchese, L’ho immaginata sorridere fuggevolmente mentre leggeva la mia lettera nel suo candido appartamento di New York che ho visto in tante fotografie, avvolta in una stola di cashmere bianco latte, lei che nella vita ha patito tanto, perché forse le mie sincere e sperticate lodi per un libro che aveva scritto venticinque anni prima le avevano fatto tornare in mente qualcuno dei suoi momenti felici. (p. 71) È sempre importante puntualizzare che “grazie, grazie davvero” in inglese si dice “Thank you so very very much”.
La citazione in epigrafe di F. Scott Fitzgerald (“È una storia meravigliosa. È la mia storia, e la storia della mia gente”) purtroppo vale soprattutto a introdurre uno scottfitzgeraldismo dilagante in tutto il libro; la colonna sonora; i libri letti; quelli scritti; Forte dei Marmi; la Capannina. Purtroppo il sottotitolo La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia non dà ordine e senso al libro.
Né la parte dedicata alla crisi del tessile salva il libro. Che la globalizzazione abbia portato l’industria manifatturiera al collasso, direi che si sa. Che operai rumeni e cinesi sottopagati e senza diritti abbiano risucchiato all’estero il lavoro, basta entrare in un bar per saperlo. Questo è il libro di un ex-industriale e figlio e nipote di industriali; ed è il libro di un narratore nonché, tanto per dire, traduttore di Infinite Jest. Qui però non c’è la competenza, lo sguardo dal cuore del collasso di un sistema – di chi ha visto incrinarsi e creparsi e poi crollare dall’interno l’intera torre del Sistema Italia – né la forza del racconto, la violenza fredda di chi ha avuto in dono le parole per raccontare vite, e storie, e genti. Solo in pochi momenti la pagina si ravviva e scuote; ne scelgo uno, le prime sei pagine del capitolo L’incubo, e proprio perché è il racconto di una vita.
Un libro confuso e pretenzioso, spesso querulo, indefinito e generico. La grande colpa dei politici italiani: aver mandato a firmare trattati economici gente che conosce Sun Tzu e von Clausewitz (davvero in politica abbiamo gente simile?), e non invece quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non i professori. E mandare a Bruxelles trenate di incazzati, e darsi pace se rompevano qualche vetro dei palazzi dei grandi banchieri o se qualcuno finiva per assaggiare i manganelli della polizia belga, perché era per una buona causa. Benissimo; frasi simili le ho sentire dire spesso, e di sicuro non mi formalizzo. Sarebbe stato meglio però dire “e darsi pace se rompevamo qualche vetro dei palazzi ... o se finivamo per assaggiare i manganelli”. È questione di prosodia; suona meglio.
E magari un editor avrebbe potuto segnalare che, una facciata dopo aver detto che i conoscitori di Sun Tzu e von Clausewitz sono responsabili del collasso, mettersi a citare De principatibus XIV per insegnare che cosa si sarebbe dovuto fare, suona poco coerente. Specie se Machiavelli, qui, c’entra davvero poco. Specie se è una delle sue tante frasi decisamente discutibili da un punto di vista argomentativo.
E onestamente, che Edoardo Nesi – Berkeley – Harvard – Mercedes – splendida villa – Forte dei Marmi – classe 1964 concluda, riallacciandosi alla propria generazione X, chiedendo Non c’è nessuno, invece, che debba chiederci scusa per averci condannato a essere la prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori?, sinceramente mi dà solo fastidio. Non doveva essere un libro sulla mia gente? È diventato un libro sulla generazione dei cinquantenni?
Questo è il libro che avrebbe potuto scrivere Hanno Buddenbrook.
E se non si fosse capito, non mi è piaciuto. E non mi è piaciuto proprio perché non si può non far vincere il libro che racconta lo smarrimento della “prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori”. Non sarebbe elegante.
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