Junot Díaz, Drown (A picco), Milano, Mondadori, 2008
Junot Díaz aveva sei anni quando lasciò la Repubblica Dominicana per il New Jersey. In questo sobborgo, Junot era destinato a diventare uno dei più promettenti autori in lingua inglese, tanto da essere considerato da “The New Yorker” tra i venti scrittori determinanti nel ventunesimo secolo.
I dieci racconti di Drown ricostruiscono un piccolo cosmo dell’emigrazione, fortemente autobiografico. Dieci storie incentrate su un ambiguo sistema di personaggi, figure omonime – il piccolo Junior, il poco più grande Rafa, Mami e Papi – colte in stadi diversi della vita, o forse piuttosto forme diverse, e vite diverse, che la stessa famiglia avrebbe potuto assumere; e, in altri racconti, figure anonime ma forse coincidenti con quegli stessi personaggi. Tutto ruota attorno al mondo dell’abbandono, prima nella Repubblica Dominicana e poi negli States, tra speranza e desolazione: l’attesa di una lettera dal padre di là dal mare; di una faccia nuova che non arriva per il ragazzino addentato da un maiale; della fortuna mentre la schiena si spacca a furia di lavorare; di un amore che non fa che sfuggire.
Ragazzini crudeli e padri fuggitivi; spacciatori illusi di amare e vivere una vita normale; drogate in cerca del nulla; bambini che sognano un padre che torna come un eroe o come una creatura miracolosa; uomini di fatica per i quali essere stanchi è la cosa migliore e il cui miraggio per domani è in quale città del New Jersey scaricheranno il loro carico; donne deluse e vinte dall’amore, da un uomo, e dalla vita.
Al centro il racconto eponimo, Drown, storia di un’amicizia finita e di un destino che si serra definitivamente una notte insieme al chiavistello di una finestra, per sempre chiuso in quel quartiere in cui i morenos entrano a picchiare e rubare, e gli arruolatori dell’esercito ti promettono Disciplina e Lealtà e l’unico lavoro che non sia lo spaccio. Ma la maggior parte di voi semplicemente si brucerà. Non andrà da nessuna parte, aveva detto una professoressa a scuola. Non puoi stare in un posto per sempre, aveva detto l’amico di un tempo. E il libro che aveva regalato partendo, era stato buttato via senza nemmeno essere aperto. Mentre la madre dorme davanti alla televisione, sognando di passeggiare con un marito assente sotto le jacarandás, non resta che controllare che le finestre siano chiuse bene. E chiudersi dentro. Andando a picco.
Racconti tutti sempre in prima persona, con aggettivazione ridottissima, una lingua scabra, corrosiva, dura, che procede per traumi e silenzi e dolori. Prendete quel manuale di corteggiamento per il ghetto che è Come uscire con una ragazza marrone, nera, bianca o mulatta: un ricettario (Aspetta... Togli... Scrivi...) del disastro, una casistica (Se la ragazza viene da Terrace... Se viene da Park o da Society Hill) da Casanova fallito; la sconfitta è in fondo al racconto, da raggiungere azione dopo azione, snodo dopo snodo, naturalmente, inevitabilmente, come se ogni passo fosse già previsto (Non scendere. Non addormentarti. Non ti aiuterà. Rimetti a posto il formaggio dell’assistenza prima che tua madre ti uccida). Tutta la raccolta è così, con questa forza narrativa interna e incalzante, evento dopo evento, come se ogni tragedia, sconfitta, rinuncia fosse già scritta, e dovesse solo essere ripercorsa ancora una volta.
Nessun commento:
Posta un commento