S. O’Kelly, La tomba del tessitore. Una storia di vecchi, Macerata, Quodlibet, 2011
Talora, di fronte a un libro, dici, Ma tu da dove salti fuori?
Seumas O’Kelly, morto nel 1918 a Dublino mentre difendeva la redazione del suo giornale dall’assalto delle truppe britanniche ubriache, è stato contemporaneo, e protagonista titubante, del revival celtico di William Butler Yeats.
La maggior parte delle novelle di Celtic Twilight, racconta Yeats nel primo dei racconti della sua antologia, è dovuta al vecchio Paddy Flynn, sordo solitario e visionario, solito a parlare coi vecchi santi gaelici, le fate e le banshee. Il dialogo coi morti, la loro permanenza, gli incerti confini tra i mondi, le tradizioni secolari che risalgono a quando Fionn mac Cumhaill uccise Aillen che assopiva gli uomini col suo canto, tutto ciò è tema tradizionale nella cultura gaelica. Depositari di questo dialogo, sono proprio i vecchi.
Quando Mortimer Hehir muore, è ai vecchi, vecchissimi del paese, che la vedova, la quarta moglie, la ben più giovane quarta moglie si rivolge. Perché Meehaul Lynskey e Cahir Bowes sono coloro che ricordano le ultime tumulazioni a Cloon na Morav, l’antichissimo camposanto in cui nessuno viene seppellito da quarant’anni e più, ormai abbandonato per il più moderno e ordinato cimitero i cui morti non hanno saputo far altro che nascere, e morire. Mortimer Hehir invece è la penultima persona ad avere diritto a essere sepolto tra quelle tombe, specchio di una società arcaica, declinante, pre-industriale, in cui le professioni si tramandavano di padre in figlio, e i morti si depositavano gli uni sugli altri a legare i secoli. Una società estinta, a suo modo aristocratica, fatta da Mortimer il tessitore, Meehaul il chiodaio, Cahir lo spaccapietre. Quando sarà morto l’ancor più vecchio Malachi Roohan, il bottaio, Cloon na Morav sarà chiuso per sempre, e si chiuderà una storia di secoli, dei cui segreti Mortimer era stato l’ultimo vero depositario, il tutore geloso.
E allora Meehaul Lynskey e Cahir Bowes, seguiti dalla vedova e dai due scavafosse, avanzano come cartografi in quella città dei morti, quella terra di mezzo fatta di licheni sui muri, terreno sconnesso, smottamenti, tombe inghiottite, pietre inclinate, lapidi crepate, lastre sbriciolate, venti che cantano scendendo dai colli. Come vecchi psicopompi saranno loro a riconoscere dove dovrà essere sepolto Mortimer, il penultimo degli antichi.
Foto di J.C. Ryan (www.johncarltonryan.com/) |
Ma che cos’è un cimitero se non un mondo che si perde e svanisce, e che cos’è la memoria di un vecchio se non un cimitero i cui confini si fanno sempre più sfocati, in cui è impossibile ormai ritrovare la collocazione di quella che dovrà essere la tomba del tessitore. Perché Mortimer Hehir l’unica cosa che ha mai intessuto sul suo telaio, è stata un sogno. Siamo sogno, e non ci sveglieremo, perché quando ce ne andiamo, il sogno se ne va con noi. Questo dice il vecchissimo Malachi, l’ultima parca a parlare. E sogno le donne ormai morte che fecero bollire il sangue di Mortimer Hehir, che lo resero pazzo furioso d’amore, morte soffocate per un osso in gola davanti a lui, quelle donne che gli avevano dato alla testa come un liquore.
Ho udito i vecchi, molto vecchi, dire:
“Tutto muta,
e a uno a uno ce ne andiamo via”.
Avevano mani come artigli, e le ginocchia
erano contorte come i vecchi pruni
sulla riva.
Ho udito i vecchi, molto vecchi, dire:
“Tutto ciò ch’è bello scorre via
come l’acqua”.
(W.B. Yeats, I vecchi che si ammirano nell’acqua)
In quel modo che muore, scomposto, si riallaccia il ciclo della vita. In quel cimitero, in cui ognuno è la famiglia a cui è appartenuto, la professione che è stato, quando quel tempo si è estinto, quella mitologia avvizzita, una donna riconosce un uomo che emerge dall’indistinto, si strappa a quella pietrificata aristocrazia, e pensa che il mondo era strano, il cielo straordinario, la testa dell’uomo contro il cielo rosso una meraviglia. E quando darà il suo assenso alla posizione della tomba del marito, parlerà con la voce fresca come quella di una giovincella.
Volevo, il lucignolo e l’olio consunti
e gelati i canali del sangue,
l’inappagato mio cuore appagare
con la bellezza che vien tratta dallo stampo
in bronzo, ma quando ce ne andiamo si dilegua
più indifferente alla nostra solitudine
che fosse un fantasma. O cuore, siamo vecchi;
la bellezza vivente è per i giovani:
noi non possiamo darle il tributo di lacrime selvagge.
(W.B. Yeats, La bellezza vivente)
NB: Questa traduzione è patrocinata dall’Ireland Literature Exchange / Idirmhalartán Litríocht Éireann (www.irelandliterature.com), un programma di promozione della diffusione della letteratura irlandese nel mondo, con sovvenzioni destinate a case editrici di nazioni estere. Dubito che esista una cosa simile per l’Italia, ma cercherò informazioni al riguardo.
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