Primo Levi, in Se questo è un uomo, racconta di quando, durante l’ora di camminata con il francese Pikolo per andare a prendere la zuppa del rancio, cerca di insegnare l’italiano al compagno di campo utilizzando, come sussidiario mnemonico, il canto di Ulisse. Il brano dantesco affiora alla memoria di Primo a frammenti, come rottami di un naufragio di un’intera civiltà. Ricordare il canto di Ulisse, nella sua lettura vagamente post-romantica, significa rifiutare l’abbrutimento di Auschwitz, rivendicare la propria dignità umana. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e conoscenza. [] Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. [...] Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Pochi anni prima, il 27 dicembre 1938, ma molti kilometri più a est, durante le purghe staliniane moriva nel campo di transito di Vtoraja rečka, sulla strada per la Kolyma, Osip Mandel’štam, uno dei più grandi poeti del Novecento. Mandel’štam fu trasfigurato in mito, e già Erenburg nelle sue memorie riferisce della notizia, circolata nei gulag, di un poeta che, la sera, vicino al fuoco, consolava i suoi compagni di tragedia con le sue traduzioni di Petrarca.
Voi, strappandomi i mari, la rincorsa, lo slancio
e dando al piede il sostegno di una terra forzata,
che avete escogitato? Un calcolo sagace:
il moto delle labbra non può venire sottratto.
(Osip Mandel’štam, da Cinquanta poesie)
Mandel’štam è stato anche un sorprendente e meraviglioso critico dantesco con la sua Conversazione su Dante, e un passo sembra quasi prefigurare quell’esigenza di poesia che Primo e Osip avrebbero provato: La citazione non è un estratto. La citazione è una cicala. Sua caratteristica è l’impossibilità di tacere. Afferratasi all’aria, non la molla più. L’erudizione è ben lontana dal coincidere con la tastiera rammemorativa che costituisce appunto la sostanza della cultura.
Nello stesso torno di anni, e solo in un altro risvolto della stessa tragedia. Friedrich Ohly, grande filologo, ufficiale tedesco durante la seconda guerra mondiale rimase in un campo di prigionia sovietico fino al 1953. Qui sfruttò “pezzi di carta rozza e grossolana, preziosi resti di vecchi sacchi di cemento, a volte leggero legno raschiato con pazienza o minuscoli bianchi cartoncini, i vuoti nocchini srotolati delle sigarette russe”, come pagine per appunti, frammenti di versi, riemersioni, traduzioni, Goethe e Dante, Lancelot e Parzival. Ohly, non a caso, è autore di un meraviglioso saggio, Annotazioni di un filologo sulla memoria, una lungo sguardo su epoche e letterature, incentrato proprio sul tema del ricordo, dell’oblio, della malinconia, della lunga catena di labbra che, nel dolore o nello stupore, sussurrano gli stessi versi. Questo studio del topos del bisogno di essere ricordato, però, ha uno degli incipit più sorprendenti e lievi e dolorosi che ci si possa attendere da un saggio di critica. La paura di un bambino di essere abbandonato.
Nell’uomo il bisogno d’amore e d’amicizia è tanto profondamente radicato che egli, privato di tali sentimenti, intristisce. Sopporta anche grandi lontananze e lunghe separazioni senza paura di perderli, se sostenuto dalla sicurezza d’essere ricordato da chi è lontano. Il timore primordiale di venir dimenticati non esiste solo nell’infanzia, e il fatto che ad un individuo, da bambino, sia stata instillata una profonda fiducia d’essere conservato nell’altrui memoria, che valga a controbilanciare tale timore, può decidere della sua felicità o infelicità. Tra le preghiere più commoventi, il «non dimenticarti di me» – scaturisca esso da fiducia o da inquietudine incipiente – costituisce, piuttosto a livello inconscio che non a quello cosciente, la molla silenziosa dei nostri moti verso gli altri. Ciò vale anche per una parte del desiderio proprio dell’uomo di lasciare alcunché di duraturo che lo ricordi: prodotti del suo spirito e delle sue mani, costruzioni e libri, opere d’arte. [...] Sono le opere a scolpire il nome dei loro creatori nella memoria della storia. L’aspirazione a sopravvivere nel ricordo di un erede è propria dell’uomo e va riconosciuta come tratto distintivo umano. (da Geometria e memoria. Lettera e allegioria nel Medioevo)
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