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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

lunedì 10 settembre 2012

Vado a Mantova e torno - 2012


Vanni Scheiwiller diceva che avrebbe voluto stampare un catalogo di tutti libri che non aveva potuto pubblicare.

Io vorrei fare l’elenco di tutti gli eventi del Festivaletteratura 2012 a cui non sono potuto entrare.
D’altronde quando ci si ricorda la sera prima che gli eventi bisogna prenotarli, non è che poi ci si possa lamentare.
E se si ha in mente di fare almeno delle foto, e al primo scatto si scopre di avere lasciato la memory card nel portatile, non è che le rubriche ne guadagnino...

Insomma, il post con cui avevo deciso di riprendere a curare loubiquo, non è proprio fortunato.
D’altronde, il lavoro mio, e ancor più della Rossa, mi costringe a una toccata e fuga il sabato; per il resto posso solo rimandare al resoconto degli amici della  Balenabianca, che hanno seguito come blogger l’intero Festival.

In concreto sono riuscito a prendere parte a tre cose.

Graphic History, con Vittorio Giardino e Gabriele Ranzato; Lettere, voci e immagini d’Orlando; Raffaele La Capria


Graphic History, con Vittorio Giardino e Gabriele Ranzato

Vittorio Giardino è un famoso disegnatore, celebre soprattutto per il personaggio di Max Fridman, un agente segreto attivo nell’Europa alle soglie della Seconda guerra mondiale (e per qualche virate erotica). Dopo gli originali Rapsodia ungherese e La porta d’Oriente, Giardino ha pubblicato, sempre con Max Fridman, la trilogia di No pasarán (2000, 2001, 2007), riedita in unico volume nel 2011. La pubblicazione completa giustifica la presenza a Mantova; l’ambientazione, la guerra civile spagnola, giustifica la co-presenza di Ranzato, docente di Storia contemporanea a Pisa, esperto del conflitto del 1936-39 fino al recente La grande paura del 1936 e interlocutore e riferimento di Giardino sul tema.

Non avevo mai visto i due, e dunque quando si siedono alla cattedra l’assegnazione nome-viso è fatta. Giardino è quello sulla destra, artistoide e scapigliato e un po’ sornionamente scamiciato; Ranzato a sinistra, barbetta curata, compitino, dietro al portatile dal quale ci costringerà a meditare su qualche documento numero tot barra tot del Partido Obrero de Unificación Marxista. Ovviamente è l’inverso.

I due, che in realtà non si sono mai visti, si lisciano ed elogiano. Purtroppo un po’ scoordinatamente. Entrambi ammettono di essere un po’ logorroici; nessuno dei due ammette di essere un po’ vanesio. Ma la palma senz’altro la vince Ranzato. Tutti e due puntano a far filtrare di sapere sull’argomento più dell’altro. Giardino rifugiandosi sulla piccola storia materiale che sostenta i suoi racconti (“Ma la funicular de Montjuïc, funzionava durante la guerra? Posso inserirla nel racconto? Questo gli storici non lo sapevano”). Ranzato dice le cose migliori sull’invidia dello storico nei confronti del romanziere che raggiunge con altri strumenti un pubblico più vasto e influenzandolo con più efficacia (“Io non potrò competere mai con Per chi suona la campana”). E le cose peggiori quando in coda comincia a polemizzare sulla verosimiglianza dell’orientamento politico di Max Friedman. Giardino ha il suo apice di interesse quando mostra come le sue tavole siano tramate di precisissimi e puntuali riferimenti iconografici e di ricerche storiche, davvero impressionanti per un non esperto. Le peggiori quando rischia di ridursi a una collazione tra poster propagandistici e le sue tavole e quando squaderna qualche ovvietà sul romanzo storico, misto di storia e d’invenzione, che erano banalità il giorno dopo che ’l Lisander le aveva dette.


Lettere, voci e immagini d’Orlando

A fianco del Furioso in festa, tra gli eventi che hanno maggiormente attirato l’attenzione dei media, compariva la sezione multimediale dedicata al Furioso. Interessante, non c’è che dire. Se non che, la connessione non è che funzionasse magicamente. E la riproduzione delle lettere autografe era di un falso che era quasi divertente; ma ancora peggio, perché a fianco hanno collocato un riassunto, e non una trascrizione? A quel punto, valeva la pena di evitarsi anche la spesa della pseudo cartapecora.

Raffaele La Capria

Nel 2011 sono stati cinquant’anni dalla pubblicazione di Ferito a morte, festeggiati dalla Mondadori con un volumetto celebrativo arricchito da un’appendice “Sei modi di leggere Ferito a morte”, con pagine critiche da Pampaloni a Magris, e da un’introduzione dell’autore, che con tono umbratile rileva come il suo romanzo “per come è costruito, per la complessità della tessitura narrativa, per la polifonia delle voci e la varietà dei punti di vista, per quella sincronia che va avanti e indietro nel tempo mentre tutto è sempre presente” costituisca un libro di eccezione.

Dall’incontro riporto alcune cose:
1.      Che i suoi novant’anni, La Capria li porta proprio bene.
2.      Un interessante esordio in cui La Capria, recuperando una similitudine giù usata , paragona l’arte del romanzo ai tuffi: la naturalezza del volo come esito di una fatica e un impegno levigati dalla sprezzatura (o, per usare un’altra metafora, lo stile dell’anatra, che sembra filare via leggera sull’acqua mentre sotto le zampe vorticano faticosamente, stante il titolo Lo stile dell’anatra del 2001); l’incipit di un romanzo come uno stacco ardito e misurato dalla tavola (come per la Metamorfosi di Kafka); il finale come l’ingresso nitido e secco e definitivo nell’acqua (come il dell’Ulysses).
3.      La protesta – diciamolo – querula e totalmente estemporanea per il fatto di essere ricordato solo per Ferito a morte e non per gli altri suoi venti romanzi e oltre.
4.      La protesta per la categorizzazione come scrittore napoletano; è un po’ difficile, però, non sentire attaccare i mandolini quando parla della sua giovinezza napoletana, e non è questione di accento
5.      Un’impressione nostalgico-arcadico-apocalittica per quando la terra era vergine e creaturale, cioè quando era bambino lui.
6.      Una concezione paleo-umanistica della scrittura, con la priorità di una presunta qualità umana sulla qualità artistica.
7.      L’elogio e la rivendicazione di un disinteresse per qualsiasi cosa possa essere impegno, con in esergo l’esempio di Piovene che, sollecitato da Pasolini a firmare un documento di sostegno a degli esuli politici della spagna franchista (tanto per dire, la famosa indagine di Garzón riguardava l’assassinio di 114.000 persone fino al 1952), se la cavò con “io di queste cose, non me ne intendo”.
8.      Che se l’incontro finisce in fretta c’è tempo per passare a comprare una sbrisolona...

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