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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

giovedì 30 dicembre 2010

Carta e piombo

La materia de’ libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano eserciti armati.

Paolo Sarpi, Sopra l’officio dell’Inquisizione

lunedì 27 dicembre 2010

venerdì 24 dicembre 2010

Un uomo tabù

Avevo cominciato a preparare questo post con l’intenzione di sfogare un po’ di iroso scherno sulle ben note pubblicità con cui Alfonso Luigi Marra e sua figlia Caterina presentano La storia di Giovanni e Margherita. Il modo di formazione del pensiero, (1986, ripubblicato più volte, l’ultima nel 2009) e Manuela Arcuri Il labirinto femminile (2010). Piccole perle di grafica, recitazione, dizione, testualità, sceneggiatura, comunicazione. E un’occhiata a IBS non ha fatto che inasprire umori e ripugnanze. L’unico commento per il primo? «Un libro bellissimo. La storia di ognuno di noi per divulgare una scoperta. Una bellezza struggente. Un libro tabù di un uomo tabù. Il tutto sullo sfondo di una psicosi straordinariamente narrata. Cambiare è difficile perfino quando conviene.» Non occorre nemmeno una sinossi per capire chi sia l’autore del commento. La descrizione del secondo? «Un epistolario d’amore in sms imprevedibile, struggente, tra Luisa, giovane avvocatessa, e Paolo, il titolare del grande studio legale in cui lavora, che ha il doppio dei suoi anni ma è un genio interdetto a prendere in considerazione qualsiasi limite. 272 pagine di epistolario seguite da 78 di una straordinaria analisi per contribuire a liberare la coppia e la società dal dramma universale della concezione strategicoprevaricatoria dell'amore e delle relazioni umane in generale.» E figuratevi quando, per La storia, ho trovato, nella sua scheda personale su Macrolibrarsi, un’asserzione come «Una teoria che non ha bisogno di verifiche perché scritta in stile “autodimostrativo”, cioé dimostrata dalle parole stesse con le quali è svolta, ovvero assolutamente ovvia e formulata in maniera lucidissima». Arroganza delirante? Assolutamente no, come dimostra, questo altro stralcio: «Libri e documenti leggendo i quali, fra le tante sorprese, ci si accorge ad un certo punto che l’arte di cui le pagine sono pervase in una varietà di stili stupefacenti per bellezza e contenuti non è mai il suo obiettivo, ma solo lo strumento usato per condurre il lettore vittorioso attraverso le tematiche più complesse dello scibile senza quasi rendersene conto».

Qualche dubbio ho cominciato ad averlo leggendo le sue scuse all'Arcuri, che pochi probabilmente hanno letto per esteso. Un testo in cui è davvero difficile capire qualcosa (il silenzio che finalmente si è rotto, è quello dell’infame boicottaggio dopo il primo suo libro, o quello sacrale che, al parlamento europeo, lo accoglieva, lui solo, e non concesso nemmeno a Cristo sceso dalla croce, e che poi è lo stesso delle liriche albe venatorie sui monti della Sila?; e che accidenti è successo a Roma nell’anno zero?; chi ha paura di essere decifrata?). In realtà mi è stato difficile non provare un certo disagio, leggendo una frase come «Tu però stai tranquilla: dalla mia sella, quando – ormai in breve – tornerò dalla caccia nella ‘selva’ questa volta orrida della confusione e del malessere nei quali è precipitata la società, penderanno appese per i capelli le teste, non certo degli stupidi e dei pazzi, ma della stupidità e della pazzia che li tormentano». E ti passa la voglia di ridere quando leggi questa raccomandazione all’Arcuri: «Né ti consiglierei di cercare tu di affrontarli, convincerli o cambiarli perché è troppo difficile, oltre che pericoloso, visto che, se non è bastata a cambiarli la convenienza che avrebbero a diventare migliori, è segno ci vuole uno sforzo al quale ciascuno può contribuire, ma che solo io sono obbligato a fare perché – non è supponenza, ma un amaro dato – sono purtroppo l’unico uomo che abbia fin qui conosciuto ad avere una visione autenticamente politica e pubblica del suo essere».

Allora, concludo con una citazione da La storia di Giovanni e Margherita, estrapolata dal sito personale. E, con molta tristezza, mi affido a essa come riflessione sulla solitudine e sulla letteratura come palcoscenico del malessere.

L’incapacità di modulare l’egoismo, che non giova all’egoista, e che dunque si configura come un’impotenza di opere, è causata da un incidente dello sviluppo. Questo incidente dello sviluppo può essere capito e risolto se studiato alla luce delle regole del contesto. L’impotente di opere, a causa della sua impotenza a contribuire alla vita degli altri, viene negato, e quindi, in seguito alla negazione degli altri, cade in preda al malessere della pazzia. Se il malessere è di modesta entità la pazzia è parziale. Se il malessere è invece di grande entità la pazzia è più grave fino a poter essere totale. I concetti di egoismo e pazzia si sovrappongono totalmente, infatti: egoismo = desiderio di affermare se stessi senza le opere = malessere per la negazione degli altri = pazzia. Diventerà pazzo in sostanza colui che, a causa della sua impotenza di opere (egoismo), tenterà di imporre agli altri il suo esserci ed essere riconosciuto e, vedendo frustrati i suoi tentativi, continuerà a cercare di esercitare il suo vantato diritto attraverso comportamenti che, per l’aumentare del suo malessere, saranno sempre meno adatti a fargli ottenere quello che vuole. Fino a quando, a causa della negazione degli altri, che non cesserà fino a quando non cesserà il suo egoismo, adotterà forme comportamentali nelle quali è assente il contributo alla vita altrui, per cui, negato da tutti e più duramente, cadrà nella pazzia.

NB: tengo a precisare che nei testi di A.L. Marra, o comunque a lui pertinenti, non ho toccato una virgola.

giovedì 23 dicembre 2010

Bambini tedeschi dei tempi cupi

Alfred Andersch, Il padre di un assassino [1980], Parma, Guanda, 1990
Ernst Jünger, Tre strade per la scuola. Vendetta tardiva, [2003] Parma, Guanda, 2007, euro 10
Ödön von Horváth, Gioventù senza dio [1938], Milano, Bompiani, 2005, euro 7.50

 


Monaco di Baviera. Ginnasio Wittelsbach. 1928. Quando i ragazzi della Quarta B parlano del prof. Kandlbinder, docente di greco, un uomo magro, pallido e insignificante, commentano Quello vuol soltanto tenersi sempre fuori da tutto. Lezioni anodine, noiose, impeccabili, e molta cautela a non avere pupilli né bersagli. 


Germania, città indefinita, dieci anni dopo. Il professore di tedesco, che già vede addensarsi nubi nere per un’improvvida correzione al tema di uno dei suoi studenti, si trincera nella sua gelida e distante estraneità, rivolgendo nel pensiero il suo disprezzo verso i suoi studenti: non voglio subire una punizione disciplinare per i vostri begli occhi, e tanto meno perdere il pane ... Da oggi vi dirò che non esistono uomini all’infuori di voi, ve lo ripeterò fino alla nausea; e scoprirà che il suo soprannome tra gli studenti è “il Pesce”, perché la sua faccia è sempre così immobile, e non si sa mai cosa pensa e se pensa. 


Quando, al ginnasio Wittelsbach di Monaco di Baviera, al termine di un’umiliante interrogazione in greco condotto dal Rex, il Rektor del Ginnasio, Franz Kien, pessimo studente in qualsiasi disciplina, sempre spaesato, sempre astratto, rivendica la sua intenzione di essere un giorno scrittore, specificando che, di che genere, lo saprà da grande, lui, come autore più amato, lui, che pure ha divorato Enrico IV e Riccardo III, cita Karl May (il Salgari tedesco, viaggiatore che mai viaggiò), tra lo sprezzo e lo stupore del Rex, l’estimatore di Socrate che gode nel rivelare a tutta la classe che Kien è accolto a scuola gratuitamente per compassione. 


Hannover, ginnasio, qualche anno prima della prima guerra mondiale, durante la preparazione del voto in condotta per la pagella, Wolfran, studente rapito da absence, lievi forme di epilessia, balbuzie, straniamenti, si alza di fronte al prof. Corax, filologo, ultima nemesi del suo conflitto con la scuola,  e racconta i suoi colloqui notturni con Socrate e le sue domande su che cosa legga. Io gli rispondo: ‘Leggo Karl May’. E Socrate: “Eccellente. ... Un tempo fu la volta di Sigfrido, oggi tocca a Old Shatterhand”. E Wolfram raccoglie i libri, e lascia la classe, e la scuola, e il romanzo. 


Franz Kien viene espulso dal Ginnasio Wittelsbach e lascia il racconto addormentandosi su Attraverso il deserto di Karl May. 


Il professore di tedesco della città indefinita, sospeso dall’insegnamento, parte per insegnare in una missione in Africa: Portati via tutto, non dimenticare nulla! Non lasciare nulla dietro di te! Il negro va dai negri.


Tre brevissimi racconti, ambientati in scuole tedesche, negli anni in cui si deposita, nelle parole e nelle anime dei giovani, la malattia che porterà alla seconda Guerra mondiale. Tre racconti molto diversi; un romanzo breve di finzione, Gioventù senza dio, un giallo, omicidio-indagine-falsisospetti-rivelazione (anche se, come giallo, percola alquanto), esteso sull’arco di pochi giorni, costruito su una fortissima focalizzazione interna nell’anonimo professore di tedesco, i suoi pensieri, brevi amari frammenti, la sua osservazione di un mondo e un’adolescenza sempre più feroce nell’obbedienza; e due romanzi autobiografici: Tre strade per la scuola – nel cui Wolfram si riflette l’infanzia di Ernst Jünger – esteso negli anni necessari per cambiare tre scuole, e tre diverse strade per arrivarci, e lungo ognuna perdersi per esplorare quel mondo dentro di sé così diverso dalle ombre della scuola; e Il padre di un assassino, che copre giusto un’ora, l’ora di greco in cui Franz Kien sbaglia tutto il possibile nella grafia e traduzione in tedesco di È degno lodare la patria e finirà con l’essere espulso. 


Uno, Gioventù senza dio, il più vicino all’esplosione della ferocia, scritto quasi in presa diretta, ambientato nell’epoca del nazionalsocialismo ormai trionfante, un mondo senza nomi e identità, anonimo il professore, e mere iniziali gli allievi, e unico nome, Eva, la ladra sbandata, ai margini, eslege, rifugiata nei boschi, dalla sessualità libera; e unico pensiero imperante, la radio, la radio, la radio, e ogni slogan diventa verità nei temi e nell’orgogliosa gioiosa protervia dei suoi studenti. Gli altri due, quelli autobiografici, stesi a Novecento avanzato, entrambi all’ultimo anno della vita del rispettivo autore, ma, che affondano le radici più lontano: all’origine del secolo Tre strade per la scuola, a disegnare quell’humus in cui crebbe un intellettuale a cui furono a lungo rimproverate contiguità con il nazionalsocialismo; a metà tra gli altri due testi Il padre di un assassino, negli anni che preludono alla conquista nazista del potere, e vero tramite tra il prima e il dopo, perché il temutissimo Rex, “il padre dell’assassino”, non è altri che il padre di Himmler. 


Tutti e tre, però, hanno qualcosa in comune, la lettura. Ragazzi che si sottraggono al mondo, e ne cercano uno proprio, una propria libertà, nei libri: Franz Kien, che sarà scrittore, che scappa dal mondo “attraverso il deserto”; Wolfram, che divide la strada verso la terza scuola in tre tronconi, il primo per recitare Schiller, il secondo, l’ “eroico”, per ossere Old Shatterhand o Stanley o Robinson o un argonauta nella Colchide, prima del terzo, l’angoscioso, che porta a scuola, a quella lezione in cui finalmente Socrate condannerà il prof. Corax: dal punto di vista pedagogico lo giudica una nullità; e persino, tra quella “Gioventù senza dio” devastata dal conformismo e dall’orgoglio della cecità, lo studente B, in segreto, legge, legge, legge, e un giorno parla.

martedì 21 dicembre 2010

Cognomina sunt consequentia rerum. Certi, meglio evitarli.

Io dico che non ci si può più vivere! Et forse ch’e libri son destri et comodi da maneggiare, con quel legare et sciorre, affibbiargli et sfibbiargli o solamente nel dare una soffiata a un codice, quando tu l’apri o una sbattitura, ti empie il naso et la gola di polvere?
E me ne cadde una volta uno di questi libracci sul collo del piede, che mi fece fare un paio di tanie [litanie], intorno a’ Bartoli, Ruini et Baldi!

A.F. Doni, Humori [1550]

sabato 18 dicembre 2010

Sull'anagramma Unico Boss Virile

E torniamo alle nostre care donne. Elle videro in lui il portatore del verbo oltreché del nerbo, il portatore del modello formale del branco o specie, il vessillifero della spaghettifera patria co a' pummarola in coppa, il mastio unico, l'empito spermatoforico della stirpe gloriosa divenuto persona.


Pirgopolinice il glorioso non fu capace di sublimazione dell'amore cioè dell'impulso parallelo all'amore ma solo di priapesca per quanto funesta vantardigia: questa fu la sua atonia o astenia etica, e la sua colpa prima, a parità con l'atonia dell'intelletto.


C.E. Gadda, Eros e Priapo


(credits to LcGllrdn)

giovedì 16 dicembre 2010

Pensierino di questi giorni

Una delle maggiori fortune che possino avere gli uomini è avere occasione di potere mostrare che, a quelle cose che loro fanno per interesse proprio, siano stati mossi per causa di publico bene.


Francesco Guicciardini, Ricordi 142

domenica 12 dicembre 2010

Pensieri prima di entrare in aula

Dottrina delle virtù e fuga dei vizi [1585] di Orazio Rinaldi

Quattro cose allettano un dottore a legger bene: la moltitudine degli scolari, la grandezza del salario, l’acquisto che fa di maggior scienza, e ’l guadagno dell’onore.

Riuscirò ad accontentarmi della prima.

giovedì 9 dicembre 2010

L’uomo che si perse nei frattali del frattempo

Apostolos Doxiadis, Zio Petros e la congettura di Goldbach [1992], Milano, Bompiani, 2009, euro 7

– Ora, sette volte tre fa ventuno. – E come lo sa lei? – Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato innumerevoli volte. – Questo non significa che lo darà sempre, però. – Forse no. Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti. (Isaac Asimov, Nove volte sette)

Chi non ha avuto uno zio strambo. A volte la crepa destinata ad allargarsi per tutta la vita. Altre la buffa anomalia che rende meno asfissianti gli incontri di famiglia. Altre ancora, depositario di un segreto che rende meno greve l’inscappabile marchio identitario di un cognome. Nella famiglia Papachristos lo zio Petros è l’ESEMPIO DA EVITARE (tutto maiuscole, proto!), l’ipostasi del fallito, il disprezzato reietto: ma l’io narrante, nipote dell’ignobile e progenie di sana egocentrica arrogante collerica stirpe di imprenditori, deve gestire l’inconciliabile. 


Troppo diverso è lo zio Petros, cortese, gli occhi azzurri gentili, silenzioso e sobrio e solitario, da tutti gli altri parenti, da quella maledizione di indicibile colpa che grava su di lui. L’incipit – quando l’intera biblioteca dello zio è stata ormai affidata alla Società Matematica Ellenica, placando l’orrore che quel poco che si è stati si disperda sui muriccioli – circoscrive la vita di zio Petros tra due date, il 1742 e il 1931; una di quelle vite che non hanno sangue e corpo e date, ma destino e ricerca, oltre il proprio tempo, o finite prima che questo sia scaduto. Destino e ricerca e nevrosi. E dopo l’incipit sarà solo analessi: la scoperta, da parte del nipote adolescente, del segreto nascosto nelle ombre di una vita. 


La vita di un matematico, di un grande genio matematico, che ha sprecato tutto inseguendo l’irraggiungibile, l’ingresso nel pantheon della teoria dei numeri (“simili agli estri miei, ritroverò in esilio, Socrate e Galilei”) attraverso la dimostrazione della congettura di Goldbach. E sarà analessi nell’analessi; il racconto del fallito: la ferita profonda di un addio – la matematica come sublimazione del sesso, doktor Freud! –, la sete di conquistare la forma occulta dell’essere, la compensazione, il bisogno di una gloria che sottragga al disordine dell’oblio, di una donna e della storia, e all’oscurità che sommerge. 


Il ventesimo secolo si apre con i “Problemi di Hilbert”: al Secondo Congresso Internazionale di Matematica risuona la fiducia nella logica della matematica, nella sua piena assiomatizzazione. Wir müssen wissen, wir werden wissen! Nella linea retta e progressiva della matematica formale e del logicismo, nel solco dei Principia mathematica di Russell e Whitehead, si brucia la vita di zio Petros. Una solitudine gremita di sogni, che nulla hanno del Mago dei numeri di Enzesberger, numeri antropizzati, ermafroditi, ombre di simboli dai messaggi assurdi e incomprensibili, figure con gli anni sempre più impaurite e dolorose, fino all’ultimo sogno, l’incubo del 2100, numero immenso che ben più del doppiar de li scacchi si immilla, nella forma di due belle ragazze identiche, con le lentiggini e le iridi scure, e le loro parole che hanno l’odio e la crudeltà di un’amante respinta. 


La giovinezza di zio Petros si consuma inchiodata alla croce ansiosa del metodo in quegli stessi anni feroci della matematica, tra quei geni saturnini e sofferti, a cui Doxiadis (dottore di ricerca in matematica alla University of Columbia) ci guida nel suo recente graphic novel, Logicomix, con la voce narrante proprio di Bertrand Russell. L’ossessione febbrile per quelle somme di due numeri primi che danno un numero pari maggiore di due. 


Fino al 1931. Il crollo di un mondo. E tributo al dolore e alla tragedia di chi solleva il velo di Maya, di chi non ha saputo stare al quia, falena fragile della ricerca, è Alan Turing l’araldo della sconfitta, colui che porta la notizia di un articolo di un giovane matematico viennese comparso nel numero 38 di Monatshefte für Mathematik und Physik. Quel teorema di incompletezza di Gödel (“non meno inquietante della rivelazione di grandezze incommensurabili fatta da Ippaso”, C.B. Boyer) che sconvolge la logica e la vita di zio Petros: il destino è ormai solo un labirinto, e nemmeno più si sa se un’uscita esista. E forse si aspetta invano alle Termopili, Efialte, atteso, non arriverà a tradire perché i Persiani non esistono, mentre gli scudi si ossidano e le lame si ottundono. 


Resta solo il vuoto del naufragio. E incubi sempre più desolati. Fino alla rinuncia. Forse. Non è solo la matematica ad avere un nucleo indecidibile, indistricabile; la storia di un uomo ha una soglia, un passo prima della morte, oltre la quale non si può seguirlo. Sicché Paolo Uccello capì di avere compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto altro che un garbuglio di linee (Marcel Schwob, Vite immaginarie).

sabato 4 dicembre 2010

Sangue e rape

Laonde dubbio veruno non è che questo tanto sapere, et cotanta saviezza non altra cosa sia, che una tribulatione, una inquietudine, un rompimento di capo, una perditione del corpo, et de l’anima, et sia quasi una horribile peste de gli infelici mortali. Per lo contrario adunque l’ignoranza è cosa sana, et è veramente l’ignoranza un perpetuo riposo, et dolce quiete de la mente, et non solo è l’ignoranza la vera conservatione del corpo, et de l’animo, ma ancho una gran felicitade de gli huomini, mentre in questo mondo vivono.

Giulio Landi, Oratione in lode dell’ignoranza¸ in Vinegia, [Gualtiero Scoto], 1551, c. 58r

giovedì 2 dicembre 2010

Acque di tenebra

J.G. Ballard, Il mondo sommerso [Deserto d’acqua] [1962], Milano, Feltrinelli, 2005, euro 7.50


l mattino Robert Kerans ammira dalla sua suite al Ritz la laguna che si allarga nel semicerchio della foresta tropicale. Il Ritz di Londra, però. Ballard crea fin dalla prima pagina in pochissimi cenni indiretti un mondo tanto apocalittico quanto fluidamente naturale, immediatamente riconoscibile, evidente. Il calore insopportabile già alle otto del mattino, la foresta di gimnosperme, l’umidità soffocante, le sempre più aggressive iguane, le felci, enormi zanzare anofele e ragni acquatici, le tempeste termiche. Kerans appartiene a un ridottissimo gruppo di militari e scienziati – mentre la popolazione mondiale, quei cinque milioni che ne restano, si è ritirata in Groenlandia e ai Poli – incaricati di mappare fauna, flora, rilievi del territorio e delle coste. Due anni di lavoro. Una missione inutile. Un lavoro inutile. La stanchezza dell’inutile. La resa della civiltà urbana alle acque crescenti,  Venezie riluttanti ad accettare l’inevitabile matrimonio col mare, ma infine sopraffatte dalla caduta delle ultime dighe, come città medievali espugnate da quei naturali “paesaggi della paura” che avevano saputo dominare nel Medioevo. Solo al capitolo secondo, L’avvento delle iguane, abbiamo – secondo i modelli della SF – la spiegazione scientifica dell’apocalisse, quelle violente tempeste solari di sessanta o settanta anni prima che avevano allargato le fasce di Van Allen surriscaldando progressivamente la terra e sciogliendo ghiacci e ghiacciai: da qui un innalzamento delle acque accentuato dalla sedimentazione dei depositi alluvionali, mentre in una fascia equatoriale in espansione, dove la temperatura è già arrivata a ottanta gradi, si scatenano tornadi sempre più volenti. E mentre l’Europa si trasforma in un succedersi di lagune, la storia del mondo si riavvolge fino al Triassico, al suo clima, alla sua flora, alla sua fauna: rettili e sauri tornano a essere la specie dominante. Però già nel primo capitolo sono affiorati gli indizi della vera cifra dominante del romanzo, ben al di fuori del profilo di genere, quel rallentamento del metabolismo e quel regresso biologico delle forme prossime a una metamorfosi che Kerans, biologo, presagisce in sé. Gli uomini della missione militare sono colpiti da déjà-vu e da sogni, tutti uguali, della giungla: riflessi rimasti recessivi per migliaia di generazioni riaffiorano, ri-innescati dal nuovo ambiente. I ricordi più antichi del mondo, quelle paludi e quelle lagune, sedimentate nei geni e nei cromosomi. Un flusso sanguigno immissario dell’immenso oceano della memoria collettiva, sempre più profonda quanto più la chimica naturale spinge l’uomo a risalire verso la base del sistema nervoso centrale, nel tempo neuronico: è il trionfo dell’inconscio collettivo junghiano, l’unus mundus, ricordi organici vecchi di milioni di anni impressi nel citoplasma, la retrocognizione di un’epoca dominata dai rettili che si ripercuote in echi lontani di pericoli e di terrori, un Es che è pantheon stracolmo di fobie e di ossessioni tutelari. Immagini oniriche e surrealiste (e la pittura surrealista è iper-presente in tutta l’opera di J.C.B., basti La mostra della Atrocità) percorrono il romanzo e la psicologia dei protagonisti: dal quadro di Max Ernst – appeso negli appartamenti di Beatrice Dahl, la ricca fidanzata di Kerans – una delle sue fantasmagoriche giungle autodivoranti che urlava silenziosamente a se stessa, con il sole arcaico a illuminare i recessi dell’inconscio; ai fantasmi di Paul Delvaux spersi nelle terre crepuscolari; alle immagini alla Dalì di meridiane liquefatte, segno del tempo cronologico ormai dissoltosi in un tempo biologico e ancestrale. Quel tempo umano ormai inesistente: e mentre il colonnello Riggs, insiste freneticamente a far ripartire gli orologi dei campanili di ogni città attraversata (quegli orologi a ruote dentate la cui introduzione nel XIII sec. si accompagna alla nascita della cultura urbana, come orologio che ne chiami / che l’una parte e l’altra tira e urge / tin tin sonando con sì dolce nota), Kerans si lascia attrarre da un orologio rotto. Come fissa magnetizzato nella sua bussola il Sud. Quella direzione verso là dove la giungla è più profonda, la profondità dell’inconscio più abissale. E se Apocalisse e Diluvio sono archetipi junghiani, lo è anche la Creazione: quel folle Eden in cui Kerans e Beatrice decidono di restare, quando la missione riparte, Adamo ed Eva di un mondo rinato nel brodo primordiale, per tornare nel paradiso amniotico. E esplicitamente come un utero è il planetario in cui si immerge Kerans, sulla cui volta incrostazioni e riflessi disegnano lo zodiaco che percorreva il cielo all’origine della precessione degli equinozi; e se nel planetario Kerans rischia di annegare, per risorgere come Mitra, in sogno il giovane biologo si immerge, come in un battesimo, in un’acqua brulicante di serpenti. Acqua desolata. Come Phlebas il fenicio, morto per acqua, dimentico dei gabbiani, che passed the stages of his age and youth. “I miei piedi sono a Moorgate, e il mio cuore / sotto i miei piedi”. Perché allora Il mondo sommerso è come una nuova Bibbia, con continui rimandi a immagini del giorno del giudizio, ma densa anche di echi letterari, di acque, di orrore, di redenzione. E se Kerans in incipit di libro guarda la laguna londinese, Marlow in apertura guarda il Tamigi aperto davanti a sé, e ricorda quando anche Londra era “uno dei luoghi di tenebra della terra”. E Strangman, saccheggiatore di tesori sommersi irrotto nella laguna, con un equipaggio nero che lo adora come divinità, e i suoi rituali selvaggi, incarnazione del male preistorico con i suoi duemila alligatori bianchi, è un Kurtz devastatore e sacrilego nel prosciugamento di Londra, trasformata in città infernale, fogna pestilenziale. Kerans, dopo aver ridato Londra alle acque, dopo essersi fatto Nettuno, guardiano del mare, dopo aver abbandonato anche l’ombra equorea della città, avanzerà come Ulisse verso Sud, attaccato dagli alligatori e dai pipistrelli giganti, Adamo ormai solitario verso il suo paradiso. Illuminazione e religiosa speranza ancestrale in un prima-del-tempo, sigillate nel messaggio d’addio di Kerans (“Tutto va bene”) inciso per nessuno sulla pietra, citazione dal finale del Little Gidding dei Quattro quartetti.
We shall not cease from exploration / And the end of all our exploring / Will be to arrive where we started / And know the place for the first time. / Through the unknown, unremembered gate / When the last of earth left to discover / Is that which was the beginning.