Apostolos Doxiadis, Zio Petros e la congettura di Goldbach [1992], Milano, Bompiani, 2009, euro 7
– Ora, sette volte tre fa ventuno. – E come lo sa lei? – Me lo ricordo. Dà sempre ventuno sulla calcolatrice. L’ho controllato innumerevoli volte. – Questo non significa che lo darà sempre, però. – Forse no. Non sono un matematico. Ma vede, i miei risultati sono sempre esatti. (Isaac Asimov, Nove volte sette)
Chi non ha avuto uno zio strambo. A volte la crepa destinata ad allargarsi per tutta la vita. Altre la buffa anomalia che rende meno asfissianti gli incontri di famiglia. Altre ancora, depositario di un segreto che rende meno greve l’inscappabile marchio identitario di un cognome. Nella famiglia Papachristos lo zio Petros è l’ESEMPIO DA EVITARE (tutto maiuscole, proto!), l’ipostasi del fallito, il disprezzato reietto: ma l’io narrante, nipote dell’ignobile e progenie di sana egocentrica arrogante collerica stirpe di imprenditori, deve gestire l’inconciliabile.
Troppo diverso è lo zio Petros, cortese, gli occhi azzurri gentili, silenzioso e sobrio e solitario, da tutti gli altri parenti, da quella maledizione di indicibile colpa che grava su di lui. L’incipit – quando l’intera biblioteca dello zio è stata ormai affidata alla Società Matematica Ellenica, placando l’orrore che quel poco che si è stati si disperda sui muriccioli – circoscrive la vita di zio Petros tra due date, il 1742 e il 1931; una di quelle vite che non hanno sangue e corpo e date, ma destino e ricerca, oltre il proprio tempo, o finite prima che questo sia scaduto. Destino e ricerca e nevrosi. E dopo l’incipit sarà solo analessi: la scoperta, da parte del nipote adolescente, del segreto nascosto nelle ombre di una vita.
La vita di un matematico, di un grande genio matematico, che ha sprecato tutto inseguendo l’irraggiungibile, l’ingresso nel pantheon della teoria dei numeri (“simili agli estri miei, ritroverò in esilio, Socrate e Galilei”) attraverso la dimostrazione della congettura di Goldbach. E sarà analessi nell’analessi; il racconto del fallito: la ferita profonda di un addio – la matematica come sublimazione del sesso, doktor Freud! –, la sete di conquistare la forma occulta dell’essere, la compensazione, il bisogno di una gloria che sottragga al disordine dell’oblio, di una donna e della storia, e all’oscurità che sommerge.
Il ventesimo secolo si apre con i “Problemi di Hilbert”: al Secondo Congresso Internazionale di Matematica risuona la fiducia nella logica della matematica, nella sua piena assiomatizzazione. Wir müssen wissen, wir werden wissen! Nella linea retta e progressiva della matematica formale e del logicismo, nel solco dei Principia mathematica di Russell e Whitehead, si brucia la vita di zio Petros. Una solitudine gremita di sogni, che nulla hanno del Mago dei numeri di Enzesberger, numeri antropizzati, ermafroditi, ombre di simboli dai messaggi assurdi e incomprensibili, figure con gli anni sempre più impaurite e dolorose, fino all’ultimo sogno, l’incubo del 2100, numero immenso che ben più del doppiar de li scacchi si immilla, nella forma di due belle ragazze identiche, con le lentiggini e le iridi scure, e le loro parole che hanno l’odio e la crudeltà di un’amante respinta.
La giovinezza di zio Petros si consuma inchiodata alla croce ansiosa del metodo in quegli stessi anni feroci della matematica, tra quei geni saturnini e sofferti, a cui Doxiadis (dottore di ricerca in matematica alla University of Columbia) ci guida nel suo recente graphic novel, Logicomix, con la voce narrante proprio di Bertrand Russell. L’ossessione febbrile per quelle somme di due numeri primi che danno un numero pari maggiore di due.
Fino al 1931. Il crollo di un mondo. E tributo al dolore e alla tragedia di chi solleva il velo di Maya, di chi non ha saputo stare al quia, falena fragile della ricerca, è Alan Turing l’araldo della sconfitta, colui che porta la notizia di un articolo di un giovane matematico viennese comparso nel numero 38 di Monatshefte für Mathematik und Physik. Quel teorema di incompletezza di Gödel (“non meno inquietante della rivelazione di grandezze incommensurabili fatta da Ippaso”, C.B. Boyer) che sconvolge la logica e la vita di zio Petros: il destino è ormai solo un labirinto, e nemmeno più si sa se un’uscita esista. E forse si aspetta invano alle Termopili, Efialte, atteso, non arriverà a tradire perché i Persiani non esistono, mentre gli scudi si ossidano e le lame si ottundono.
Resta solo il vuoto del naufragio. E incubi sempre più desolati. Fino alla rinuncia. Forse. Non è solo la matematica ad avere un nucleo indecidibile, indistricabile; la storia di un uomo ha una soglia, un passo prima della morte, oltre la quale non si può seguirlo. Sicché Paolo Uccello capì di avere compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto altro che un garbuglio di linee (Marcel Schwob, Vite immaginarie).
Troppo diverso è lo zio Petros, cortese, gli occhi azzurri gentili, silenzioso e sobrio e solitario, da tutti gli altri parenti, da quella maledizione di indicibile colpa che grava su di lui. L’incipit – quando l’intera biblioteca dello zio è stata ormai affidata alla Società Matematica Ellenica, placando l’orrore che quel poco che si è stati si disperda sui muriccioli – circoscrive la vita di zio Petros tra due date, il 1742 e il 1931; una di quelle vite che non hanno sangue e corpo e date, ma destino e ricerca, oltre il proprio tempo, o finite prima che questo sia scaduto. Destino e ricerca e nevrosi. E dopo l’incipit sarà solo analessi: la scoperta, da parte del nipote adolescente, del segreto nascosto nelle ombre di una vita.
La vita di un matematico, di un grande genio matematico, che ha sprecato tutto inseguendo l’irraggiungibile, l’ingresso nel pantheon della teoria dei numeri (“simili agli estri miei, ritroverò in esilio, Socrate e Galilei”) attraverso la dimostrazione della congettura di Goldbach. E sarà analessi nell’analessi; il racconto del fallito: la ferita profonda di un addio – la matematica come sublimazione del sesso, doktor Freud! –, la sete di conquistare la forma occulta dell’essere, la compensazione, il bisogno di una gloria che sottragga al disordine dell’oblio, di una donna e della storia, e all’oscurità che sommerge.
Il ventesimo secolo si apre con i “Problemi di Hilbert”: al Secondo Congresso Internazionale di Matematica risuona la fiducia nella logica della matematica, nella sua piena assiomatizzazione. Wir müssen wissen, wir werden wissen! Nella linea retta e progressiva della matematica formale e del logicismo, nel solco dei Principia mathematica di Russell e Whitehead, si brucia la vita di zio Petros. Una solitudine gremita di sogni, che nulla hanno del Mago dei numeri di Enzesberger, numeri antropizzati, ermafroditi, ombre di simboli dai messaggi assurdi e incomprensibili, figure con gli anni sempre più impaurite e dolorose, fino all’ultimo sogno, l’incubo del 2100, numero immenso che ben più del doppiar de li scacchi si immilla, nella forma di due belle ragazze identiche, con le lentiggini e le iridi scure, e le loro parole che hanno l’odio e la crudeltà di un’amante respinta.
La giovinezza di zio Petros si consuma inchiodata alla croce ansiosa del metodo in quegli stessi anni feroci della matematica, tra quei geni saturnini e sofferti, a cui Doxiadis (dottore di ricerca in matematica alla University of Columbia) ci guida nel suo recente graphic novel, Logicomix, con la voce narrante proprio di Bertrand Russell. L’ossessione febbrile per quelle somme di due numeri primi che danno un numero pari maggiore di due.
Fino al 1931. Il crollo di un mondo. E tributo al dolore e alla tragedia di chi solleva il velo di Maya, di chi non ha saputo stare al quia, falena fragile della ricerca, è Alan Turing l’araldo della sconfitta, colui che porta la notizia di un articolo di un giovane matematico viennese comparso nel numero 38 di Monatshefte für Mathematik und Physik. Quel teorema di incompletezza di Gödel (“non meno inquietante della rivelazione di grandezze incommensurabili fatta da Ippaso”, C.B. Boyer) che sconvolge la logica e la vita di zio Petros: il destino è ormai solo un labirinto, e nemmeno più si sa se un’uscita esista. E forse si aspetta invano alle Termopili, Efialte, atteso, non arriverà a tradire perché i Persiani non esistono, mentre gli scudi si ossidano e le lame si ottundono.
Resta solo il vuoto del naufragio. E incubi sempre più desolati. Fino alla rinuncia. Forse. Non è solo la matematica ad avere un nucleo indecidibile, indistricabile; la storia di un uomo ha una soglia, un passo prima della morte, oltre la quale non si può seguirlo. Sicché Paolo Uccello capì di avere compiuto il miracolo. Ma Donatello non aveva visto altro che un garbuglio di linee (Marcel Schwob, Vite immaginarie).
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