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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

giovedì 2 dicembre 2010

Acque di tenebra

J.G. Ballard, Il mondo sommerso [Deserto d’acqua] [1962], Milano, Feltrinelli, 2005, euro 7.50


l mattino Robert Kerans ammira dalla sua suite al Ritz la laguna che si allarga nel semicerchio della foresta tropicale. Il Ritz di Londra, però. Ballard crea fin dalla prima pagina in pochissimi cenni indiretti un mondo tanto apocalittico quanto fluidamente naturale, immediatamente riconoscibile, evidente. Il calore insopportabile già alle otto del mattino, la foresta di gimnosperme, l’umidità soffocante, le sempre più aggressive iguane, le felci, enormi zanzare anofele e ragni acquatici, le tempeste termiche. Kerans appartiene a un ridottissimo gruppo di militari e scienziati – mentre la popolazione mondiale, quei cinque milioni che ne restano, si è ritirata in Groenlandia e ai Poli – incaricati di mappare fauna, flora, rilievi del territorio e delle coste. Due anni di lavoro. Una missione inutile. Un lavoro inutile. La stanchezza dell’inutile. La resa della civiltà urbana alle acque crescenti,  Venezie riluttanti ad accettare l’inevitabile matrimonio col mare, ma infine sopraffatte dalla caduta delle ultime dighe, come città medievali espugnate da quei naturali “paesaggi della paura” che avevano saputo dominare nel Medioevo. Solo al capitolo secondo, L’avvento delle iguane, abbiamo – secondo i modelli della SF – la spiegazione scientifica dell’apocalisse, quelle violente tempeste solari di sessanta o settanta anni prima che avevano allargato le fasce di Van Allen surriscaldando progressivamente la terra e sciogliendo ghiacci e ghiacciai: da qui un innalzamento delle acque accentuato dalla sedimentazione dei depositi alluvionali, mentre in una fascia equatoriale in espansione, dove la temperatura è già arrivata a ottanta gradi, si scatenano tornadi sempre più volenti. E mentre l’Europa si trasforma in un succedersi di lagune, la storia del mondo si riavvolge fino al Triassico, al suo clima, alla sua flora, alla sua fauna: rettili e sauri tornano a essere la specie dominante. Però già nel primo capitolo sono affiorati gli indizi della vera cifra dominante del romanzo, ben al di fuori del profilo di genere, quel rallentamento del metabolismo e quel regresso biologico delle forme prossime a una metamorfosi che Kerans, biologo, presagisce in sé. Gli uomini della missione militare sono colpiti da déjà-vu e da sogni, tutti uguali, della giungla: riflessi rimasti recessivi per migliaia di generazioni riaffiorano, ri-innescati dal nuovo ambiente. I ricordi più antichi del mondo, quelle paludi e quelle lagune, sedimentate nei geni e nei cromosomi. Un flusso sanguigno immissario dell’immenso oceano della memoria collettiva, sempre più profonda quanto più la chimica naturale spinge l’uomo a risalire verso la base del sistema nervoso centrale, nel tempo neuronico: è il trionfo dell’inconscio collettivo junghiano, l’unus mundus, ricordi organici vecchi di milioni di anni impressi nel citoplasma, la retrocognizione di un’epoca dominata dai rettili che si ripercuote in echi lontani di pericoli e di terrori, un Es che è pantheon stracolmo di fobie e di ossessioni tutelari. Immagini oniriche e surrealiste (e la pittura surrealista è iper-presente in tutta l’opera di J.C.B., basti La mostra della Atrocità) percorrono il romanzo e la psicologia dei protagonisti: dal quadro di Max Ernst – appeso negli appartamenti di Beatrice Dahl, la ricca fidanzata di Kerans – una delle sue fantasmagoriche giungle autodivoranti che urlava silenziosamente a se stessa, con il sole arcaico a illuminare i recessi dell’inconscio; ai fantasmi di Paul Delvaux spersi nelle terre crepuscolari; alle immagini alla Dalì di meridiane liquefatte, segno del tempo cronologico ormai dissoltosi in un tempo biologico e ancestrale. Quel tempo umano ormai inesistente: e mentre il colonnello Riggs, insiste freneticamente a far ripartire gli orologi dei campanili di ogni città attraversata (quegli orologi a ruote dentate la cui introduzione nel XIII sec. si accompagna alla nascita della cultura urbana, come orologio che ne chiami / che l’una parte e l’altra tira e urge / tin tin sonando con sì dolce nota), Kerans si lascia attrarre da un orologio rotto. Come fissa magnetizzato nella sua bussola il Sud. Quella direzione verso là dove la giungla è più profonda, la profondità dell’inconscio più abissale. E se Apocalisse e Diluvio sono archetipi junghiani, lo è anche la Creazione: quel folle Eden in cui Kerans e Beatrice decidono di restare, quando la missione riparte, Adamo ed Eva di un mondo rinato nel brodo primordiale, per tornare nel paradiso amniotico. E esplicitamente come un utero è il planetario in cui si immerge Kerans, sulla cui volta incrostazioni e riflessi disegnano lo zodiaco che percorreva il cielo all’origine della precessione degli equinozi; e se nel planetario Kerans rischia di annegare, per risorgere come Mitra, in sogno il giovane biologo si immerge, come in un battesimo, in un’acqua brulicante di serpenti. Acqua desolata. Come Phlebas il fenicio, morto per acqua, dimentico dei gabbiani, che passed the stages of his age and youth. “I miei piedi sono a Moorgate, e il mio cuore / sotto i miei piedi”. Perché allora Il mondo sommerso è come una nuova Bibbia, con continui rimandi a immagini del giorno del giudizio, ma densa anche di echi letterari, di acque, di orrore, di redenzione. E se Kerans in incipit di libro guarda la laguna londinese, Marlow in apertura guarda il Tamigi aperto davanti a sé, e ricorda quando anche Londra era “uno dei luoghi di tenebra della terra”. E Strangman, saccheggiatore di tesori sommersi irrotto nella laguna, con un equipaggio nero che lo adora come divinità, e i suoi rituali selvaggi, incarnazione del male preistorico con i suoi duemila alligatori bianchi, è un Kurtz devastatore e sacrilego nel prosciugamento di Londra, trasformata in città infernale, fogna pestilenziale. Kerans, dopo aver ridato Londra alle acque, dopo essersi fatto Nettuno, guardiano del mare, dopo aver abbandonato anche l’ombra equorea della città, avanzerà come Ulisse verso Sud, attaccato dagli alligatori e dai pipistrelli giganti, Adamo ormai solitario verso il suo paradiso. Illuminazione e religiosa speranza ancestrale in un prima-del-tempo, sigillate nel messaggio d’addio di Kerans (“Tutto va bene”) inciso per nessuno sulla pietra, citazione dal finale del Little Gidding dei Quattro quartetti.
We shall not cease from exploration / And the end of all our exploring / Will be to arrive where we started / And know the place for the first time. / Through the unknown, unremembered gate / When the last of earth left to discover / Is that which was the beginning.

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