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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

sabato 30 luglio 2011

Animal Animali Homo

David Sedaris, Bestiole e bestiacce. Sedici storie cattive [2010], Milano, Mondadori, 2011, euro 16.50

La favola è lì, a pag. 1 della letteratura occidentale; a pag. 1 dell’adolescenza di chiunque abbia passato i propri migliori pomeriggi e le proprie noie più fertili a penare sulle traduzioni dal greco; a pag. 1 dell’infanzia di tutti noi.
La favola, non l’ammazza nessuno; il romanzo sarà pure morto, ma la favola è ancora in gamba. E ancora nel XX secolo, la favola è come il maiale. Non si butta niente. E a qualcosa serve sempre. Da quel piccolo capolavoro scabro e allusivo che sono le Favole della dittatura di Sciascia alla Fattoria degli animali di Orwell, dal dittico gabbianesco-planatorio del Gabbiano Jonathan Livingstone alla ricerca della libertà nella perfezione nel volo e della Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare di Sepúlveda, alla favola tragica del Maus di Spiegelman.
E adesso, possiamo aggiungere al canone favolistico questo Bestiole e bestiacce, sedici brevi-brevissime favole con personaggi animali.
Persino un tizio “senza lettere”, che il greco – e pure il latino, va’ – se l’era risparmiato, ma per il resto non s’era fatto mancare nulla, giocava con le sue favole di animali; animali stolti, arroganti, sciocchi. Il peggio dell’umano di fronte all’imprevedibilità del fato.

Il falcone non potendo sopportare con pazienzia il nascondere che fa l’anitra fuggendosele dinanzi e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne, rimase in essa acqua, e l’anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava. (Leonardo da Vinci, Favole, a cura di A. Marinoni, 18)

David Sedaris è un famoso umorista americano; queste sedici favole, però non hanno proprio nulla di divertente, anzi. La favola ha scopo allegorico; e se c’è qualcosa da insegnare, che sarebbe bene che l’uomo sapesse su di sé, in genere è qualcosa che non è mai piacevole da sapere. In questi sedici racconti sfila il trionfo contemporaneo della meschinità e della stupidità umane; la miserabile coglioneria di chi pontifica che il tumore sia provocato dalla negatività; il razzismo spicciolo del viaggiatore; l’untuosità servile per il cliente che ha sempre ragione; il doppiopesismo di chi vede sempre la violenza nelle parole altrui e mai nelle proprie; il narcisismo dell’esibizionismo del lamento; la nevrosi egocentrica della madre moderna educatrice.
Se forse le favole meno riuscite sono le ultime due, proprio perché si ottunde la caustica asprezza che è la nota migliore della raccolta, un piccolo capolavoro triste è Lo scoiattolo e la tamia, una storia d’amore, vacua, nata usurata, senza un respiro superiore al tempo di una birra, eppure non vissuta per pregiudizio e paura e perbenismo e che un giorno, quando la pelliccia si sarà fatta più bianca che bruna, si tingerà della dolcezza e della malinconia di quel che non fu colto.

venerdì 22 luglio 2011

Babbani, secchioni e piromani

Diciamocela tutta; per lo più, a Hogwarts non è che si sbattano più di tanto a studiare. E sì che hanno un fior fiore di biblioteca!



E debbo dire che non si sono fatti mancare nulla, quando hanno scelto il setting per i vari film. La banda di maghetti infatti studia alla Bodleian Library, o Bodley Library, la meravigliosa biblioteca di Oxford.

Diversi degli ambienti di Hogwarts hanno avuto Oxford come location. Ad esempio la Divinity School fu usata sia per l'infermeria sia come aula.


Per quanto ci riguarda, invece, la biblioteca della scuola di magia è ambientata nella Duke Humfrey’s Library (qui una scena dal Principe mezzo-sangue)



La Bodleian Library fu “fondata” nel 1602 da Thomas Bodley (1545-1613), un tipo che non era solo un intellettuale e un bibliofilo, ma anche un accorto amministratore e uomo di marketing. Tra il resto, infatti, non solo si inventò il Deposito Legale (ossia il diritto di una biblioteca a ricevere una copia di ogni libro stampato in un determinato territorio), ma anche il “libro dei benefattori” per indurre ricchi mecenati a donare fondi e testi rari in cambio di qualche sbavatura d’inchiostro.

La Bodleian Library ha in realtà un passato molto anteriore al 1602; un momento fondamentale fu nel 1447 il lascito da parte del Duca di Humphrey di un largo patrimonio di codici; questa ricchissima collezione fu collocata in quella che è proprio la Duke Humfrey’s Library, la più antica sala di lettura della Bodleian Library.

La Bodleian Library è una cosiddetta Reference Library, ossia una biblioteca di consultazione in cui si entra solo per fare ricerca, e non per leggere libri propri, e i cui libri non possono essere asportati, qualcosa che in Italia un po’ talora si fa fatica a capire. Questo non perché si tema che possano essere rubati o rovinati, ma semplicemente perché certi libri devono essere sempre a disposizione, e nessuno si senta dire che la tale opera fondamentale in cinque volumi e otto tomi “rientra tra un mese”. Forse.

Sempre per il principio della tutela dei libri per i lettori che verranno tra due secoli e non per la comodità di quello annoiato di oggi – chiunque entri nella Bodleian Library deve firmare il cosiddetto Bodleian Library Oath; o recitarlo solennemente, se ci tiene, come si faceva una volta.

L'antico giuramento originale, latino, suona così:

Do fidem me nullum librum vel instrumentum aliamve quam rem ad bibliothecam pertinentem, vel ibi custodiae causa depositam, aut e bibliotheca sublaturum esse, aut foedaturum deformaturum aliove quo modo laesurum; item neque ignem nec flammam in bibliothecam inlaturum vel in ea accensurum, neque fumo nicotiano aliove quovis ibi usurum; item promitto me omnes leges ad bibliothecam Bodleianam attinentes semper observaturum esse. (Leges bibliothecae bodleianae alta voce praelegendae custodis iussu).

Naturalmente c’è un evidente anacronismo, che infatti è stato introdotto in un momento successivo per fronteggiare i nuovi incubi dei bibliotecari. Per facilitare il riconoscimento, questa è la traduzione inglese.

I hereby undertake not to remove from the Library, nor to mark, deface, or injure in any way, any volume, document or other object belonging to it or in its custody; not to bring into the Library, or kindle therein, any fire or flame, and not to smoke in the Library; and I promise to obey all rules of the Library.

Mi raccomando dunque, niente fuoco e fiamme.

Che se proprio qualcuno vuol diventare famoso, cominci a concentrarsi sul libro che ha davanti – che magari qualcosa ne vien fuori – e non gli passi per la testa di fare come Erostrato che distrusse l’Artemision, una delle Sette meraviglie dell’antichità, perché “voleva passare alla storia”.

Certo che dar fuoco alla Bodleian Library... Con quante Y si scrive Ryan Air?

lunedì 18 luglio 2011

Adam in the Sky with Diamonds

Roy Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene [1960], Milano, Adelphi, 2009 (1992), euro 8

Nel quarto di copertina, il brano estrapolato dalla presentazione di Terry Pratchett recita “Il libro che avete fra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni”. E questo non è certo un incipit rivoluzionario per una scheda sul fortunatissimo libretto di Lewis; la citazione compare infatti in parecchie delle recensioni disponibili su internet. Capita però che in un blog tale frase dia il destro per l’osservazione che l’umorismo sia un fatto soggettivo perché, in fondo, il libro non è poi così divertente.

Credo che quell’iperbole (“uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni”) si chiami anacronismo ironico.

E anacronismo e ironia sono i due elementi che rendono meritevole di una lettura questo libretto che – sarà anche merito del traduttore – non denuncia affatto, per brio e scorrevolezza, i suoi cinquant’anni e rotti. Un piacevolissimo libro da ombrellone, da corriera, da prato ombroso, da non lo reggo più questo esame in Storia delle istituzioni militari.

Avete presente le figure dell’Eva mitocondriale o dell’Adamo cromosomiale-Y? Quelle figure ancestrali comuni da cui, in linea retta, discenderebbe l’intero patrimonio cromosomico umano? Come Eva, vissuta ca. 200.000 anni fa, da qualche parte in Africa, unica tra tutte le donne contemporanee ad avere una linea genetica ancora attiva. Come Adamo, vissuto tra i 140.000 e i 60.000 anni fa, sempre in Africa, e da cui deriverebbero tutti i cromosomi Y in circolazione. Bene; qualcosa dobbiamo anche ad Edward, il più grande uomo scimmia del Pleistocene.

È a lui – vissuto nel Pleistocene medio in un territorio tra i vulcani Kenya e Ngorongoro – che dobbiamo le grande tappe culturali e tecnologiche e sociali dell’evoluzione; dalla scoperta del fuoco a quella della sua producibilità e poi del suo uso alimentare, all’esogamia, ai primi tentativi di addomesticamento. Anzi, concentrati nella sua famiglia, osserviamo una sorta di flash-forward dell’evoluzione paleolitica, nonché la prima articolazione sociale e professionale della specie umana. I cinque figli di Edward rappresentano infatti gli embrioni di diversi tipi sociali e psicologie: il guerriero (Oswald), l’artigiano (Wilbur), l’artista (Alexander), l’allevatore (William).

Non solo, come divertentissimo controcanto agli studi di Emmanuel Anati (Origini dell’arte e della concettualità, Arte rupestre: il linguaggio dei primordi, Le radici della cultura), per dirne uno, in seno alla sua famiglia nasce anche l’arte rupestre, con tutte le sue implicazioni concettuali, la sua rottura dell’immaginario.

Altamira

Lascaux


Lascaux





Alta

Alta
Il fascino del paleolitico è enorme su ognuno di noi; molto a lungo si è desiderato credere che papa Callisto III già nel 1458 avesse vietato dei riti ancestrali che si sarebbero svolti, attraversando decine e decine di migliaia di anni, in una caverna di fronte a immagini rupestri di cavalli; solo di recente (Bahn, 2011) si è dovuto accettare che in realtà in quella Cova del Cavall, vicino a quella Valencia da cui arrivava Callisto, si adorasse – qualsiasi cosa voglia dire, che si sa a quali deformazioni si vada incontro quando si cerchi Satana in ogni dove – una qualche formazione stalagmitica che avesse assunto una forma naturale di animale, e che le uniche frequentazioni archeologicamente attestate fossero medioevali. E d’altronde – per tornare al divertentissimo gioco dell’anacronismo ironico – anche Bansky è riuscito, nelle sue maniere particolari, a introdurre niente meno che al British Museum il suo “Early Man” con tanto di carrello della spesa

Bansky, Early Man

Early Man di Bansky, "esposto" al BM

E sempre a lui dobbiamo un Neanderthaliano con vassoio take-away. Perché in fondo l’uomo paleolitico serve per parlare di noi.

Bansky, Caveman

E allora la grande avventura di Edward verso l’Olocene, il suo inquieto interrogarsi sul punto del Pleistocene a cui la “sub-umanità” è giunta e di quali siano le glaciazioni che si susseguono, la sua insoddisfazione per ogni inerzia tecnologica e culturale (“ma cosa avete fatto di nuovo”), l’impegno a lasciare un mondo migliore di quello trovato, il timore di ogni specializzazione come preludio all’ossificazione e alla decadenza, la coscienza che un ristretto spettro di attività comporti una povertà di linguaggio che a sua volta implica una ridotta astrazione, tutto ciò parla di noi.

Perché non è tutto così semplice; non solo per le resistenze di zio Vania, che di fronte alla conquista del fuoco inveisce “Tu stai cercando di migliorare te stesso. E questo è innaturale, disobbediente, presuntuoso, e potei aggiungere volgare, piccolo-borghese e materialistico. [...] Non sei più innocente, ma sei ignorante.” Ma soprattutto la sua irrequieta ricerca è raccontata dal quinto figlio, Ernest.  Che non si capisce bene che cosa faccia; in concreto, nulla; si autodefinisce il pensatore, ma l’impressione è che abbia agito in Lewis una sorta di autocensura, e il fatto che Ernest sia colui che – sulla base dell’analogia con quel che resta del mondo parallelo dei sogni – elabora il concetto dei grandi territori di caccia in cui si va dopo la morte, fa supporre facilmente quali siano le sue vere identità e funzione (e se no che ne facciamo della tripartizione di Dumézil?). E c’è una ragione se è proprio Edward a raccontare, e a raccontare quello che accade il giorno in cui il padre, con spirito di vero ricercatore, decide che tutta la sub-umanità deve conoscere come produrre il fuoco. “Papà fa dei bellissimi sogni”. 

E ringraziamo al riguardo il redattore che non sia stato adottato uno dei vari titoli con cui il libro comparve nel modo anglosassone, uno dei titoli più suicidi della storia editoriale.

Resta una bellissima frase di Edward, una riflessione che oggi è forse più pressante di quando fu scritta, di quando fu pensata, da qualche parte del Kenya, quando un Sapiens disse “Se la routine quotidiana ci impegna tanto, come facciamo a pensare? [...] Senza un certo agio e una certa tranquillità non può esserci lavoro creativo, né cultura, né civiltà”. E se nessuno la disse, e se forse nemmeno la pensò, forse almeno qualcuno, affilando una selce, in qualche modo la percepì.

martedì 12 luglio 2011

"Hanno scritto tutto a lettere minuscole, il mio povero ma onesto nome"

Prima di aggirarsi per le strade di Dublino o i deserti della Mancia, un ragazzino deve farsi le ossa qui: nel Grund.

Per un ragazzo budapestino, questo pezzo di terreno rappresenta la pianura, l’immensa e verde pianura, e rappresenta anche, per lui, la sconfinata libertà. (I ragazzi della via Pal)

Ed è lì, su quel Grund, spiazzo fabbricabile incastrato tra via Pal e via Maria, e costellato di cataste di legname pronte a diventare – di fronte all’invasione delle Camicie Rosse del terribile Cesco [Feri] Ats – inespugnabili fortezze, che io sono nato come lettore. Un libro che ho letto in una vecchissima edizione di mia madre, “Finito di stampare il 31 ottobre 1945”, quando l’Italia aveva solo finito di piangere i suoi morti, e quel finale, quel lamento sulla morte inutile di Ernesto [Ernõ] Nemecsek, doveva essere ben più doloroso e impressionante di quanto potesse essere per un bambino italiano di qualche decennio dopo.


Così un giorno a Budapest, vicino a Ferenc körút, alzai gli occhi e rimasi fulminato: ero di fronte all'angolo di un casermone, su un lato del quale una targa recitava Pál utca, e sull’altro Mária utca.










Ero sul Grund.


E quel palazzone, forse, era lo stesso palazzone che sarebbe stato costruito sul Grund, spazzando via cataste di legname, la baracca dello Slovacco, il deposito. I riti e i giochi di quell’esercito scalcagnato, e la morte di Ernesto Nemecsek. Lì, con mio enorme stupore trovai una targa. In ungherese, e in italiano, a rendere ancora più personale la dimensione affettiva di quel palazzone.





Poco più in là, in Práter utca, una statua ricorda quei ragazzi di periferia, fermi nel gioco più antico del mondo, dagli astragali in poi, che ritorna nel racconto di ogni padre e nonno.



Budapest, naturalmente non è famosa solo per I ragazzi della via Pal; forse ancora di più, purtroppo, per l’insurrezione del 1956. Ed è bene ricordare che i carri Sovietici penetrarono nella città proprio lungo via Soroksári, lungo quella strada che riaccompagna a casa – in apertura di libro – Nemecsek dopo la scuola, e che Ferenc körút fu uno dei centri della disperata resistenza. Molti di coloro che morirono con un fucile in mano, non avevano più anni di Ernesto Nemecsek, il cui povero ma onesto nome fu scritto tutto a lettere minuscole, ma che seppe morire di polmonite ma non tradire.


Alcune delle immagini sono state recuperate da internet per la qualità migliore rispetto a quelle in mio possesso.

giovedì 7 luglio 2011

Animula vagula serica

In un precedente post accennavo al fallimento del velleitario progetto di pubblicare le schede di tutta la cinquina dei finalisti dello Strega 2011. Oggi, qualche ora prima della proclamazione, inserisco quella del testo che ha ricevuto più punti nell’ultima selezione.


Edoardo Nesi, Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia, Milano, Bompiani, 2011, euro 14


Non ricordo dove lessi di un qualche critico che non rammento il quale, per recensire un romanzo il cui titolo ora mi sfugge, preferì limitarsi a descriverne la copertina. La copertina di Storia della mia gente (progetto grafico Polystudio) presenta, incardinati in una cornice bianca, cinque campioni sovrapposti di tessuti; su ognuno corrono, incolonnati con giustificazione a epigrafe, in caratteri bianchi, il nome e cognome dell’autore (nel campione superiore, alto circa il doppio degli altri) e, una per una, le parole del titolo di primo livello. Sotto al tartan che costituisce il campione inferiore, a richiamarne il cromatismo con un color oro consonante, il titolo di secondo livello, in caratteri maiuscoli. Copertina confacente, senz’altro, e non per il tema del libro, il doloroso e repentino collasso dell’industria tessile pratese. Per la forma. Una campionatura un po’ di tutto; riconosciuta la sincerità dell’intento di Nesi, una campionatura di un po’ tutto ciò che può far ambire a un Premio Strega.


Il libro mi sembra qualcosa di irrisolto, persino di irresoluto; un libro che non riesce a prendere una forma. Non ci sarebbe nessun problema, se soltanto fosse difficile dare una definizione dell’opera. Saggio? Pamphlet? Invettiva? Memorie? Tutto insieme? Il problema è che i generi non dialogano; l’uno non serve agli altri. Il titolo Storia della mia gente: qui, purtroppo, non c’è né storia, né gente. Qui c’è solo Edoardo Nesi.

Arriva il mio martini e, prima di berne il primo sorso che è sempre il migliore per certe incontrovertibili ragioni fisiche, annuso il meraviglioso profumo di acqua di colonia che emana per qualche secondo, se è fatto bene – cioè con una presenza infinitesimale di vermouth e col Tanqueray (p. 46). Interessante.

So che esistono i diesis e i bemolle, ma aldilà dell’apprezzare la morbidezza di questi bei nomi antichi, non saprei definirli nemmeno se ne andasse della mia vita. Lo stesso per il tono, per il colore della musica, persino per l’armonia. Tutte astrazioni che fingo di capire. So che esiste il contrappunto, ma non so cosa sia. Della musica mi piacciono i nomi: clavicembalo, oboe, contrabbasso. Fagotto e controfagotto. Solfeggio. Xilofono e vibrafono. Dodecafonia. (p. 89) Anche io non ho mai capito che cosa sia l’armonia. E, cavoli, anch’io ho sempre trovato buffissimo il nome “controfagotto”. E vi ho mai raccontato che la mia prozia Ginetta, che però si chiamava Luigia (ma la prozia Ginetta non ha mai amato quel nome troppo maschile), una volta laureatasi al conservatorio non toccò più una tastiera perché il padre, buon borghese di inizio ventesimo secolo, ci teneva a una figlia che suonasse il pianoforte, per questione di distinzione? E della sig.na Clerici che ha tentato inutilmente di farmi imparare il più facile dei preludi di Chopin, vi ho mai parlato? Se non l’ho fatto, peccato, perché ho un bellissimo ricordo della sig.na Elena Clerici, che ancora nella sua stanzetta nella casa di riposo di via della Commenda teneva il pianoforte verticale.

Alla mia e-mail Joan Didion ha risposto subito, lo stesso giorno in cui le è arrivata. Ha scritto che mi ringraziava tantissimo – Thank you so very very much –, e che le avevo rischiarato un freddo e buio lunedì newyorchese, L’ho immaginata sorridere fuggevolmente mentre leggeva la mia lettera nel suo candido appartamento di New York che ho visto in tante fotografie, avvolta in una stola di cashmere bianco latte, lei che nella vita ha patito tanto, perché forse le mie sincere e sperticate lodi per un libro che aveva scritto venticinque anni prima le avevano fatto tornare in mente qualcuno dei suoi momenti felici. (p. 71) È sempre importante puntualizzare che “grazie, grazie davvero” in inglese si dice “Thank you so very very much”.

La citazione in epigrafe di F. Scott Fitzgerald (“È una storia meravigliosa. È la mia storia, e la storia della mia gente”) purtroppo vale soprattutto a introdurre uno scottfitzgeraldismo dilagante in tutto il libro; la colonna sonora; i libri letti; quelli scritti; Forte dei Marmi; la Capannina. Purtroppo il sottotitolo La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia non dà ordine e senso al libro.

Né la parte dedicata alla crisi del tessile salva il libro. Che la globalizzazione abbia portato l’industria manifatturiera al collasso, direi che si sa. Che operai rumeni e cinesi sottopagati e senza diritti abbiano risucchiato all’estero il lavoro, basta entrare in un bar per saperlo. Questo è il libro di un ex-industriale e figlio e nipote di industriali; ed è il libro di un narratore nonché, tanto per dire, traduttore di Infinite Jest. Qui però non c’è la competenza, lo sguardo dal cuore del collasso di un sistema – di chi ha visto incrinarsi e creparsi e poi crollare dall’interno l’intera torre del Sistema Italia – né la forza del racconto, la violenza fredda di chi ha avuto in dono le parole per raccontare vite, e storie, e genti. Solo in pochi momenti la pagina si ravviva e scuote; ne scelgo uno, le prime sei pagine del capitolo L’incubo, e proprio perché è il racconto di una vita.

Un libro confuso e pretenzioso, spesso querulo, indefinito e generico. La grande colpa dei politici italiani: aver mandato a firmare trattati economici gente che conosce Sun Tzu e von Clausewitz (davvero in politica abbiamo gente simile?), e non invece quelli che sentono istintivamente quando nelle trattative arriva il momento di tirare gli schiaffi e quando invece bisogna sapersi piegare come il giunco: i figli di puttana, insomma, non i professori. E mandare a Bruxelles trenate di incazzati, e darsi pace se rompevano qualche vetro dei palazzi dei grandi banchieri o se qualcuno finiva per assaggiare i manganelli della polizia belga, perché era per una buona causa. Benissimo; frasi simili le ho sentire dire spesso, e di sicuro non mi formalizzo. Sarebbe stato meglio però dire “e darsi pace se rompevamo qualche vetro dei palazzi ... o se finivamo per assaggiare i manganelli”. È questione di prosodia; suona meglio.

E magari un editor avrebbe potuto segnalare che, una facciata dopo aver detto che i conoscitori di Sun Tzu e von Clausewitz sono responsabili del collasso, mettersi a citare De principatibus XIV per insegnare che cosa si sarebbe dovuto fare, suona poco coerente. Specie se Machiavelli, qui, c’entra davvero poco. Specie se è una delle sue tante frasi decisamente discutibili da un punto di vista argomentativo.

E onestamente, che Edoardo Nesi – Berkeley – Harvard – Mercedes – splendida villa – Forte dei Marmi – classe 1964 concluda, riallacciandosi alla propria generazione X, chiedendo Non c’è nessuno, invece, che debba chiederci scusa per averci condannato a essere la prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori?, sinceramente mi dà solo fastidio. Non doveva essere un libro sulla mia gente? È diventato un libro sulla generazione dei cinquantenni?

Questo è il libro che avrebbe potuto scrivere Hanno Buddenbrook.

E se non si fosse capito, non mi è piaciuto. E non mi è piaciuto proprio perché non si può non far vincere il libro che racconta lo smarrimento della “prima generazione da secoli che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori”. Non sarebbe elegante.


martedì 5 luglio 2011

“Questa è la triste fine di Sid il bradipo”

Sam Savage, Il lamento del Bradipo [2009], Torino, Einaudi, 2009, euro 12

Redigere i quarti di copertina, è arte e maestria. Mica facile, entro una griglia paratestuale data, riuscire ad allettare il lettore, senza dirgli troppo; essere referenziali e insieme seduttivi; fornire chiavi di lettura, embrioni di critica, e insieme non asfissiare il più ampio respiro del libro. Prendo in mano Il lamento del bradipo, di Sam Savage, fratello minore del caso letterario del 2006, Firmino, affascinante episodio di debutto letterario alla soglia dei settanta. Prendo in mano questo Lamento, e sul retro leggo: “La storia struggente, di chapliniana semplicità di Andrew, tenero e inguaribile fabbricante di illusioni”. Però! Subito dopo, bella citazione da Citati: “Savage è spiritosissimo e divertentissimo ed eredità tutte le corde del riso: shakespeariano, cervantino, swiftiano, dickensiano, carrolliano, stevensoniano, chapliniano”. Siccome lamentoso sono pure io, quantomeno quel riecheggiante chapliniano in due diversi elementi del paratesto mi pare un po’ fastidioso, e mi fa pensare che il redattore qualche sforzo in più avrebbe pure potuto farlo. E penso pure, già che c’era, che tra “tutte le corde del riso”, potevano starci anche – che so – plautino, sveviano, lewisiano, rabelaisiano, jeromiano, pirandelliano, e magari, per amore di variatio fonetica, flaianense e aristofanesco. Ma Citati non si discute, e quindi questo libro non potrà che essere spiritosissimo e divertentissimo, nonché di chapliniana semplicità. Ad esempio, questo passo: Non sono stato sincero con te. Non lo sono stato con me stesso. Il fatto è che la macchina della mia vita sembra aver voltato in un vicolo cieco. L’ho portata a schiantarsi contro un muro di mattoni. È simile al muro dietro la mia scuola elementare, dove mi facevano stare mentre mi tiravano addosso delle cose. Non voglio starci più. Spassosamente chapliniano, direi. O forse era stevensoniano, e allora qui sono io in difetto, che Stevenson lo conosco poco.

Qualcosa di ironico c’è, in realtà, qualcosa dell’ironia settecentesca, in quel lunghissimo sottotitolo In cui sin narra la storia perlopiù tragica di Andrew Whittaker, ovvero la raccolta completa e definitiva dei suoi scritti. In questa distanza ironica c’è tutta la tragedia di un uomo fallito: scrittore frustrato e che si pretende di rottura, immobiliarista sull’orlo del tracollo, marito tradito e abbandonato e sfruttato, editore di “Bolle”, una miseranda e moribonda rivista letteraria di rilevanza provinciale e dileggio nazionale. Tutto collassa e crolla, come la sua casa, tra formiche e topi e cedimenti strutturali, invaso da un disordine che nemmeno sa da dove venga. Come la sua salute, tra psoriasi, soffio al cuore e mancamenti. E come crolla la sua psiche. Un cieco in una casa cieca. Whittaker la puntella scrivendo. Per quattro mesi, e quattro capitoli. Scrivendo a tutti. Colleghi giovanili di consorteria letteraria ormai famosi e sprezzanti e odiati; l’ex-moglie a cui passa gli alimenti perché possa cercare di fare l’attrice a New York; vecchie fiamme che ricordano la splendida notte d’amore e sesso come un orribile incubo con un “nevrotico che l’angariava”; collaboratori di “Bolle” paranoici e patetici; giovani promesse della poesia pornografica che non sarà con lui che finiranno a letto; inquilini squattrinati che lo accusano di avere insinuato che la moglie avesse una tresca con Archimede.

Potrebbe in effetti sembrare divertente. Se non che le sue lettere sono un’alluvione di ipocrisie, mistificazioni, vaniloqui, ossessioni, paranoie, menzogne a se stesso e agli altri che emergono solo dal confronto tra le lettere. Con squarci di straziante sincerità. È questo montaggio e smontaggio della personalità di Andrew a dare un valore a un libro interamente costruito sulla tecnica del collage, che di per sé ha sempre qualcosa di visto e stravisto; e alla stanca tecnica del romanzo epistolare, genere a cui il romanzo, proprio per la sua facilità, è indissolubilmente legato dalla nascita. Un immenso catalogo di destinatari molteplici, di appunti personali, di comunicati stampa, di pagine di un romanzo orrendo, di avvisi agli inquilini, di liste della spesa. Ciò che lo rende affascinante è il genere epistolare non è solo elemento narrativo, ma forma della solitaria disperazione contemporanea. Raramente si ha un simile tragico riconoscimento dell’alienazione della comunicazione epistolare, dialogo con se stesso, con una proiezione di se stesso. Per bisogno di esserci. Dialogo ininterrotto e riscritto e immaginato e risillabato, come quello con un’amante perduta. Da qui - con alcune osservazioni da manuale della teoria dell'epistolografia - i continui dubbi sullo statuto del lettore, sul tempo di scrittura e il tempo di lettura, sul dialogo col nulla e con nessuno. Trovo facile parlare con te, probabilmente perché non ti ricordo troppo bene. È come parlare ai mobili, ma con il vantaggio che nel tuo caso i mobili capiscono, o almeno fingono di capire. Al punto da scrivere di sé in lettere firmate dai facili anagrammi Dyna Wreathkit, Warden Hawktiter, Kitten Hardway. Al punto da scrivere ai propri eteronimi. E a costruire un gioco di specchi tra un eteronimo che lo guarda vivere e se stesso che racconta dello spettacolo allestito perché l’eteronimo creda di vederlo vivere.

E al cuore del romanzo, la tragedia del bradipo, tragica vittima di uno dei più crudeli scherzi della natura. “Tipetti estroversi” i bradipi, in realtà, lo sanno tutti. Disperatamente alla ricerca di compagnia e amore, e vivacità e socievolezza. Ma che la natura ha destinato a quell’unico albero che è la loro casa, la loro città, il loro mondo. Alla solitudine, alla lentezza, alla monotonia, alla inesorabile pazzia. A sprofondare in un mondo immaginario di compagni amorevoli e vita sociale vertiginosa. Finché un giorno, immerso nei suoi sogni, dimentica di aggrapparsi e muore precipitando al suolo. Davvero è la raccolta completa e definitiva degli scritti di Andrew Whittaker; in questa piccola glossa, forse la svolta di tragica inedia in una grottesca tragedia.

Mi fa l’effetto di trovarmi davanti a una porta chiusa dietro cui tu vivi e che non si aprirà mai. Non possiamo capirci che picchiando alla porta (F. Kafka a Felice, 3-4 marzo 1913)