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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

venerdì 30 marzo 2012

Tempo di attesa stimato, ricalcolo



In attesa di aggiornamenti del blog, leggete. Che mi sa che è la volta buona che riuscite a finire La morte di Virgilio...

giovedì 22 marzo 2012

Per il 25 marzo a Milano

 Sul Tram Verde, per tutte le famiglie una staffetta di letture ed incontri d’autore in collaborazione con Hooks. 


Il programma prevede:- dalle 11 alle 12 Newton Compton con "101 cose da fare a Milano con il tuo bambino" e la lettura delle autrici Giovanna Canzi e Daniela Pagani;- dalle 12 alle 13 Marcos y Marcos con "Bar Atlantic" e la lettura dell'autore Bruno Osimo;- dalle 15 alle 16 Iperborea con "Saluti e Baci da Mixin Part" e la lettura di Claudia Negrin e Michele Bottini;- dalle 16 alle 17 Tropea con "Un dollaro al giorno" e la lettura dell'autore Giovanni Porzio;- dalle 17 alle 18 Autodafè con "L'isola dei voli arcobaleno" e la lettura della autrice Sabrina Minetti.

Le vetture circoleranno dalle 11.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00. I mini tour della durata di 30 minuti partiranno da Piazza Castello (angolo via Beltrami) alle 11.00, 12.00, 15.00, 16.00 e 17.00 e da Piazza Fontana alle 11.30, 12.30, 15.30, 16.30 e 17.30.


Per prenotare il tour rivolgersi al personale presente in fermata. L'accesso è gratuito, fino a esaurimento posti.  

mercoledì 21 marzo 2012

S’è arenè stanòta una baléna

È primavera. L’entroterra marchigiano-romagnolo è una delle ultime terre mitiche d’Italia, dove restano le favole antiche; è nuova stagione, e il mondo torna alla sua infanzia. Più ingenua e primitiva là, tra quei greppi d’entroterra dove a primavera arriva a tratti il Garbino portando la fregola e la pazzia e l’odore di un mare che gli anziani conoscono ma non hanno mai visto, là da dove arrivano i miei antichi. Là dove e’tèra e’ tera ch’u n i sta niséun / e u s vàid dal gran pidèdi d’animèli.

Ogni tanto mi faccio portare in mezzo a queste rocce dello Storena, piccolo torrente del Montefeltro. Resto lì e so di essere chissà dove. Abbiamo bisogno che non siano soltanto le parole a toglierci dalla monotonia di questa vita ma anche un paesaggio può ributtarti addosso una vita primitiva abbandonata da milioni di anni e farti sentire l’odore dell’infanzia del mondo. Ore le cose non durano più. Tutto viene sepolto da altri episodi e fatti che arrivano continuamente con una lunga e infinita pioggia di neve che cancella i rumori che stavano appena scricchiolando nel mondo.

Così Tonino Guerra nell’ultimo dei suoi libri, Polvere di sole, uscito in questo marzo frettoloso. Alle 08:30 della mattina del 21 marzo 2012, in piazza Garganelli, a Santarcangelo, nella casa di Tonino Guerra è entrato il silenzio.

Andè a di acsè mi bu ch’i vaga véa,
che quèl chi à fat i à fat,
che adèss u s’èera préima se tratòur.

E’ pianz e’ còr ma tótt, enca mu mè,
avdàa ch’i à lavurè dal mièri d’an
e adès i à d’andè véa a tèsta basa
dri ma la córda lònga de mazèl.

Andate a dire ai miei buoi che vadano via
che il loro lavoro non ci serve più
che oggi si fa prima ad arare col trattore.

E poi commoviamoci pure a pensare
alla fatica che hanno fatto per migliaia di anni
mentre eccoli lì che se ne vanno a testa bassa
dietro la corda lunga del macello.

martedì 20 marzo 2012

Scusate il ritardo, ma non la sociologia

Negli ultimi tempi ho decisamente latitato. Proviamo a divagare.

Mi imbatto in Family Connections in Accessing Licensed Occupations in Italy, di Gaetano Basso e Giovanna Labartino, all’interno di Family Ties in Licensed Professions in Italy, un report della Fondazione Rodolfo Benedetti (http://www.frdb.org/upload/file/family_professions_fRDB_050711.pdf).

Ora, che l’Italia sia una società statica, e asfittica, in cui i lavori si ereditano, è storia tristemente vecchia.

Però a pag. 40 c’è qualcosa di interessante; la classica tabella a due entrate, con sia sull’ascisse sia sull’ordinata le varie tipologie di professioni: operai; impiegati; insegnanti; Dirigenti di medio livello; Dirigenti; Professionisti; Imprenditori. Già la scelta della sequenza potrebbe essere significativa, con gli insegnanti collocati sotto i dirigenti di medio livello. D’accordo: da qualche parte dovevano piazzarli.

L’aspetto interessante della tabella è che l’ascisse indica il mestiere dei padri, e l’ordinata il mestiere dei figli. È così possibile registrare per ogni professione qual è l’approdo lavorativo dei figli.

Nulla di particolarmente sconvolgente. C’è poco da sorprendersi che il 57,47% dei figli di operai faccia a sua volta l’operaio; e – chi l’avrebbe detto – i “professional” (medici, architetti, avvocati, giornalisti etc.) tendono a tramandarsi il lavoro tra generazioni (il 28.26%, ossia il segmento maggiore, dei loro figli è, a sua volta, “professional”).

C’è però un dato che mi ha incuriosito molto. È possibile infatti riconoscere qual è la professione che, come dire, tende meno a riprodursi di padre in figlio. Dunque, dicevamo che il 57.47% dei figli di operai fa l’operaio; il 43,69 dei figli di impiegato, l’impiegato; è così per il 32,12 degli imprenditori, il 28,26 dei “professional”; il 14,30 dei manager; il 13,73 dei dirigenti medi. E in fondo, proprio in fondo, il lavoro che nessun figlio vorrebbe fare. E sì, perché solo il 13,51% dei professori ha un figlio professore. Gli altri scappano tutti.

Ripensando al silenzio in cui è sprofondato questo blog, non mi sorprendo.

mercoledì 7 marzo 2012

Verrà la morte, ma anche no

Osman Lins, L’isola nello spazio [1964], Palermo, Sellerio, 2000

Nel mio archivio di letture future c’era da un pezzo Avalovara di Osman Lins; così quando mi imbatto nel suo agilissimo L’isola nello spazio penso che possa essere un’utilissima degustazione preliminare. Dunque vediamo: trentaquattro pagine di testo autoriale; tredici di postfazione. Un commento lungo più di un terzo dell’opera: chissà che testo denso, complesso, stratificato, ambiguo, polisemico.

Buona parte della postfazione si riduce a parafrasi del testo; un’altra discreta parte replica e ribadisce e puntualizza che questo racconto è palesemente ancora un’opera preliminare, interlocutoria, incerta, e non siamo ancora di fronte a quella figura che contribuirà a rivoluzionare la letteratura brasiliana. Così, nel caso non mi fossi accorto di non avere letto chissaché. Oltre a questa sequenza di postille e premesse e mani-avanti, quel che resta serve a dire una cosa abbastanza evidente, sia pure con una consistente messe di riferimenti.

E la cosa evidente è che siamo di fronte a un ribaltamento della struttura del giallo; se nel genere dovremmo passare da un mistero alla sua spiegazione passando attraverso un’indagine metodica e razionale, qui passiamo dalla premessa da risolvere (il classico delitto della camera chiusa, o meglio in questo caso sparizione dalla camera chiusa) alla spiegazione pienamente materiale e meccanica (doppia spiegazione materiale e meccanica di quelli che sono in realtà due misteri) passando però per uno sprofondamento nel fantastico.

E qui nella postfazione volano parole pesanti, come Buzzati, per il fantastico, e Pirandello, per ragioni che chiunque avrà voglia di leggere il racconto – ma probabilmente anche solo il resto della scheda – capirà da sé.

Perché il racconto si apre con la scomparsa di Cláudio Arantes Marinho, ultimo inquilino rimasto nel gigantesco e nuovo Edificio Capibaribe, affacciato sul fiume di Recife, in cui, misteriosamente, cominciano a morire vari inquilini, con la conseguenza della repentina fuga di tutti gli altri. Cláudio Arantes Marinho, come si ricostruisce dall’analessi, abbandonato da moglie e figlie, resta nell’edificio spettrale sulla base di un accordo coi costruttori: le restanti rate abbuonate in cambio di una presenza che possa confutare tutte le leggende e i timori.

Eppure, il nostro eroe un giorno scompare. Certo, condivisibilissimo quanto ribadito dalla postfazione: siamo di fronte a un uomo prigioniero di una vita infelice, e il casermone abbandonato di cui resta a guardia è metafora che non richiede avanguardie semiotiche; e nemmeno l’insistenza sulla morte che si aggira in attesa e fiutante per i corridoi vuoti in cerca dell’ultimo inquilino impone virtuosismi interpretativi. Anzi, qualche passo efficace si trova. Però.

Però quel fantastico? Il fantastico è fantastico, cioè perturbante; non ci vuole Todorov per sapere che il fantastico resta ambiguo. Però, per la miseria, ambiguo e non spiegabile non vuol dire ne-faccio-quel-che-voglio-che-tanto-siccome-è-fantastico-non-ciò-[per il proto: non “c’ho”, ma proprio “ciò”]-niente-da-giustificare. Devi scegliere: l’ascensore vuoto che si muove al piano da solo oppure gli interessi speculativi; il pappagallo che si aggiunge alla lista delle morti misteriose o la vecchia ricetta di un veleno su un antico manoscritto italiano (bel colpo di fantasia, tra l’altro).

E poi, il finale. A parte il fatto che buonanotte verosimiglianza (e proprio quando saremmo tornati sul piano del reale), a parte quello, o spieghi tutto razionalmente, oppure non fai saltare fuori all’ultimo da chissà dove un marchingegno che nemmeno Sweeney Todd. E non te la cavi con un grossolano finale di dieci righe.

Una cosa avrei voluto sapere dalla postfazione. Ma che c’entra quel povero gatto? Ora, non che i gatti mi facciano una gran pena, specifico. Ma se un gatto letterario fa una brutta fine, allora è tutta altra faccenda. Ecco la mia sfida: se qualcuno mi spiega il destino del fictional cat, avrà diritto a una scheda su un libro di non più di cento pagine, leggere sempre bene i caratteri in piccolo di sua scelta. 

domenica 4 marzo 2012

Antropo-geologia del Canton Ticino

Max Frisch, L’uomo nell’Olocene , Torino, Einaudi, [1979], Torino, Einaudi, 2012 (1981)


Un romanzo della vecchiaia. Un romanzo di forte dimensione autobiografica.

Max Frisch, romanziere scomodo, impegnato, polemico, tra il 1965 e il 1980 andò ad abitare, lui svizzero-tedesco, nella Valle Onsernone, una valle del Canton Ticino in via di spopolamento. Anche il signor Geiser, più o meno coetaneo di Frisch al momento della composizione, vive in Val Onsernone. Vedovo. Solitario.

Sulla Valle Onsernone si scatena il finimondo, le cateratte del giudizio universale. La valle è isolata, la corrente interrotta, le comunicazioni saltate, i viveri scarseggiano. Esiste ancora un mondo di là dalle creste nebbiose? Comincia così una sorta di cronaca dell’apocalisse umana.

Una cronaca di brevi, brevissimi frammenti, in cui il narratore esterno segue alternativamente le condizioni del tempo e passo passo le piccole attività di sopravvivenza di un uomo anziano isolato in una valle isolata, creando progressivamente una vera immersione dell’uomo nella natura, in una scansione cronologica precipitosamente irrazionale verso la fine. Ma il narratore è anche narratore onnisciente (quasi sempre), e segue i pensieri dell’uomo; o meglio, ne segue la fragile ricerca di pensieri, e ricordi, e nozioni.

L’anziano signor Geiser, infatti, è preda di una evidente senescenza, di una memoria sempre più fragile. Nella lotta contro l’oblio il signor Geiser ritaglia dai suoi libri stralci di pagine per affiggerli alle pareti; e il romanzo si fa allora non solo una cronaca dell’apocalisse, ma anche un ritorno, una rilettura della genesi. Perché quei ritagli – riprodotti in anastatica direttamente sulla pagina, tanto da fare del libro un collage sperimentale – provengono da manuali di geologia, dalla bibbia, enciclopedie: appunti sui dinosauri, la memoria, le falde penniniche, la deriva dei continenti, l’uomo come essere storico, la meteorologia. Una sorta di discesa verso un tempo ancestrale, pre-umano, alle grandi forze che plasmarono la terra.

Il mondo collassa, la casa del signor Geiser crolla, la sua memoria vacilla; solo due grandi eventi restano saldi nella sua memoria, i due grandi eventi della sua vita. Un viaggio in Islanda, trasfigurata – in una pagina di grande apertura e potenza epica – in una terra prima dell’uomo, e che identica sarà ancora dopo l’uomo, e già senza uomo; un’antica scalata giovanile con il fratello, quando la morte fu vicina, e l’uomo fu niente di fronte alla montagna.

Il signor Geiser procede verso un tempo prima di lui e dopo di lui, fino a confondersi con la roccia senza tempo e senza memoria.

Nel finale il narratore raggiunge un’ambiguità insieme suggestiva e dolorosa, come una voce straniata e distante. Gli ultimi ritagli di chi sono? Chi ha cercato e letto le parole erosione, cancro del castagno, escatologia, principio di coerenza che raccolgono in un senso ultimo e unitario l’esistente della terra, del Ticino, di un uomo? Chi quell’ultimo ritaglio di argomento medico che spiega il finale? Di chi quella voce che cala il sipario, riassumendo, finalmente, finalmente in forma distesa, le varie fugaci osservazioni sulla Val Onsernone disperse lungo il romanzo da una voce frammentata? I libro si chiude come in un volo di uccello, in una voce sempre più distante, in cui il signor Geiser, laggiù, è scomparso.

Uno dei frammenti, significativamente tra parentesi, ambiguamente e unico tra parentesi, rilevava l’inconsistenza dei romanzi contemporanei: storie di relazioni famigliari, di anime infelici, come se il terreno per tutto ciò fosse garantito, la terra per sempre una volta terra, l’altezza del livello del mare regolata una volta per sempre. In questo romanzo la terra e il mare si muovono nel lento movimento eterno della materia plasmata dal tempo; l’uomo dell’Olocene – un uomo nell’Olocene – può solo confondersi a tempo e materia, ricordando l’ultima cosa importante, EB : AE = AE : AB, uno dei primi ritagli affissi, la sezione aurea che regola la natura e la bellezza.