Osman Lins, L’isola nello spazio [1964], Palermo, Sellerio, 2000
Nel mio archivio di letture future c’era da un pezzo Avalovara di Osman Lins; così quando mi imbatto nel suo agilissimo L’isola nello spazio penso che possa essere un’utilissima degustazione preliminare. Dunque vediamo: trentaquattro pagine di testo autoriale; tredici di postfazione. Un commento lungo più di un terzo dell’opera: chissà che testo denso, complesso, stratificato, ambiguo, polisemico.
Buona parte della postfazione si riduce a parafrasi del testo; un’altra discreta parte replica e ribadisce e puntualizza che questo racconto è palesemente ancora un’opera preliminare, interlocutoria, incerta, e non siamo ancora di fronte a quella figura che contribuirà a rivoluzionare la letteratura brasiliana. Così, nel caso non mi fossi accorto di non avere letto chissaché. Oltre a questa sequenza di postille e premesse e mani-avanti, quel che resta serve a dire una cosa abbastanza evidente, sia pure con una consistente messe di riferimenti.
E la cosa evidente è che siamo di fronte a un ribaltamento della struttura del giallo; se nel genere dovremmo passare da un mistero alla sua spiegazione passando attraverso un’indagine metodica e razionale, qui passiamo dalla premessa da risolvere (il classico delitto della camera chiusa, o meglio in questo caso sparizione dalla camera chiusa) alla spiegazione pienamente materiale e meccanica (doppia spiegazione materiale e meccanica di quelli che sono in realtà due misteri) passando però per uno sprofondamento nel fantastico.
E qui nella postfazione volano parole pesanti, come Buzzati, per il fantastico, e Pirandello, per ragioni che chiunque avrà voglia di leggere il racconto – ma probabilmente anche solo il resto della scheda – capirà da sé.
Perché il racconto si apre con la scomparsa di Cláudio Arantes Marinho, ultimo inquilino rimasto nel gigantesco e nuovo Edificio Capibaribe, affacciato sul fiume di Recife, in cui, misteriosamente, cominciano a morire vari inquilini, con la conseguenza della repentina fuga di tutti gli altri. Cláudio Arantes Marinho, come si ricostruisce dall’analessi, abbandonato da moglie e figlie, resta nell’edificio spettrale sulla base di un accordo coi costruttori: le restanti rate abbuonate in cambio di una presenza che possa confutare tutte le leggende e i timori.
Eppure, il nostro eroe un giorno scompare. Certo, condivisibilissimo quanto ribadito dalla postfazione: siamo di fronte a un uomo prigioniero di una vita infelice, e il casermone abbandonato di cui resta a guardia è metafora che non richiede avanguardie semiotiche; e nemmeno l’insistenza sulla morte che si aggira in attesa e fiutante per i corridoi vuoti in cerca dell’ultimo inquilino impone virtuosismi interpretativi. Anzi, qualche passo efficace si trova. Però.
Però quel fantastico? Il fantastico è fantastico, cioè perturbante; non ci vuole Todorov per sapere che il fantastico resta ambiguo. Però, per la miseria, ambiguo e non spiegabile non vuol dire ne-faccio-quel-che-voglio-che-tanto-siccome-è-fantastico-non-ciò-[per il proto: non “c’ho”, ma proprio “ciò”]-niente-da-giustificare. Devi scegliere: l’ascensore vuoto che si muove al piano da solo oppure gli interessi speculativi; il pappagallo che si aggiunge alla lista delle morti misteriose o la vecchia ricetta di un veleno su un antico manoscritto italiano (bel colpo di fantasia, tra l’altro).
E poi, il finale. A parte il fatto che buonanotte verosimiglianza (e proprio quando saremmo tornati sul piano del reale), a parte quello, o spieghi tutto razionalmente, oppure non fai saltare fuori all’ultimo da chissà dove un marchingegno che nemmeno Sweeney Todd. E non te la cavi con un grossolano finale di dieci righe.
Una cosa avrei voluto sapere dalla postfazione. Ma che c’entra quel povero gatto? Ora, non che i gatti mi facciano una gran pena, specifico. Ma se un gatto letterario fa una brutta fine, allora è tutta altra faccenda. Ecco la mia sfida: se qualcuno mi spiega il destino del fictional cat, avrà diritto a una scheda su un libro di non più di cento pagine, leggere sempre bene i caratteri in piccolo di sua scelta.
Sei elegante e esaustivo anche nelle stroncature. Non ho il minimo dubbio che l'unico pregio di questo libro sia l'averti indotto a scrivere una scheda così godibile. Questo non è l'unico motivo per cui non lo leggerò; l'altro è quel macabro riferimento a un gatto, creatura che amo troppo per sopportarne una brutta fine anche in una finzione letteraria.
RispondiEliminaTerzo motivo: sto leggendo con molta attenzione L'uomo nell'Olocene, e non voglio abbassare il livello delle mie letture con un testo che ha già deluso un palato fine come il tuo.