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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

sabato 23 ottobre 2010

Il fumettista torna sempre sul luogo del delitto

Joe Sacco, Neven. Una storia da Sarajevo [2003], Milano, Mondadori, 2007


Francesco Patrizi, nel 1560, nel Valerio, overo dell’historia della vita altrui riconosceva piena dignità di biografabile solo a uomini politici e militari, contestando quelle forme alternative che sempre più spazio prendevano proprio in quel torno di anni, come le vite di artisti e letterati. Ben altre biografie, manco si immaginava che esistessero. Quelle vite di tutti e di nessuno, uomini comuni persi nel flusso della storia. 


Si avrà da aspettare per arrivare alla Histoire véritable de Jacques Bonhomme, d’après des documents authentiques del grande storico francese Augustin Thierry, tragico, e assai poco véritable, capolavoro che, sulla base di inoppugnabili documenti, ripercorre la biografia del bimillenario contadino Jacques Bonhomme, testimone della storia di Francia, dalla conquista cesarea della Gallia alla contemporaneità, pretesto per seguire la storia sociale delle masse popolari. 


Così Neven è uno squarcio biografico che permette di seguire una delle pagine meno note e più cupe della tragedia dell’assedio di Sarajevo; Joe Sacco torna nel 2001 nella capitale bosniaca (alla guerra aveva già dedicato nel 2000 il duro Goražde: area protetta) alla ricerca di Neven, l’uomo dalle conoscenze giuste e dalle insospettate risorse che ha fatto da guida a lui e a infiniti altri giornalisti sulle linee del fronte e delle retrovie (il titolo originale è infatti The Fixer). 


Ma chi è Neven, chi è questo figlio di madre bosgnacca e padre serbo, cresciuto come un serbo, che ha scelto di restare a Sarajevo e combattere nelle milizie bosniache perché è sì un nazionalista serbo, ma lo è perché ama il suo popolo, senza odiare nessuno? Lo sguardo enigmatico e inquietante di Neven fissa il lettore già dalla copertina, in un primissimo piano solcato dall’ombra, precipitando il lettore nell’ambiguità di un uomo denunciato dal suo governo come “un elemento criminale e una minaccia alla sicurezza”. Eroe, criminale, fanfarone, furbastro, mitomane, maneggione, sfruttatore, combattente, o solo grumo di angosce, ricordi e dolore. 


In un continuo gioco di analessi scandite da cornici nere si riannodano i ricordi dal 1991, ripercorrendo i primi giorni disperati dell’assedio quando la resistenza è affidata a nomi rimasti torvi e leggendari a Sarajevo come Ćelo, Caco e Juka. Tutti ben meno che trentenni. Tutti criminali e sbandati, paranoici, violenti borderline, che seppero fermare i Cetnici sul Trebevic, ad Alipašino Polje, a Pofalici, Dobrinja e altri nomi sventrati nel sangue. E a pagare per la sopravvivenza furono i serbi rimasti in città, espulsi, spariti, infoibati, e tutti coloro che furono vittime di razzie, violenze, estorsioni, fino a che il governo ufficiale nell’autunno del 1993 non ebbe la forza di eliminare, spesso fisicamente, i vari signori della guerra. Neven era con Ismet “Ćelo” Bajramović, fino al giorno in cui essere serbo fu inaccettabile anche per lui. 


Spariti i signori della guerra, i giornalisti, gli amici, di Neven resta un’ombra che vaga per la città e una storia che Sacco cerca faticosamente di ricostruire; il trafficone-eroe è solo il reduce di un’esistenza straordinaria e incompiuta. “La verità è che la guerra ha mollato Neven”: la guerra è finita, e di Neven resta la pila dei biglietti da visita dei tempi eroici, di quando faceva da guida ai giornalisti di tutto il mondo a centocinquanta marchi al giorno. L’uomo è solo un disperso nelle nebbie che il fumettista cerca invano di dissipare; e la stessa voce narrante di Joe, continuamente emergente, è il segno dell’impossibilità di ricondurre il tragico caos della guerra e della vita di Neven a un’unità. “Ti immagini che razza di film potrebbero fare su un bastardo fuori di testa come me?!!”

mercoledì 20 ottobre 2010

Ornitologia degli addii

I remember you well in the Chelsea Hotel,
you were talking so brave and so sweet,
giving me head on the unmade bed,
while the limousines wait in the street.
Those were the reasons and that was New York,
we were running for the money and the flesh.
And that was called love for the workers in song
probably still is for those of them left.

Ah but you got away, didn't you babe,
you just turned your back on the crowd,
you got away, I never once heard you say,
I need you, I don't need you,
I need you, I don't need you
and all of that jiving around.

I remember you well in the Chelsea Hotel
you were famous, your heart was a legend.
You told me again you preferred handsome men
but for me you would make an exception.
And clenching your fist for the ones like us
who are oppressed by the figures of beauty,
you fixed yourself, you said, "Well never mind,
we are ugly but we have the music."

And then you got away, didn't you babe...

I don't mean to suggest that I loved you the best,
I can't keep track of each fallen robin.
I remember you well in the Chelsea Hotel,
that's all, I don't even think of you that often.



Per le cose che finiscono, per quel che ne resta, per le persone che vanno.
In vendita il Chelsea Hotel.

lunedì 18 ottobre 2010

Sperem...

Oggi entrano nel catalogo Feltrinelli gli e-book. Carlo Feltrinelli ha dichiarato oggi che ciò permetterà di recuperare vecchie edizioni che non sarebbero mai state ristampate. Non ricordo più chi disse che se il libro venisse dopo l'ebook, sarebbe accolto come una grande evoluzione.

domenica 17 ottobre 2010

Littera enim occidit

Prima che l’Italia campasse sulla Ferrari, quando l’Italia era una cosa seria, culturalmente, economicamente, socialmente, l’Italian style si gloriava nel mondo delle raffinatissime e coltissime edizioni aldine. E fashion era il meraviglioso carattere corsivo che comparve nelle Bucoliche del 1501, tanto che, per sempre, il corsivo sarebbe stato, per l’appunto, l’Italic. E l’editore Aldo Manuzio, come avrebbe fatto qualche giorno dopo Bill Gates con la clessidra, si garantì, alla faccia dell’open, un privilegio/brevetto di dieci anni su quell’elemento grafico così caratterizzante. Chi di soldi non ne vide fu il vero artefice di quei caratteri così eleganti (e industrialmente efficaci), l’orefice Francesco Griffo, capace di limare e rifinire quei punzoni di metallo fino a ricavarne i suoi stupendi caratteri. I caratteri mobili, fin troppo mobili, però li aveva veramente nel destino. Fu condannato a morte nel 1518. Aveva ammazzato il genero: fracassandogli il cranio con un punzone non finito! Poi il Dizionario Biografico degli Italiani banalizza a spranga. Ma vuoi mettere?
E il post è meno idiota di quanto paia.

sabato 16 ottobre 2010

Vox clamantis in forulis

Ho incontrato gente che teorizzava che sia il libro a chiamarti. Nulla di particolare nella forma, nel titolo, nella copertina. Semplicemente massa pulsante che pretende attenzione. Non sei tu che scegli il libro, ma lui che sceglie te. E conosco gente che si è portata a letto donne con molto meno. Allora mi lascio scegliere da Il giorno in cui non ci incontrammo, di Niklas Asker, fumettista svedese. Storia di incontri e inquietudini, di amori paralleli al crepuscolo. Tratto da albo della retroguardia Bonelli. Campitura della pagina, scolastica. Dilagante voce narrante in didascalia che fa sembrare Tex Willer un film di Tarkovskij. Meccanismi narrativi che quando, a quindici anni, li ritrovavo nei miei scartafacci mi facevano capire che non sarei stato un romanziere. E il rabdomante di libri, per quanto mi riguarda, è servito.

lunedì 11 ottobre 2010

Il bubbone dei Maya

Jack London, La peste scarlatta [1912], Milano, Adelphi, 2009, euro 9


Quando un giorno che sai benissimo essere un mercoledì sembra una domenica, vuol dire che butta proprio male. Quando i branchi di cavalli selvaggi scendono fin sul mare della baia di san Francisco spinti dai puma, allora è anche peggio. Non so se sia vero, come sentenziò una psicologa, che l’attrazione per la letteratura apocalittica nasca dalla rabbia per una società – una vita – in cui ci si sente soffocati, e che vorresti vedere disgregarsi per ricominciare tutto di nuovo. Certo Jack London le sue idee, idee socialisticamente scomode, sulla società capitalista americana le aveva, e lo dimostra questo mondo fittizio in cui, su una massa di uomini “liberi” ridotti alla condizione servile, dominano un Consiglio dei Magnati dell’Industria, il cui presidente è ereditario, e una Commissione internazionale di Vigilanza di soli sette uomini, e in cui il cognome del Presidente degli Stati Uniti può fregiarsi del numerale V; e Jack London, autodidatta viaggiatore formatosi tra ring, carceri e Ken Parker, aveva le sue idee anche sul mondo dell’università, su una cultura che si è fatta strumento di esclusione e sopraffazione. E capitalismo e cultura accademica vengono fatti collassare in questo brevissimo livido volumetto, La pesta scarlatta, travolti dalla fine stessa della civiltà umana. Quando il mondo conta ormai otto miliardi di abitanti e san Francisco 4 milioni, una nuova pandemia spazza in poche settimane l’intera umanità. È il 2013. Qualche giorno e gli abitanti del continente americano si contano a poche decine. “Fugaci i sistemi come schiuma”. JL pone un nuovo volume nella biblioteca apocalittica fondata solo pochi decenni prima da Mary Shelley con L’ultimo uomo. James Howard Smith, già giovanissimo e brillante professore di Letteratura inglese a Berkeley, vaga come Lionel Verney in un mondo vuoto, in cui, querulo e tragicamente solo, può soltanto raccontare ai tre nipoti una civiltà troppo lontana, fatta di numeri che non hanno più senso quando bastano uno, due e molti, servendosi di parole assurde e ridicole come maionese, scarlatto quando si potrebbe dire rosso, e schizomiceti. Nel 2073, quando è solo il Nonno, ombra di una storia dimenticata, affida a Edwin, Hoo-hoo e Labbro Leporino, increduli e insofferenti, il mito fondativo della disgregazione della società, di una lotta feroce dell’uomo contro l’uomo, il vagare verso un destino di dispersione, mentre i cani si inselvatichiscono e gli sciacalli dominano nelle pianure. E, vecchio che non riesce a celare la propria piagnucolosa meschinità, cerca di insegnare ai nipoti i numeri, di tramandare il segreto dell’esistenza dell’energia e della polvere da sparo, raccogliendo in una grotta i libri degli antichi, forniti di cifrario, perché anche il nome del professor James Howard Smith sia tramandato. Ma, in un finale in cui si mescolano Huey, Dewey, Louie e Dumézil con la sua tripartizione funzionale e le teorie cicliche machiavelliane, il Nonno deve accettare che tutto tornerà, e le verità saranno comunque riscoperte così come le menzogne rivissute, e, in una storia dominata da forza e materia, si riformuleranno i tipi eterni del re, del prete e del soldato. “E tutti gli altri faticheranno e soffriranno assai mentre sulle loro carcasse sanguinanti tornerà sempre e comunque a innalzarsi in eterno la bellezza stupefacente e la meraviglia incomparabile della civiltà”.

sabato 9 ottobre 2010

The Clash of Civilizations

Tremonti: La gente non mangia cultura.
Feuerbach: Siamo quello che mangiamo.

Que Farei Com Este Livro?

È nella natura delle cose trovare dolce, sicuri sulla riva, lo spettacolo dell’altrui naufragio. E figurarsi allora assistere a quello degli altrui manoscritti sul tavolo degli editor editoriali. Da Warhol in poi, chi sa canticchiare va a XFactor, chi ballonzola ad Amici, chi ha la faccia da volgare e perfetta idiota a La pupa e il secchione; chi non ha neanche quello, scrive un romanzo, ultima occasione per qualche soldo, una lama di luce, e soprattutto un palcoscenico per ossessioni, frustrazioni, megalomanie, impulsi di rivalsa e riscatto. E senza mai leggere un romanzo, che si potrebbe scoprire troppo di sé e del mondo. Al limite qualche manuale di scrittura. Per loro, formalmente, nasce invece Come non scrivere un romanzo. Una guida per evitare i 200 errori più comuni (Corbaccio, 2010). Esempi concreti per ogni sconcezza, nell’incipit, nell’explicit, nel ritmo narrativo, i personaggi, lo stile, i punti di vista, le focalizzazioni, l’ambientazione e via via per ogni errore che fantasia possa inventare; il tutto accompagnato dalla bonaria, e più spesso pungente, ironia dei due autori (Mittelmark, editor, e Newman, autrice di romanzi), impegnati a lavar la testa agli asini. Va bene, dai, se una sola persona riesce a  pubblicare un romanzo grazie a questa guida gli compro tutta l’opera omnia. Diciamo allora che è un libro per noi altri meschini, che sghignazziamo a leggere stralci di romanzi refusés, piccoli teatri, noi e loro, del disastro umano e culturale. Poi alla lunga l’ironia di M&N stanca, e non è facile leggere duecento brani che in teoria non dovrebbero mai finire in pagina stampata. Così come è fin troppo chiaro che i due pensano a romanzi commerciali, e che, per quasi tutti i duecento errori che dovrebbero condannare un manoscritto al riciclaggio, potrei menzionare un paio di indiscussi capolavori della letteratura mondiale. Però si legge, e si legge come se fosse un macroromanzo postmoderno, a metà tra un Se una notte d’inverno un viaggiatore che procura sollievo a ogni interruzione e un Esercizi di stile avvitato nel virtuosismo dell’ignobile. E negli stralci migliori, non è facile non ridere, mentre ci si complimenta col traduttore.
E allora, ignaro di quali siano le norme sui diritti, riporto il passo tratto dall’errore Quando l’autore ostenta il vocabolario altrui, che mi ha costretto a pensare a troppe immaginifiche pagine lette in questi anni:

Henderson cincischiò con la broche del bikini di Melinda, ruminando i suoi maneggi. «Dormi di già?» arrise, facendosi schermo di lei. Certo, era coscienzioso che quel sonno era il dovuto per la droga dissapore che le aveva riversato nel bicchiere, prima che salpassero dalla banchisa del porto. Tutto gagnolante – il bikini ormai caduco sul pavimento – si tuffò a capo chino tra i seni fiorenti di lei. Deflorò una miriade di volte la ragazza, ingenuamente protratta sul letto, ignavia di tutto.

sabato 2 ottobre 2010

I versi satanici

Se i vostri versi fanno schifo e la metrica zoppica, tranquilli: probabilmente non è colpa vostra, ma siete solo posseduti dal demonio. Lo si deduce dal cap. XLI De inaepta Daeomum Poesi [L’insulsa poesia dei demoni] del De cognitionibus quas habent demones di Federigo Borromeo.  Quel Federigo Borromeo. Che i demoni non abbiano vera scienza, il cardinale non era che l’ultimo dei teologi a dirlo. Ma, per suffragarlo, riporta anche alcuni mediocri versi demoniaci (proprio nel senso di scritti dal demonio), nonché gli oracoli delfici (semenza di Satana, per una secolare interpretazione cristiana), in cui già Plutarco notava errori metrici e sostanziali.  D’altronde la conclusione è stringente: “E anche a prescindere dall’eleganza lessicale e metrica, nei loro stessi scritti mai i demoni hanno realizzato qualcosa di elegante e raffinato che possa stare a confronto con l’eleganza e la raffinatezza di un Omero, un Pindaro, un Cicerone”. Sorridete, quindi: ciò che non fece il Del modo di comporre in versi in lingua italiana del Ruscelli, potrà fare un esorcismo.