Su questo Blog

Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

lunedì 11 ottobre 2010

Il bubbone dei Maya

Jack London, La peste scarlatta [1912], Milano, Adelphi, 2009, euro 9


Quando un giorno che sai benissimo essere un mercoledì sembra una domenica, vuol dire che butta proprio male. Quando i branchi di cavalli selvaggi scendono fin sul mare della baia di san Francisco spinti dai puma, allora è anche peggio. Non so se sia vero, come sentenziò una psicologa, che l’attrazione per la letteratura apocalittica nasca dalla rabbia per una società – una vita – in cui ci si sente soffocati, e che vorresti vedere disgregarsi per ricominciare tutto di nuovo. Certo Jack London le sue idee, idee socialisticamente scomode, sulla società capitalista americana le aveva, e lo dimostra questo mondo fittizio in cui, su una massa di uomini “liberi” ridotti alla condizione servile, dominano un Consiglio dei Magnati dell’Industria, il cui presidente è ereditario, e una Commissione internazionale di Vigilanza di soli sette uomini, e in cui il cognome del Presidente degli Stati Uniti può fregiarsi del numerale V; e Jack London, autodidatta viaggiatore formatosi tra ring, carceri e Ken Parker, aveva le sue idee anche sul mondo dell’università, su una cultura che si è fatta strumento di esclusione e sopraffazione. E capitalismo e cultura accademica vengono fatti collassare in questo brevissimo livido volumetto, La pesta scarlatta, travolti dalla fine stessa della civiltà umana. Quando il mondo conta ormai otto miliardi di abitanti e san Francisco 4 milioni, una nuova pandemia spazza in poche settimane l’intera umanità. È il 2013. Qualche giorno e gli abitanti del continente americano si contano a poche decine. “Fugaci i sistemi come schiuma”. JL pone un nuovo volume nella biblioteca apocalittica fondata solo pochi decenni prima da Mary Shelley con L’ultimo uomo. James Howard Smith, già giovanissimo e brillante professore di Letteratura inglese a Berkeley, vaga come Lionel Verney in un mondo vuoto, in cui, querulo e tragicamente solo, può soltanto raccontare ai tre nipoti una civiltà troppo lontana, fatta di numeri che non hanno più senso quando bastano uno, due e molti, servendosi di parole assurde e ridicole come maionese, scarlatto quando si potrebbe dire rosso, e schizomiceti. Nel 2073, quando è solo il Nonno, ombra di una storia dimenticata, affida a Edwin, Hoo-hoo e Labbro Leporino, increduli e insofferenti, il mito fondativo della disgregazione della società, di una lotta feroce dell’uomo contro l’uomo, il vagare verso un destino di dispersione, mentre i cani si inselvatichiscono e gli sciacalli dominano nelle pianure. E, vecchio che non riesce a celare la propria piagnucolosa meschinità, cerca di insegnare ai nipoti i numeri, di tramandare il segreto dell’esistenza dell’energia e della polvere da sparo, raccogliendo in una grotta i libri degli antichi, forniti di cifrario, perché anche il nome del professor James Howard Smith sia tramandato. Ma, in un finale in cui si mescolano Huey, Dewey, Louie e Dumézil con la sua tripartizione funzionale e le teorie cicliche machiavelliane, il Nonno deve accettare che tutto tornerà, e le verità saranno comunque riscoperte così come le menzogne rivissute, e, in una storia dominata da forza e materia, si riformuleranno i tipi eterni del re, del prete e del soldato. “E tutti gli altri faticheranno e soffriranno assai mentre sulle loro carcasse sanguinanti tornerà sempre e comunque a innalzarsi in eterno la bellezza stupefacente e la meraviglia incomparabile della civiltà”.

Nessun commento:

Posta un commento