Su questo Blog

Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 30 gennaio 2011

Di uomini e di libri

Nei giorni della rabbia sull’altra riva del Mediterraneo, nuovamente i musei sono devastati. Uomini che insorgono per la propria dignità, e cultura e memoria che viene straziata. Mi è tornata in mente una tragica scena di Agora di Alejandro Amenábar (dedicato alla vita di Ipazia e al sanguinoso declino della cultura classico-pagana), allorché i Cristiani assaltano il Serapeum e la biblioteca (e questo, sia subito detto, al di là della complessa questione del rapporto tra Serapeum e Biblioteca di Alessandria, e della storia e delle tappe della distruzione di quest’ultima); dovrebbe essere una scena che produce solo rabbia per la cecità, il fanatismo, e la violenza. “È qui che vuoi il trionfo della ragione ellenica, / qui dove perfino l’alfabeto è un segno dell’obbrobrio da distruggere?”, recitano due versi del bellissimo poemetto di Mario Luzi, Libro di Ipazia. Eppure io ho provato un senso di alienata solidarietà di fronte a quella feccia di pezzenti rabbiosi che gridava la propria gioia per la distruzione di quella raffinata poesia che per loro era fame e fatica, di quella filosofia impervia che era il segno di un’umiliazione patita ogni giorno, di quella scienza ardita e geniale che per loro era esclusione, e povertà, e suburre nelle quali tornare sui loro piedi lerci.
È davvero questo, che la cultura è destinata a essere? Davvero, che cosa indigna di più? La distruzione della cultura, o la distruzione della nostra cultura? Che cosa ci indigna di più, la perdita di un libro, o che a distruggerlo sia un pezzente? Trentadue secoli prima della distruzione del Serapeum, ancora una volta in Egitto, i Consigli di Ipuwer – stesi nel regno del faraone Pepi II della VI dinastia (nel XXVIII secolo a.C.) – gemono sulla distruzione dei papiri, sulla profanazione della cultura, ma, ancora una volta, lo sdegno per la devastazione della cultura si accosta a quello per i sommovimenti sociali:

Avessi io levato la mia voce in questo frangente affinché essa mi riscattasse da questa dolorosa situazione in cui mi trovo! Guarda la Camera Privata, i suoi testi sono stati rubati e i segreti svelati. Guarda, le formule magiche sono state divulgate, gli incantesimi sono inefficaci perché la gente comune il ripete. Guarda, sono aperti gli archivi e depredati gli inventari. Gli schiavi sono divenuti proprietari di schiavi. Guarda, gli scribi vengono assassinati e il loro lavoro rubato. Maledetto me, per la miseria dei tempi! Guarda gli scribi del catasto, i loro scritti sono stati distrutti. I cereali dell’Egitto sono proprietà delle comunità locali. Guarda, le leggi della Camera Privata sono state gettate via. La gente ci cammina sopra e i poveri le frantumano per strada.

E forse le dolorose parole di Sinesio, allievo di Ipazia, filosofo e cristiano, vescovo e neoplatonico, hanno più senso di tutto.

 “C’è una giustizia elementare in questo / una prima brutale forma di giustizia / da parti di chi dal festino non ha avuto niente e spera in un altro. / Questo aspetto di atroce e assurda riparazione / prende la storia nel suo passare ad altro” (Mario Luzi, Libro di Ipazia)

venerdì 21 gennaio 2011

Fino a quando non farà più freddo

Georges Simenon, La neve era sporca [1948], Milano, Adelphi, 2009

“Per strade e per piazze / devo cercare il mio amore. / L’ho cercato, / ma non l’ho trovato. / Ho incontrato le guardie / che facevano la ronda in città. / Ho chiesto loro: «Avete visto il mio amore?»”. 


Alcuni romanzi suscitano un senso di freddo che non va via. Come in questo bellissimo romanzo di Simenon. E non è solo la neve di quell’inverno gelido di una qualche città europea dai nomi tedeschi soggetta a una lunga occupazione straniera, silenziosa e oppressiva. Né è solo quella neve del vicolo in cui una notte Frank Friedmaier si accuccia per accoltellare un sottufficiale degli occupanti. 


Frank non è un esaltato, né un agitatore, né un patriota. Frank, diciotto anni, vuole essere uomo. Non per entrare nella malavita: ciò che cerca è il suo destino, per braccarlo, inseguirlo, sfidarlo, qualcosa di sconosciuto, qualcosa di assente, troppo al di là di una madre tenutaria di bordello, troppo al di là di quelle ragazze della madre con cui a volte va a letto, si innamorano di lui e per cui prova solo indifferente fastidio, o anche degli avventori avventurieri del bar Timo, soldi facili, affari sporchi, collaborazionismo spicciolo. Doppiare il promontorio, affacciarsi dall’altra parte. 


Eppure, mentre è acquattato col coltello in mano, la sua vita si incrocia con quella del vicino di casa, Gerhardt Holst, uno di quegli uomini che si vergognano di non sentirsi come gli altri e prendono quell’aria umile, silenzioso, che non guarda nessuno, tutto concentrato nel barattolo di alluminio del pranzo, quell’oggetto banale che lo lega al quotidiano, a Sissy, figlia adolescente, quanto resta forse di un passato benestante. Eppure tra i due uomini corre un legame, che Frank percepisce, e cerca, senza spiegarselo. Ci sono Holst e lui


Frank percorre la strada che lo porti alla ferocia e alla freddezza, al distacco, al rifiuto, senza rabbia, senza pietà né per sé né per gli altri, solo indifferente determinazione. Ma tutto il gelido cammino di Frank costeggia Sissy – quella ragazzina invaghita di lui, che arriva per fare l’amore come un topolino, che è risorgiva di sensi di colpa, di opaco dolore per un tradimento – e lo stesso Holst, che, senza che ne comprenda la ragione, non lo ha tradito. Figure ossessive di un mondo diverso da quello per cui Frank prova solo ripugnanza. 


E quel destino cercato nel sangue e nel gelo arriva improvviso una mattina, per l’ultima cosa a cui avrebbe pensato. Rinchiuso in una prigione. Nella solitudine totale. Interrogatori imprevedibili, misteriosi, la cui trama Frank fatica a comprendere. Una sorta di Novella degli scacchi, silenzio, solitudine, un trattamento persino di riguardo, mondo a sé, leggi proprie, che Frank deve inventare, per scoprire qualcosa di sé fino ad allora ignoto, il vero senso delle parole. 


Jaromir Hladík, ne Il miracolo segreto di Borges, nel cortile della caserma della Gestapo in cui sta per essere fucilato, ottiene un anno di immobilità del tempo per finire la sua tragedia:  “Non lavorò per la posterità e neppure per Dio, delle cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto, ordì nel tempo il suo alto labirinto invisibile”. Solo collocato l’ultimo aggettivo, la goccia sulla gota torna a scorrere, e lo squarcia la quadruplice salva. 


Frank non resiste agli interrogatori per salvarsi; non si costringe a una severa disciplina per uscire dal carcere. Lo fa per conquistare l’odore di terra, di cosa viva, tutto ciò che non ha mai avuto, non pensava di poter avere. Ciò che vede dalla cella, è una finestra lontana. E lì è la vita. Ciò che non ha avuto; che sa ormai che non avrà. In qualche punto della città esiste un uomo che se ne va al mattino con la certezza di ritrovare la sera quella donna, e il bimbo nella sua culla, e il letto coi loro odori. Un uomo per cui la donna prepara ogni giorno un barattolo di alluminio per il pranzo. Quella donna alla finestra, che dà il titolo alla terza e ultima parte del romanzo, così simile e così lontana dall’uomo alla finestra, ultima cosa vista dal procuratore praghese Josef K., è la vita che cercava. 


Questa volta non occorre, come per Jaromir Hladík, un ultimo aggettivo che suggelli la fine di una ricerca; basta un incontro donato da quel destino che si è odiato per tutta la vita. E, giù nel cortile, quando sarà il momento, allora ci si alzerà il bavero, come tutti, per una volta come tutti, e si farà in fretta, per risparmiare, per una volta, il freddo agli altri compagni. 


“Andiamo, amica mia, mia bella, vieni. / È finito l’inverno, / sono terminate le piogge”.

Grazie, gbrlbldssr 

martedì 18 gennaio 2011

Basta saperlo... adesso si sa meglio

Sta somarajja che ssa scrive e llegge,
Sti teòlichi e st’ antre ggente dotte,
Sarìa mejjo s’annassino a ffà fotte
Co li su’ libbri a ssòno de scorregge.
Oh vvedi, cristo, si cche bbella legge!
Dà le corne a li spigoli la notte:
Sudà l’istate come pperacotte:
E l’inverno p’er freddo nun arregge!
Er vento bbutta ggiù, ll’acqua t’abbaggna,
Te cosce er zole; e, ppe ddeppiù mmalanno,
Senza er prìffete un cazzo che sse maggna!
E cco ttutti li studi che sse sanno,
A sta poca freggnaccia de magaggna
Nun ciànno mai da rimedià nun ciànno!

G.G. Belli, Li dottori, 181 (Terni, 6 ottobre 1831)

venerdì 14 gennaio 2011

Lumaca nera, lumaca rossa

Antonia Susan Byatt, Una donna che fischia [2002], Torino, Einaudi, 2006, euro 12





Perché fischia una donna? Come segno di riconoscimento studiato per l’aldilà? Per richiamo, di là da una scansia di supermercato tra corsie percorse da gente già morta senza saperlo? Una donna che fischia e una gallina coccodè / – dice l’uomo – non piacciono né a Dio né a me, come recita la prima citazione in esergo del romanzo. Una donna a volte fischia perché non è appropriato, perché solo gli uomini fischiano; e allora fischia perché vuole essere libera. Il fischio femminile, come rivendicazione di libertà, ma anche come punizione per una libertà rivendicata, circoscrive i confini del libro: Devi solo fischiare di più. Più forte, dirà in conclusione Luk Lysgaard a Frederica Potter (la figura a cui, senza per questo esserne la protagonista, si annodano le trame del romanzo) quando questa ammetterà i suoi dubbi per l’ingresso in un mondo lavorativo maschile; e il romanzo si apre con il racconto di una favola tolkeniana, incentrata sulle Fischianti, creature femminili alate, sperse nelle plaghe gelate perché, alla ricerca del pericolo del vento e la neve e il buio, evase dalla relegazione nella città maschile, ne furono scacciate come malvagie, e immonde, e la cui voce è diventata un fischio che nessuno sa più capire. E affabulazione, metaracconto, virtuosistici montaggi narrativi (anche se a volte la frammentazione fa aggrottare le ciglia anche al lettore più paziente), specchi e rispecchiamenti sono la chiave di questo romanzo che conclude, conclude?, la tetralogia (La vergine in giardino, Natura morta, La torre di Babele) che copre la vita di Frederica dagli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, come riflesso dei mutamenti socio-culturali dell’Inghilterra moderna. Il 1968 è l’anno dell’apocalisse e della nascita di mondo nuovo (e quel Gennaio 1970 che, unica occorrenza, titola l’ultimo capitolo, spalanca un nuovo decennio). Un grande romanzo corale, in cui, sul fuso di Frederica, della sua fragilità e della sua crescita umana e culturale, si avvolgono vicende molteplici di personaggi (non tutti riusciti, si può dire, e, peggio, non tutti essenziali). Quei pochi mesi sono il grumo in cui si addensano forme di pensiero e concetti scientifici; come tipico dell’opera della Byatt, infatti, nel sistema narrativo concentrico del romanzo, si depositano chimica, etologia, antropologia, psicanalisi, genetica, matematica, neuroscienza, zoologia, biologia, i grandi dibattiti dell’epoca, gli uni annodati agli altri.
Fulcro del romanzo, in un certo senso, è il convegno Corpo e mente svoltosi nell’Università dello North Yorkshire, in cui si confrontano studiosi di ogni disciplina: da qui si irradiano connessioni con personaggi, episodi, temi dell’opera (connessioni a volte forse troppo fastidiosamente esplicitate): le tesi sul “maschio ridondante”, perdente nella selezione darwiniana, legate alla scoperta dell’autonomia femminile di Frederica e le altre, la loro trasgressione di madri sole che si ricostruiscono una vita e penetrano in ambiti maschili; gli studi su animali asessuati ed ermafroditi alla scoperta di una sessualità libera e autonoma; le teorie sulle sinapsi neuronali alla fatica degli esseri umani di ricordare; la spirale di Fibonacci alla fillotassi dell’identità; gli studi sulla meiosi e la gemellarità alla sofferenza dei fratelli identico-opposti Ottokar e alla teoria delle sizigie manichee degli gnostici; i rituali formalizzati della danza di corteggiamento della Sula nebouxi all’etologia della sopravvivenza nella sofferenza amorosa; i linguaggi matematici dell’informatica all’afasia affettiva. Insomma, occorre una mappa in dotazione per iniziare la lettura. Ma proprio in coincidenza e a fianco del Convegno si sviluppa un’Antiuniversità, una contestazione radicale della cultura e delle forme di sapere sedimentate, le cui lezioni di contro-cultura e le cui agitazioni sono destinate a esplodere in forma violenta in un incendio (catartico?) che ha tutta l’energia e la violenza di un mondo che si rigenera o forse muore. Una conflagrazione apocalittica che rimanda al livore del rogo mortale in cui si consuma la degenerazione di un gruppo di terapia psichiatrica in una setta manichea (di nuovo, corpo e mente, luce e materia sanguinolenta). Due diversi collassi di una microsocietà, a loro volta rispecchiati – macrocosmo/microcosmo, e ci sarebbe quasi da chiedersi quale sia l’uno e quale l’altro – negli studi su due diverse specie di lumache, l’arion ater autofecondante, cloni mansueti, e l’Arion rufus, ermafrodito e cannibale alla ricerca del predominio sessuale.
Il rapporto tra sesso e ragione, tra scienza e vita, è il doloroso fondale su cui si muovono i personaggi, in un mondo in cui, dopo Gödel e Wittgenstein, il paradiso matematico delle forme perfette è retrocesso a una palude, un acquitrino zeppo di fuochi fatui filosofici. E così gli studi sulla chimica dei ricordi si legano indissolubilmente al riemergere di un antico incubo mai rimosso di strage e sangue, al terrore di una luce d’amore che è fragile, a una gnostica Sofia Senza, aborto espulso dal Pleroma, che è paura, dolore, perplessità, implorazione. Perché la ricerca con cui l’uomo indaga se stesso è confusione e mistero. E nel rapporto tra ragione e fede avremo lo scienziato darwiniano, il kierkergaardiano indurito e incredulo, il mistico junghiano visionario.
Scienza e cultura sembrano non sapere più contenere il collasso. Studenti la cui richiesta è Usate il cazzo e la figa non il cervello, e di avere funghi, non Shakespeare, o quanto meno finalizzarlo al design dei gioielli. Lo stesso programma BBC “Attraverso lo specchio” (grazie al quale Frederica-Alice diventa una star nazionale), trasmissione meta-televisiva proprio quando la televisione diventa la nuova forma di riproduzione e immagine del mondo e dello stesso pensiero, non è solo il luogo in cui vengono recuperati i grandi temi di una società che cambia e si interroga su se stessa: è anche un talk-shaw mondano e culturaleggiante, con grandi intellettuali pronti a discutere indifferentemente di tupperware e Freud e aborto. Briosa ipostasi di un pensiero smembrato, volgarizzato, fatto apparenza (e rifiutato da qualcuno dei personaggi); ma anche efficace, pertinente, adatto al nuovo mondo di disordine e crisi.
Su questo mondo si stendono la satira e l’invettiva sociale e culturale della Byatt – a colpire in particolare Eva Wijnnobel, la moglie del rettore, e la sua presuntuosa e psicotica cialtroneria astrologizzante – e la condanna dei fanatismi irrazionali, con rabbia per gli “anti-essere-anti” dell’antiuniversità, e con sgomenta pietà per Josh Lamb, psicotico, delirante, una strage familiare alle spalle, il cui inesorabile sprofondamento nella pazzia, e in un sistema religioso paranoico, conta alcune tra le pagine più cupe e belle del romanzo.
Un romanzo che è dunque una sorta di summa scientifica, inquieta e curiosa, pronta ad assorbire e sperimentare, ma anche che si fa baluardo contro ogni forma di irrazionalità  e di fideismo dilagante, quasi volontà di ricostituire quel Pleroma gnostico frantumato dal dolore umano e dal trionfo dell’oscurità. Un’opera ambiziosa, forse troppo; non irritante o vacuamente pretenziosa, certo no, ma ogni tanto il sospetto che il risultato estetico complessivo non regga al tutto la mole scientifica, e il pericolo di cadere, più che nella Teoria di Ogni Cosa del rettore Wijnnobel, nel trattato de omni re scibili et quibusdam aliis su cui ironizzava Voltaire, quelli restano.

martedì 11 gennaio 2011

A Urbino c’era l’aria buona

Poiché oggi è un giorno per me un po’ particolare, è tempo, in questa categoria Osservazioni oubique, di un’osservazione senz’altro oubiqua e personale, legata alla mia vita di là dal Foglia.
Ludovico Agostini, strambo intellettuale pesarese, radice quadra di ideologo controriformistico, nel suo dialogo L’Infinito (1593) rilegge l’ormai tramontato eden della Urbino del Cortegiano riproponendolo secondo un’utopia politica retriva e ottimatizia. Ne riporto la descrizione teofrastico-paesaggistica perché mi ha fatto sorridere pensando a una frase che udivo spesso.

Non vi mancando quivi [a Urbino] cosa che si desideri – in particolare sul promontorio di Focara, a nord di Pesaro – non vagaremo altrove per cercar miglior sito di quello ov’al presente ci troviamo. [...] L’aria di questi paesi suole per natura produrre uomini temperati ne’ vizi, docili in ogni sorte di scienza, forti nella guerra, civili nella pace, amici d’ogni uomo, nimici di niuno e per longa abitudine così bene avezzi all’obedienza, ch’i prencipi loro si son sempre così bene di loro gloriati, com’essi fatti gloriosi del principato e reggimento di quelli, fra tutt’i prencipi dell’universo tutto esempi singolarissimi di religione e di giustizia.

L’aria buona, dunque. Persone temperate, civili, amanti del sapere. Peccato che il pesarese e temperato Agostini dovette lasciare l’università di Padova perché uccise un compagno. Pazienza, dai, la costanza e l’equilibrio verranno con l’età, magari quando il pesarese Agostini, nella sua opera maggiore, le Giornate Soriane ambientate nella villa roveresca di Soria, dalle parti della baia Flaminia, perché chi gode dell’aria buona intenda – inscenerà un dialogo tra personaggi che sono ipostasi esplicite di aspetti del suo carattere: lo Stupido, lo Sventato, l’Opposito, il Volubile, il Confuso, il Vano.

La chiesa ti uccide coll'onda

Così quando si era bambini era scritto sui muri e i marciapiedi di Milano. Così scriveva Carlo Torrighelli, classe 1909, per salvare l’umanità dalle onde “che torturano e rovinano e uccidono da lontano” (qui una lunga video intervista al sciur Carlo, un po' com'eravamo). Magismo anti-radio e anti-televisione, che infatti erano due dei suoi demoni. D’altronde, come disse qualcuno, i pazzi conoscevano l’elettromagnetismo prima ancora che fosse scoperto. L’8 gennaio 2011, Tucson, Arizona: Jared Lee Loughner uccide a un rally sei persone, ferendo gravemente Gabrielle Giffords (D-US Representative). In uno dei suoi video su youtube, Loughner ha dichiarato: “The government is implying mind control and brainwash on the people by controlling grammar”. E nel suo profilo MySpace, i suoi posit recitano: “My favorite interest was reading, and I studied grammar”; “My hope is for you to be literate. If you're literate in English grammar then you comprehend English grammar. The majority of people who reside in District 8 are illiterate”. Sono state subito rilevate affinità con il pensiero di David Wynn Miller, alfiere della destra paranoica statunitense, e le sue teorie che il governo cerchi di controllare le menti attraverso le regole e le strutture della grammatica e del linguaggio: “The government does control the schools, and the schools determine the grammar and language we use. And then it is all reinforced by newspapers, magazines, TV, radio and everything we do in society” (qui il suo sito). La sua Quantum-Math-Communications and Language è un affascinante – e anti-tasse – sistema che crea un’anti-lingua complicatissima che quasi più nulla ha dell’inglese: ogni periodo deve cominciare con frasi preposizionali inizianti con for, devono essere di almeno tredici parole, e debbono esserci più sostantivi che verbi, perché solo i primi hanno valore legale.

Mi limito a riportarne un estratto, per maggior chiarezza nelle sue implicazioni antistatali.

~4. WHEN-EVER THE ~2~TWO-NOUNS-COME-TOGETHER, FOR THE~FIRST-NOUN IS WITH THE VOLITION AS THE ADJECTIVE-MODIFIER; EXAMPLE: MILWAUKEE COUNTY, FOR THE WORD "MILWAUKEE" WITH THE SAMPLE, IS WITH THE PROPER-NAME (NOUN) OF THE COUNTY WITH THE WISCONSIN. FOR THE WORD MILWAUKEE IS BY THE APPEARANCE AS A COLORFUL-ADJECTIVE OF THE FICTION FOR THE CAUSE OF THE FRAUD. FOR THE SAME-FRAUD WITH THE CLAIM WITH THE MAIL-FRAUD OF THE TITLE~18: U.S.C.-SECTION~1341: FICTITIOUS = ADJECTIVE OR VERB USE OF THE NAME-NOUN FOR THE TORT OF THE RIGHTS OR MONEY. FOR THE CONTEXT OF THE ADJECTIVE: >MILWAUKEE< IS WITH THE USE AS A MODIFIER-ADJECTIVE BY THE COUNTY-COURT = FICTION. FOR ANY PARTY OF THE FRAUD OR FICTION IS FOR THE CONTRACT WITH THE JURISDICTION OF THE FUTURE-TENSE-FICTION: LAWS, TITLES, CODES, RULES, STATE-GUIDELINES OR FEDERAL-GOVERNMENT: JURISDICTION OR DICTIONARY FOR THE TERMS OF THE WORDS, AND NUMBERS ARE WITH THE NOW-TIME-TENSE. NOTE: EVEN THE WORD: PRESENT IS WITH THE FICTION BY THE PEOPLE AND ARE WITH THE TEACHING AS THE NOW. FOR THE PRE-FIX BEFORE THE SENT MEANS: BEFORE THE FACT OR NOT-TENSE. FOR THE FLAG OF THE FICTION/FOREIGN-JURISDICTION IS WITH THE FICTION-PERSON WITH THE FICTION-NAME UNDER THE FOREIGN/FICTION-FLAG, WITH THE BIRD-ATOP OF THE FLAG-POLE. FOR THE FRINGE-TYPE OF THE FLAG IS FOR THE FICTION OR FRAUD WITH THE SAME-FICTION AS THE NAMES WITH THE CLAIMS BY THE OFFICERS OF THE COURT.

Certo, che la forma logica dell’espressione sia la forma del pensiero, è solfa vecchia. Che la società sia modificabile attraverso il linguaggio, non è più nuova. Che la grammatica sia la lingua del potere, ancor meno. La fuga nei labirinti di parole contro le infiltrazioni del mondo esterno, chi non è mai stato Dedalo e Minotauro di se stesso.

Tutto vero. A quel matto di Carlo Torrighelli, con i suoi tre cani, La Bella, L’Umanità, L’Amore, tutti ci volevamo bene, però.

venerdì 7 gennaio 2011

martedì 4 gennaio 2011

Mentre l’acqua ritorna equale

Bastien Vivès, Il gusto del cloro [2008], Firenze, Blackvelvet, 2010, euro 18

Quando Nettuno, dal fondo delle acque, ammirò l’ombra d’Argo che solcava per la prima volta il mare, il racconto umano conquistò un nuovo punto di vista. Il gusto del cloro del giovanissimo Bastien Vivès vive di sequenze secondo prospettive sempre diverse (e il bellissimo precedente Dans mes yeux è una personalissima declinazione del tema dello sguardo). Sequenze equoree. Tra un prologo e un epilogo di grigio e marrone nello studio del fisioterapista, il resto del libro si svolge quasi tutto in piscina. La scoliosi è un’ottima ragione per la piscina. E per scoprire un universo differente. Differente nei riti e nei codici, in cui il giovane anonimo scoliotico si muove con imbarazzo, impacciato, aggrappato lungamente all’orlo della piscina, “Scusi” a ogni scontro nella corsia, fermo a vedere gli altri nuotare. Noi della razza di chi rimane a terra. A osservare grasse matrone sgradevoli, sedute sul ciglio, piedi nell’acqua, dita nel naso. Ma dietro la balenottera passa una giovane figura snella e sinuosa, seguita dagli occhi del ragazzo in una lunga inquadratura, quasi un long take. Solo il primo dei tanti. Nereide lieve e decisa come le onde. Allora lo scoliotico dovrà lasciare la riva e farsi, e si farà, Proteo. Il gusto del cloro è il racconto di un frammento di vita nell’acqua; e l’acqua domina ogni inquadratura, la deforma, lunghe sequenze di immagini, il bordo della vasca, il costone del tetto seguito nuotando a dorso, la superficie dal fondo della vasca, i corpi immersi visti da fuori l’acqua, le onde che attraversano il punto di vista, come una telecamera mezza emersa, instabile tra i flutti della scie, quasi da mal di mare, figure che si allontano e avvicinano. Domina un verdeazzurro marino, acido, clorato, più opaco nelle scene sommerse. Un colore scontornato, masse incerte nelle trasparenze. Una storia raccontata nel silenzio, tavole e tavole senza una parola, ma solo il racconto lieve di virate e inseguimenti, sguardi, poche parole al fine di ogni vasca. Nell’apnea di un incerto desiderio. E corpi dai tratti sottili, dematerializzati dall’acqua e dalla rifrazione, e resi ancora più desiderabili, fisici. Ogni mercoledì, perché la scoperta hai i suoi tempi. E ci vogliono molti mercoledì, e molte vasche fianco a fianco, per interrogarsi se ci sono cose per cui morire senza darsi una risposta. E molti mercoledì per forse scoprire quale sia tale cosa, quando improvvisamente il giovane Nettuno leva lo sguardo verso la luce che attraversa l’azzurro e rischia di annegare per raggiungere la sua ombra d’Argo. E un altro mercoledì da aspettare, in cui forse sarà disvelata la frase pronunciata sott’acqua che non si è saputa leggere sulle labbra. Un amore non detto, forse, e forse non un amore, quando boccheggiando stremati sul bordo sembra arrivare improvvisa la rivelazione di sé e della vita. E le ultime quattro tavole, inattesi titoli di coda dopo i ringraziamenti, hanno la silenziosa dolcezza malinconica di un ricordo che ritorna agli occhi oltre il velo delle acque del tempo.