Antonia Susan Byatt, Una donna che fischia [2002], Torino, Einaudi, 2006, euro 12
Perché fischia una donna? Come segno di riconoscimento studiato per l’aldilà? Per richiamo, di là da una scansia di supermercato tra corsie percorse da gente già morta senza saperlo? Una donna che fischia e una gallina coccodè / – dice l’uomo – non piacciono né a Dio né a me, come recita la prima citazione in esergo del romanzo. Una donna a volte fischia perché non è appropriato, perché solo gli uomini fischiano; e allora fischia perché vuole essere libera. Il fischio femminile, come rivendicazione di libertà, ma anche come punizione per una libertà rivendicata, circoscrive i confini del libro: Devi solo fischiare di più. Più forte, dirà in conclusione Luk Lysgaard a Frederica Potter (la figura a cui, senza per questo esserne la protagonista, si annodano le trame del romanzo) quando questa ammetterà i suoi dubbi per l’ingresso in un mondo lavorativo maschile; e il romanzo si apre con il racconto di una favola tolkeniana, incentrata sulle Fischianti, creature femminili alate, sperse nelle plaghe gelate perché, alla ricerca del pericolo del vento e la neve e il buio, evase dalla relegazione nella città maschile, ne furono scacciate come malvagie, e immonde, e la cui voce è diventata un fischio che nessuno sa più capire. E affabulazione, metaracconto, virtuosistici montaggi narrativi (anche se a volte la frammentazione fa aggrottare le ciglia anche al lettore più paziente), specchi e rispecchiamenti sono la chiave di questo romanzo che conclude, conclude?, la tetralogia (La vergine in giardino, Natura morta, La torre di Babele) che copre la vita di Frederica dagli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, come riflesso dei mutamenti socio-culturali dell’Inghilterra moderna. Il 1968 è l’anno dell’apocalisse e della nascita di mondo nuovo (e quel Gennaio 1970 che, unica occorrenza, titola l’ultimo capitolo, spalanca un nuovo decennio). Un grande romanzo corale, in cui, sul fuso di Frederica, della sua fragilità e della sua crescita umana e culturale, si avvolgono vicende molteplici di personaggi (non tutti riusciti, si può dire, e, peggio, non tutti essenziali). Quei pochi mesi sono il grumo in cui si addensano forme di pensiero e concetti scientifici; come tipico dell’opera della Byatt, infatti, nel sistema narrativo concentrico del romanzo, si depositano chimica, etologia, antropologia, psicanalisi, genetica, matematica, neuroscienza, zoologia, biologia, i grandi dibattiti dell’epoca, gli uni annodati agli altri.
Fulcro del romanzo, in un certo senso, è il convegno Corpo e mente svoltosi nell’Università dello North Yorkshire, in cui si confrontano studiosi di ogni disciplina: da qui si irradiano connessioni con personaggi, episodi, temi dell’opera (connessioni a volte forse troppo fastidiosamente esplicitate): le tesi sul “maschio ridondante”, perdente nella selezione darwiniana, legate alla scoperta dell’autonomia femminile di Frederica e le altre, la loro trasgressione di madri sole che si ricostruiscono una vita e penetrano in ambiti maschili; gli studi su animali asessuati ed ermafroditi alla scoperta di una sessualità libera e autonoma; le teorie sulle sinapsi neuronali alla fatica degli esseri umani di ricordare; la spirale di Fibonacci alla fillotassi dell’identità; gli studi sulla meiosi e la gemellarità alla sofferenza dei fratelli identico-opposti Ottokar e alla teoria delle sizigie manichee degli gnostici; i rituali formalizzati della danza di corteggiamento della Sula nebouxi all’etologia della sopravvivenza nella sofferenza amorosa; i linguaggi matematici dell’informatica all’afasia affettiva. Insomma, occorre una mappa in dotazione per iniziare la lettura. Ma proprio in coincidenza e a fianco del Convegno si sviluppa un’Antiuniversità, una contestazione radicale della cultura e delle forme di sapere sedimentate, le cui lezioni di contro-cultura e le cui agitazioni sono destinate a esplodere in forma violenta in un incendio (catartico?) che ha tutta l’energia e la violenza di un mondo che si rigenera o forse muore. Una conflagrazione apocalittica che rimanda al livore del rogo mortale in cui si consuma la degenerazione di un gruppo di terapia psichiatrica in una setta manichea (di nuovo, corpo e mente, luce e materia sanguinolenta). Due diversi collassi di una microsocietà, a loro volta rispecchiati – macrocosmo/microcosmo, e ci sarebbe quasi da chiedersi quale sia l’uno e quale l’altro – negli studi su due diverse specie di lumache, l’arion ater autofecondante, cloni mansueti, e l’Arion rufus, ermafrodito e cannibale alla ricerca del predominio sessuale.
Il rapporto tra sesso e ragione, tra scienza e vita, è il doloroso fondale su cui si muovono i personaggi, in un mondo in cui, dopo Gödel e Wittgenstein, il paradiso matematico delle forme perfette è retrocesso a una palude, un acquitrino zeppo di fuochi fatui filosofici. E così gli studi sulla chimica dei ricordi si legano indissolubilmente al riemergere di un antico incubo mai rimosso di strage e sangue, al terrore di una luce d’amore che è fragile, a una gnostica Sofia Senza, aborto espulso dal Pleroma, che è paura, dolore, perplessità, implorazione. Perché la ricerca con cui l’uomo indaga se stesso è confusione e mistero. E nel rapporto tra ragione e fede avremo lo scienziato darwiniano, il kierkergaardiano indurito e incredulo, il mistico junghiano visionario.
Scienza e cultura sembrano non sapere più contenere il collasso. Studenti la cui richiesta è Usate il cazzo e la figa non il cervello, e di avere funghi, non Shakespeare, o quanto meno finalizzarlo al design dei gioielli. Lo stesso programma BBC “Attraverso lo specchio” (grazie al quale Frederica-Alice diventa una star nazionale), trasmissione meta-televisiva proprio quando la televisione diventa la nuova forma di riproduzione e immagine del mondo e dello stesso pensiero, non è solo il luogo in cui vengono recuperati i grandi temi di una società che cambia e si interroga su se stessa: è anche un talk-shaw mondano e culturaleggiante, con grandi intellettuali pronti a discutere indifferentemente di tupperware e Freud e aborto. Briosa ipostasi di un pensiero smembrato, volgarizzato, fatto apparenza (e rifiutato da qualcuno dei personaggi); ma anche efficace, pertinente, adatto al nuovo mondo di disordine e crisi.
Su questo mondo si stendono la satira e l’invettiva sociale e culturale della Byatt – a colpire in particolare Eva Wijnnobel, la moglie del rettore, e la sua presuntuosa e psicotica cialtroneria astrologizzante – e la condanna dei fanatismi irrazionali, con rabbia per gli “anti-essere-anti” dell’antiuniversità, e con sgomenta pietà per Josh Lamb, psicotico, delirante, una strage familiare alle spalle, il cui inesorabile sprofondamento nella pazzia, e in un sistema religioso paranoico, conta alcune tra le pagine più cupe e belle del romanzo.
Un romanzo che è dunque una sorta di summa scientifica, inquieta e curiosa, pronta ad assorbire e sperimentare, ma anche che si fa baluardo contro ogni forma di irrazionalità e di fideismo dilagante, quasi volontà di ricostituire quel Pleroma gnostico frantumato dal dolore umano e dal trionfo dell’oscurità. Un’opera ambiziosa, forse troppo; non irritante o vacuamente pretenziosa, certo no, ma ogni tanto il sospetto che il risultato estetico complessivo non regga al tutto la mole scientifica, e il pericolo di cadere, più che nella Teoria di Ogni Cosa del rettore Wijnnobel, nel trattato de omni re scibili et quibusdam aliis su cui ironizzava Voltaire, quelli restano.