Georges Simenon, La neve era sporca [1948], Milano, Adelphi, 2009
“Per strade e per piazze / devo cercare il mio amore. / L’ho cercato, / ma non l’ho trovato. / Ho incontrato le guardie / che facevano la ronda in città. / Ho chiesto loro: «Avete visto il mio amore?»”.
Alcuni romanzi suscitano un senso di freddo che non va via. Come in questo bellissimo romanzo di Simenon. E non è solo la neve di quell’inverno gelido di una qualche città europea dai nomi tedeschi soggetta a una lunga occupazione straniera, silenziosa e oppressiva. Né è solo quella neve del vicolo in cui una notte Frank Friedmaier si accuccia per accoltellare un sottufficiale degli occupanti.
Frank non è un esaltato, né un agitatore, né un patriota. Frank, diciotto anni, vuole essere uomo. Non per entrare nella malavita: ciò che cerca è il suo destino, per braccarlo, inseguirlo, sfidarlo, qualcosa di sconosciuto, qualcosa di assente, troppo al di là di una madre tenutaria di bordello, troppo al di là di quelle ragazze della madre con cui a volte va a letto, si innamorano di lui e per cui prova solo indifferente fastidio, o anche degli avventori avventurieri del bar Timo, soldi facili, affari sporchi, collaborazionismo spicciolo. Doppiare il promontorio, affacciarsi dall’altra parte.
Eppure, mentre è acquattato col coltello in mano, la sua vita si incrocia con quella del vicino di casa, Gerhardt Holst, uno di quegli uomini che si vergognano di non sentirsi come gli altri e prendono quell’aria umile, silenzioso, che non guarda nessuno, tutto concentrato nel barattolo di alluminio del pranzo, quell’oggetto banale che lo lega al quotidiano, a Sissy, figlia adolescente, quanto resta forse di un passato benestante. Eppure tra i due uomini corre un legame, che Frank percepisce, e cerca, senza spiegarselo. Ci sono Holst e lui.
Frank percorre la strada che lo porti alla ferocia e alla freddezza, al distacco, al rifiuto, senza rabbia, senza pietà né per sé né per gli altri, solo indifferente determinazione. Ma tutto il gelido cammino di Frank costeggia Sissy – quella ragazzina invaghita di lui, che arriva per fare l’amore come un topolino, che è risorgiva di sensi di colpa, di opaco dolore per un tradimento – e lo stesso Holst, che, senza che ne comprenda la ragione, non lo ha tradito. Figure ossessive di un mondo diverso da quello per cui Frank prova solo ripugnanza.
E quel destino cercato nel sangue e nel gelo arriva improvviso una mattina, per l’ultima cosa a cui avrebbe pensato. Rinchiuso in una prigione. Nella solitudine totale. Interrogatori imprevedibili, misteriosi, la cui trama Frank fatica a comprendere. Una sorta di Novella degli scacchi, silenzio, solitudine, un trattamento persino di riguardo, mondo a sé, leggi proprie, che Frank deve inventare, per scoprire qualcosa di sé fino ad allora ignoto, il vero senso delle parole.
Jaromir Hladík, ne Il miracolo segreto di Borges, nel cortile della caserma della Gestapo in cui sta per essere fucilato, ottiene un anno di immobilità del tempo per finire la sua tragedia: “Non lavorò per la posterità e neppure per Dio, delle cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto, ordì nel tempo il suo alto labirinto invisibile”. Solo collocato l’ultimo aggettivo, la goccia sulla gota torna a scorrere, e lo squarcia la quadruplice salva.
Frank non resiste agli interrogatori per salvarsi; non si costringe a una severa disciplina per uscire dal carcere. Lo fa per conquistare l’odore di terra, di cosa viva, tutto ciò che non ha mai avuto, non pensava di poter avere. Ciò che vede dalla cella, è una finestra lontana. E lì è la vita. Ciò che non ha avuto; che sa ormai che non avrà. In qualche punto della città esiste un uomo che se ne va al mattino con la certezza di ritrovare la sera quella donna, e il bimbo nella sua culla, e il letto coi loro odori. Un uomo per cui la donna prepara ogni giorno un barattolo di alluminio per il pranzo. Quella donna alla finestra, che dà il titolo alla terza e ultima parte del romanzo, così simile e così lontana dall’uomo alla finestra, ultima cosa vista dal procuratore praghese Josef K., è la vita che cercava.
Questa volta non occorre, come per Jaromir Hladík, un ultimo aggettivo che suggelli la fine di una ricerca; basta un incontro donato da quel destino che si è odiato per tutta la vita. E, giù nel cortile, quando sarà il momento, allora ci si alzerà il bavero, come tutti, per una volta come tutti, e si farà in fretta, per risparmiare, per una volta, il freddo agli altri compagni.
“Andiamo, amica mia, mia bella, vieni. / È finito l’inverno, / sono terminate le piogge”.
Grazie, gbrlbldssr
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