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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

giovedì 31 marzo 2011

Sesso tra i B4

Il titolo è il tributo a una sceneggiatura artistica (mai realizzata) di un amico, noto studioso della lirica di anonimi ferraresi quattrocenteschi. Io mi limito a dire che certe epifanie avvengono. 
Anche quando di calcio non capisce nulla; anche se, magari, sulla moto nemmeno sa salire.

lunedì 28 marzo 2011

O Daddy, Where Art Thou?

Alison Bechdel, Fun Home. Una tragicommedia familiare [2006], Milano, Rizzoli, 2007, euro 18

Un uomo, in foto, vago sapore anni settanta accentuato dal retinato grigio, mezzo busto a torso nudo, guarda in camera, mani sui fianchi di fronte a una veranda le cui forme sono solo intuibili; sguardo assente, sospeso, forse, un po’ ambiguo. È il frontespizio del primo dei sette capitoli di cui si compone questo meraviglioso graphic-novel, racconto autobiografico di scoperta, di morte, di vita familiare. Lungo inquadrature ampie, dalle linee nette e tonde, in grigi pastello distesi e pieni, si ricostruisce la storia della famiglia Bechdel fino alla prima piena giovinezza di Alison, figlia primogenita di Bruce e Helen. A posteriori sarei tentata di dire che la nostra famiglia fosse un’impostura. Una ferita dichiarata fin dalle primissime pagine, e la cui indagine costituisce il tessuto di tutta l’opera, anche col bisturi doloroso della vergogna. Che la nostra non fosse una vera casa, ma solo un simulacro, un museo. Il padre non è solo professore di inglese, non è solo gestore dell’impresa di pompe funebri di famiglia (e da Funeral Home, il titolo): le vere passioni di Bruce sono l’arredamento, il restauro, l’estetica, al punto da aver ricondotto, con gusto e dedizione, uno scheletro vuoto di casa vittoriana ai suoi antichi fasti.
Quei velluti, le cornici dorate, lo scaffale Canterbury, le modanature, i libri in marocchino, il Chippendale ricordano il gusto ossessivo del pieno che Ludwig II di Baviera dispiegò nel castello di Neuschwanstein e a Linderhof, proiezioni, costruzioni di sé, identità possibili solo su un fondale artificioso. Ludwig II, notorio omosessuale represso, negato, che cerca disperatamente l’espressione di sé nei suoi iperbolici, allucinati progetti architettonici; Bruce Bechdel, che la figlia riconoscerà come una femminuccia (sissy), confinato in un paesino degli Appalachi di poche centinaia di persone, costretto a ricercare la sua vera identità in incontri fugaci con muscolosi giovinotti locali, nel culto di una casa immobile e perfetta, natura morta con bambini, nella femminilità della figlia, a cui sono imposte tappezzerie a fiori rosa e colletti abbinati. Ein ewig Rätsel bleiben will ich mir und anderen, era il motto di Ludwig II, restare un mistero eterno per sé e per gli altri. Il graphic-novel non è solo auto-, ma anche bio-grafico, nella ricerca da parte di Alison di quel mistero costituito dal padre, in quel rapporto padre-figlia su cui si polarizza il novel. Un romanzo aperto e chiuso dal mito di Dedalo e Icaro, padre/figlio separati dalla mala via che uno dei due tenne, dalla caduta dal cielo perché la tragedia era inscritta nel destino. L’uomo “è simile a colui che costruisca una casa nella consapevolezza che verrà demolita il giorno della copertura del tetto”, dice Jean Amery in Levar la mano su di sé, uno dei principali testi della suicidologia novecentesca; nell’échec, nello scacco subito quando il mondo ti respinge, che ti costringe a vivere in maniera vergognosa, “innaturale”, “la casa che il commerciante di granaglie si era fatto costruire non venne demolita quando fu terminata, ma fu lui stesso a distruggerla con coraggio e volontà”. Il grande costruttore Ludwig II si suicidò davvero nello Starnberger See? Per Bruce Bechdel, alchimista dell’apparenza, erudito della superficie, dedalo del decoro, fu disgrazia o fu suicidio dovuto a quell’immenso disgusto di se stesso che impregnava la magione vittoriana, e che l’arredamento d’epoca non riusciva a nascondere? Anche per lui resta il mistero su ciò che davvero accadde su quella strada, travolto dal furgoncino della Sunbeam Bred, il pane del grande mito americano (icona affiorante un po’ ovunque nel novel), dipinta sulla fiancata la Little Miss Sunbeam, boccoloni biondi, sguardo malioso, rosea e paffuta, bamboletta femminile: tutto ciò che Bruce non poteva essere, ciò che Alison si rifiutava di essere. Perché il forse-suicidio del padre avviene non solo due settimane dopo la richiesta di divorzio della moglie, ma soprattutto quattro settimane dopo che la figlia ha dichiarato, lei sì, la propria omosessualità.
Bruce, ama i lillà, i fiori più tragici nel loro precoce appassire, che ritornano – la botanica come prima metafora del sesso – in Proust, il solo più finocchio del padre; la Ricerca del tempo perduto, le sue trasposizioni, i suoi nascondimenti, le sue ambiguità, i suoi incerti confini, il suo tempo perduto sprecato incompiuto, a dare forma al racconto. E la difficile ricostruzione della memoria e dell’identità di un uomo è anche il percorso di Fun Home, nei suoi continui riavvolgimenti, ritorni, quasi a spirale, prolessi, analessi, racconto nel racconto, continui sbalzi, lenti disvelamenti, presentimenti, mentre Alison e il lettore si inoltrano nel labirinto a cercare il Minotauro del dolore del padre, braccato dai fantasmi di un tanatoesteta che non raggiungerà mai la serenità del Departures di Y. Takita e piegato dall’incapacità di confessarsi, di accettarsi in una vita spezzata e negata (Tuo padre che dice la verita? Ma per favore).
La ricostruzione della memoria procede ricomponendo pezzi e frammenti, come tratti da un archivio familiare: vecchie foto, mappe, lettere, diari, tutto nel solco della propensione compulsiva all’autobiografia di Alison, un vero collasso di fragilità nella tortura di segni inflitti al diario in un impietoso calvario di sé, nel faticoso disegno di un rapporto padre-figlia, in cui la comprensione del travaglio dell’altro è conoscenza anche del proprio. I due sono all’antitesi, Moderna/Vittoriano, Maschiaccia/Effeminato, Pratica/Esteta, Spartana/Ateniese: Non eravamo solo invertiti. Eravamo l’uno l’inverso dell’altra; eppure qualcosa li unisce fino al fondo, e li separa; e non è solo il disagio della propria sessualità e l’approdo opposto, ma la stessa cultura, quel The Nude di Kenneth Clark che compare in mano al padre concentrato nella lettura, Le Pietre di Venezia di John Ruskin, che frenano l’affetto della bambina spingendola a lasciare il bacio solo sulle nocche della mano del padre. E la letteratura disegna, guida, cela e rivela l’esistenza di un uomo che pare aver smesso di vivere davvero molto tempo prima: quella copia de La morte felice di Camus che preannuncia il suicidio, Il Grande Gatsby, con la sua metamorfosa e la sua anaffettività, l’autobiografia di Fitzgerald, quasi seguita passo passo, tanto che i due genitori paiono più reali in termini romanzeschi, e ripercorsi su Ritratto di signora piuttosto che La bisbetica domata, o ancora l’esistenza e l’opera di Oscar Wilde
E Alison stessa si scopre nella lettura, grazie a un libro in cui incappa a caso in libreria (e, dallo scaffale, occhieggia The Role of the Reader di Eco, congruente con la vita di carta di tutta la famiglia), e la sua vita, le sue tavole, sono ricoperte di libri, sui letti, in mano, aperti, chiusi, sugli scaffali, di citazioni; fino a essere soffocanti, a essere rifiutati, nell’esigenza che il padre si sia suicidato per il disvelamento dell’omosessualità della figlia, e non perché avesse accordato - anche nelle coincidenze e nel computo dei giorni - la sua morte con quella di Fitzgerald (e sono restia a recidere quest’ultimo, tenue legame).
Eppure una lettura che continua a unire i due; il Mito di Sisifo, ancora il suicidio, la copia del del padre che Alison rifiuta per poi ritrovarsi a rimpiangere, nel tempo della scrittura, l’assenza di una stratificazione di memorie sui margini di un libro passato di mano in mano; il Giovane Holden, sul quale i due si incontrano nella lezione di letteratura all’High School, riconoscendosi a vicenda come l’unico senso della scuola; e, soprattutto, l’Ulisse, il lungo viaggio di riavvicinamento al padre, Dedalus e Leopold Bloom, e questa volta Alison accetta la copia del padre, e vi sovrascriverà i propri appunti.
Chi tra loro è stato il padre? Chi ha saputo guidare l’altro?

martedì 22 marzo 2011

Littera enim occidit; quomodo film etiam

Quando vidi questo film, pensai, Ma è davvero lo stesso regista de Il mestiere delle armi, de Il posto, di Lunga vita alla signora? Ero andato a vederlo con un mio amico, a cui piacque dolorosamente e molto. Adesso le nostre situazioni si sono per varie ragioni invertite, ma continuo a considerarlo di imbarazzante e fastidiosa pochezza. Riconosco, però, che questa scena ha una sua traumatizzante forza visiva.

giovedì 17 marzo 2011

Tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento, pensa a Phlebas

Nell’Elogio della follia risuona un ammonimento: l’uomo assennato che volesse salire sul palcoscenico per denunciare che dietro la maschera della divinità si cela uno schiavo dei vizi più ignobili, che dietro quella di una donna si nasconde un uomo, sarebbe preso a sassate come un pazzo furioso. Vivere è accettare la finzione; quella stessa finzione che ci permette di alienarci dalla miseria quotidiana. Aristotele, nel quarto paragrafo della Poetica, ricorda che sulla scena, anche i cadaveri sono belli. L’anestetico dell’estetica, che ci rimuove da noi, che fa riemergere i nostri incubi concedendoci una catarsi prêt-à-survivre. È vero però anche che la rappresentazione, e poi l’immagine, proprio con la loro distanza estetica ci assuefanno al vizio, alla violenza, alla presenza stessa del male, come teorizzato nel lungo processo che nella cultura europea origina da Tertulliano, e poi attraverso il Sulla commedia di Pierre Nicole e la Lettera a D’Alembert sugli spettacoli di Rousseau arriva su su fino a Davanti al dolore degli altri della Sontag?
È un po’ difficile in questi giorni non cadere nella banalità di associare tutto ciò alla tragedia giapponese e alla sua pluri-esposizione. Sui portali dei giornali e delle televisione, oltre a ogni possibile video amatoriale o professionale, ci sono i rimandi alle gallerie sui muri del dolore, le bambole, gli animali, i bambini, i cellulari, le file, gli accampamenti, le scarpe. È solo facile distanza? Una delle parole più abusate in questi giorni è “apocalisse”;l’Apocalisse è il libro biblico più rappresentato e trasposto. E vidi un nuovo cielo e una nuova terra – il primo cielo e la prima terra erano spariti, e il mare non c’era più; terra e cielo che si separarono già nel primo verso della Bibbia. E fu sera, e fu mattino. E terra e mare, nel settimo. E fu sera, e fu mattino, secondo giorno. Terra e cielo e mare, si sono confusi in Giappone. E si sono realizzati gli incubi peggiori dell’uomo; la terra che si apre, il mare che sommerge, la scienza che impazzisce.
Il giorno di Ognissanti del 1755, Lisbona (ma in realtà devastazioni vi furono anche in Nord Africa e su tutte le coste iberiche) fu devastata da un tremendo terremoto a cui seguirono un violentissimo tsunami e un incendio che non si spense per giorni. La cultura europea fu costretta a elaborare un evento che aveva scardinato storia e idee; Voltaire, Rousseau, Kant. L’arte, di fronte alla morte e alla devastazione, rielabora e impone il concetto di sublime, il terrore, il dolore, il fascino della paura. E tutto ciò è espresso in massima forma proprio dallo sconvolgimento degli elementi; l’anonimo greco Del Sublime, che fonda tale categoria estetica, dice Ti figuri, amico mio, la terra squarciata dalle sue fondamenta, il Tartaro messo a nudo, tutto l’universo rovesciato e sconvolto, e ogni cosa mescolata:cielo e Ade, cose mortali e immortali che si affrontano e lottano nella stessa battaglia?
Uno dei passi umanamente più duri della nostra letteratura, e che pure è uno dei fondamenti della nostra estetica, è l’incipit del secondo libro di Lucrezio: Quando nel grande mare i venti sconvolgono acque tranquille / guardar da terra il grande affanno di altri: lì c’è piacere. / Non che sia godimento gradevole il fatto che altri soffra, / ma è piacere guardare i mali da cui tu stesso sei libero. Nella forza narrativa delle acque, si incardina il sublime della visione dei nostri terrori più profondi, di un mondo indominabile. Assistiamo alla tragedia della nostra fragilità che ci è fatta conoscere in tutto il suo urlo.
C’è una famosa metafora per la conoscenza, assimilata a quei marinai costretti in alto mare a riparare la nave senza poterla tirare a secco, smontare, e rimontare con materiali nuovi. Che cosa di noi resterà dopo questi giorni? Che forma avrà la nave che ripareremo tra i marosi?



sabato 12 marzo 2011

Il pennacchio suo


«Così Silvio Berlusconi in un’intervista a Gente spiega il gesto che ha scatenato forti polemiche e ironia anche sulla stampa internazionale. “Ho un forte carattere guascone, che qualche volta mi porta in modo spontaneo a comportamenti non strettamente conformi alla forma”, dice nell’intervista il presidente del Consiglio» (Repubblica, 12 marzo 2011).

Infatti c’era un altro guascone che diceva “Accarezzare con mano abile e scaltra / la capra e intanto il cavolo annaffiare con l’altra? / e aver sempre il turibolo sotto dell’altrui mento / per la divina gioia del mutuo incensamento? / No grazie”.
Continuo a trovare incongruo l’accostamento semantico guascone / baciamano.

venerdì 11 marzo 2011

Tutto quello che avreste voluto sapere da Achille, e che non avete mai osato chiedere

Non ne faccio una vera scheda, perché forse la fisionomia del libro non lo permette, né incentiva. Però mi è capitato per le mani Cesare Segre, Dieci prove di fantasia (Torino, Einaudi, 2010), in cui sono raccolti dieci brevi testi approntati ormai una decina d’anni fa, soprattutto per il “Corriere della Sera”. Oltre a due “interviste impossibili” – a Giulio Cesare e Marie de Gournay (pupilla di Montaigne e sua curatrice), che scontano un po’ una qualche usura del genere e una certa cautela paludata che fa dell’intervistato una figura superiore all’intervistante e un po’ saccente – e a tre testi a se stanti – il “quasi racconto” Come si fa a morire sul suicidio di Pavese, e due “quasi-articoli”, il primo, Machado e Guiomar, su uno dei tanti senhal che celano figure e rapporti che la poesia ha saputo trasporre in mondi negati alla banalità, a tratti persino incomprensibilmente meschina, del quotidiano, e il secondo, Il marito tradito duella con Alfieri, sul celebre episodio della bella Penelope, che lo scandalo seppe liberare dai vincoli sociali. I brani davvero più significativi, le vere “prove di fantasia”, sono però cinque storie controfattuali, il racconto alternativo, il verso della grande pagina di letteratura: Gano di Maganza (il suo monologo il giorno prima dello squartamento), Isotta e Tristano (nelle parole di quella dai biondi capelli, la sua intelligenza nel guidare e lasciarsi trascinare dall’impulsivo satanasso, la serena fragilità degli entusiasmi dell’amore), Guillem de Cabestanh e la novella del cuore mangiato, Cunizza e Sordello (i bollenti spiriti della prima, e la grettezza arrivistica del secondo), Charles Bovary, e la sua contestazione di  Flaubert, e la disperazione perché lo stesso ricordo dell’amore è deformato dalla scoperta della vacua e volgare falsità di Emma. La morte fu squallida come era ormai tutta la mia vita. Ciò che non si dovrebbe, ma che non si può non fare.  Entrare nei libri, e sedersi, dietro al risvolto della quarta di copertina, con il personaggio più amato per farsi raccontare la sua vera storia.

domenica 6 marzo 2011

Tra quei monti azzurri e le vaste californie selve

Poiché oggi è un giorno un po’ speciale, un post che c’entra poco con l’impostazione generale del blog.

Nell’anconitano dominava un’antica razza di asini; bestie come quella terra, bestie contadine e testarde, umbratili, imprevedibili. Stupide e rozze, forse. L’asino marchiano, e la stupidità marchiana. Eccoli lì, quelli della Marca di Ancona, i Marchiani. Quelli dell’errore marchiano, quelli che fanno cose stupide rozze, grossolane, sciocche. Gli unici tra tutti i popoli della penisola abbiano fatto dono di sé e della propria natura al vocabolario nazionale. E nel suo, il buon Tommaseo, che veniva dall’altra sponda d’Adriatico, ricordava che i Marchigiani sono “tenuti in concetto di semplici, e da dirne e da farne le grosse”.

Annibal Caro, che era sì di Civitanova Marche, ma tutto fuorché stupido era, dava lazzica scherzando nelle sue bellissime e divertentissime Lettere familiari proprio sulla sua origine: Ora a tutto quello che voi possiate aver detto, e ne la latina lettera e ne la volgare, e che mi possiate ancor dir ne l’ebrea che minacciate di scrivermi, rispondo a la marchiana ch’io vi posso far molte cerimonie intorno. Il buon Caro, che si permetteva tra una cosa e l’altra di rivoluzionare letteratura e lingua italiana con la sua traduzione dell’Eneide, si schermisce di fronte alle lettere “latine” ed “ebraiche” e risponderà solo alla “marchigiana”, alla buona, rozzamente.

Meglio non passare per un marchigiano, per un grezzolone gaggiotto, dice in un’altra lettera il Caro; e quindi fare ciò che i marchigiani non fanno, rispondere compiutamente alle lettere: Se vi rispondo ora così horrevolmente, come vedete, lo fo questa prima volta per vendicarmi in parte con questo assassino de lo scrivere, per farne piacere a voi, del quale sono innamorato a dispetto de la vostra barba, e perché voi non mi tegnate per un marchiano a fatto.

Ma l’asino marchigiano, a lui, non l’ammazza nessuno quando è tra le sue colline. Poi ogni tanto tra un greppo e la riva nascono marchigiani strani, di fugace, ignuda felicità. Ma questo è tutt’altro discorso.


PS. Alcune parole saranno incomprensibili a nord del Foglia, tra persone civili.

mercoledì 2 marzo 2011

Giovanili errori, senili errori, e il morbo di Hansen

Giustizia è fatta. Enrico Fenzi non parteciperà al convegno genovese “Petrarca tra Genova e Venezia”  che si sarebbe tenuto in via Balbi 4, sede dove Enrico Fenzi fece lezione fino al 1981, quando fu arrestato per adesione alle Brigate Rosse. L'Associazione italiana vittime del terrorismo si indigna: “Ci sembra incredibile che l’Università di Genova abbia invitato proprio Enrico Fenzi a tornare come docente nelle aule di via Balbi 4, dove questi, negli anni ’70, predicava ed incitava alla lotta armata e dove fu protagonista della colonna genovese delle Brigate Rosse”. Il presidente della Provincia si sdegna e condanna “chi ha voluto questa iniziativa”.
Il Il Rettore Giacomo Deferrari, dopo aver appreso dai giornali della partecipazione di Fenzi al convegno, decide che non porterà i saluti inaugurali e toglierà il patrocinio, perché la presenza dell’ex-terrorista “può apparire una offesa alle vittime del terrorismo”.
Il tutto scaturisce da un articolo, sempre di Repubblica, dal titolo “Il professore ex brigatista torna in cattedra a Balbi 4”. Perché, Fenzi, si rivela, parteciperà “non certo da imbucato” al convegno petrarchesco; un convegno aperto dal rettore, e poi i saluti del Preside, e di due direttori di dipartimento.

Uno si deve fermare un attimo perché il mondo gli gira attorno. Enrico Fenzi, dunque... Quale Enrico Fenzi? Quel Fenzi, uno dei più grandi studiosi di Petrarca al mondo? Ah, quel Fenzi. E, aspetta, un convegno è ciò che intendo io?

Perché allora chiariamo un po’ di cose.

Fenzi non ha mai sparato; ha partecipato a un gruppo di fuoco, ma non ha mai sparato. Ma questo in fondo non conta; sono d’accordo anch’io che ci siano responsabilità morali più gravi delle materiali.
Che Fenzi abbia predicato e incitato alla lotta armata, ehm, questo no; poi ognuno si può fare l’idea che vuole sul personaggio, ma insomma...
Ah, che Fenzi fosse l’ideologo delle BR, neanche. In genere un ideologo sta all’inizio, nel 1970, non entra nel 1979. Peraltro, chi aveva mai sentito il nome Fenzi? Appunto. Perché in realtà Fenzi è stato nelle BR una figura di secondo piano; quasi tragicamente divertente l’episodio in cui, dopo l’arresto, declina le sue generalità alla polizia che crede di avere arrestato Savasta: “E questo chi cazzo è”.
E Fenzi, credo, “discrezione e misura” credo che l’abbia dimostrata. Non scrive sui giornali. Non partecipa al dibattito socio-politico-intellettuale. Tace, e scrive su Petrarca.

Ma questo non c’entra. Voglio estremizzare; non c’entrerebbe nulla anche se fosse tutto vero, che abbia sparato, predicato, ideologizzato. Potrebbe esserci indignazione morale, sì, senz’altro, ma non c’entrerebbe. Però mi serviva per rilevare qualche faciloneria ad effetto.

Perché di frasi a effetto, ce ne sono diverse. L’ex-Br Fenzi “torna in cattedra”? No, partecipa a un convegno. L’Università di Genova “onora” Fenzi? No, partecipa a un convegno. L’Università di Genova concede a Fenzi l’aula in cui arringava alla rivoluzione? No, il convegno si svolge al numero civico in cui insegnava.

Andare in cattedra vuol dire tenere un corso di un semestre a degli studenti. Partecipare a un convegno vuol dire ritrovarsi in una ventina, a volte meno, di esperti internazionali a dibattere su un argomento. Tra adulti. Tra esperti. Non un docente a qualcuno che deve imparare; un relatore tra qualcuno che discuterà con lui.

E Fenzi, i convegni a cui ha partecipato, non saprei contarli. E in più di uno l’ho incontrato. Perché Fenzi, lo ripeto, è uno dei più grandi studiosi di Petrarca al mondo. E forse qualcosa da dire su Petrarca a Genova, il genovese Fenzi aveva.

E Deferrari non avrebbe “santificato” il ritorno di Fenzi in cattedra, come osserva l’articolo. Perché non c’è ritorno in cattedra. E perché in tutto il mondo il Rettore apre un convegno che abbia un minimo di ambizione. E poi in ordine gerarchico, il Preside, il Direttore di Dipartimento. Mera glossa: e davvero non ho dubbi che il Rettore abbia appreso della presenza di Fenzi dai giornali. Davvero. Basta conoscere un po’ il mondo universitario per sapere che è verissimo.

Posso capire la rabbia dell’Associazione italiana vittime del terrorismo. Però noto che tutti e quattro gli articoli, tutti e quattro, hanno la data 2 marzo. Articolo di Repubblica che comunica la partecipazione di Fenzi; indignazione dell’Associazione; lettera dell’Associazione; articolo di Repubblica sulla lettera dell’Associazione; notifica al rettore della lettera all’Associazione; decisione rettorale di ritirare il patrocinio; articolo di Repubblica sulla decisione rettorale di ritirare il patrocinio; decisione degli organizzatori di annullare il convegno; articolo di Repubblica sulla decisione degli organizzatori di annullare il convegno.

Ehi, fermi un attimo. Tutto il 2 marzo. Fermi tutti un attimo, facciamo sbollire rabbia e indignazione, anche quelle a cui si ha tutto il diritto, e aspettiamo un attimo.

Posso capire la rabbia dell’Associazione italiana vittime del terrorismo. Non capisco l’articolo di Repubblica. Non capisco un articolo che dipinge una scena in cui l’ex-ideologo Cattivo Maestro che tanti ragazzi ha spinto al Terrorismo torna trionfale in cattedra, davanti a folle di studenti ignari e plaudenti, salutato gioiosamente dal Rettore gongolante per il ritorno tra gli scranni del delitto. Non capisco il collega che, anonimamente, ha fatto arrivare la notizia a Repubblica. Non capisco il Rettore. Capisco le difficoltà di un Rettore. Non capisco perché non abbia detto, semplicemente, Signori, ma questo è un convegno scientifico.

Fenzi studia la letteratura. Se Fenzi fosse stato un medico, un medico di fama internazionale, e fosse stato invitato a parlare a un convegno di medicina, che so, proprio sul morbo di Hansen. E avesse portato i risultati di uno studio fondamentale per la sconfitta definitiva di tale morbo. Non saremmo tutti un po’ straniti se ci venisse detto che Fenzi non deve partecipare? Signori, ma questo è un convegno scientifico.

Ma Fenzi studia la letteratura.