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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

martedì 28 giugno 2011

Firmato Peruzzi

Mancano pochi giorni allo Strega 2011; avevo formulato la brillante idea di preparare una scheda per ognuno dei finalisti della Cinquina. Naturalmente, l’idea era proprio brillante. Per rimediare, supplisco con la scheda del vincitore 2010, che – con i miei incolmabili ritardi – in fondo ho finito di leggere solo pochi giorni fa.

Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010

Di molti libri si dice, o lo si odia o lo si ama. Poi, ci sono quelli che sono un “Ma dai, non è poi tutto ’sto malaccio”. Al netto di un po’ di cose.


L’intenzione, qui, è ottima. Un grande saga familiare italiana, come in Italia non ce n’è. O meglio, come non ce n’è a parte Bacchelli, e il debito lo riconosce lo stesso Pennacchi. Anzi, quel riallacciare la famiglia del romanzo a un certo avo reduce della Grande Armée, tornato dalla Russia con una ricchezza misteriosa e finito a fare il padrone di un mulino sul Po, è qualcosa di più che un tributo criptato. E poi, una grande saga familiare come in Italia non ce n'è a parte quell'altra famiglia là in Sicilia, ma questa è davvero un'altra storia. 


E in più c'è l'intenzione fare un romanzo storico, come in Italia non ce n’è. Maledetto copia-incolla; volevo dire “che invece ce n’è fin troppi”. E fare allora, mettendo insieme tutto, una saga familiare, storico-popolare. La storia dei Peruzzi, tre generazioni (che poi forse sono quattro, ma questo bisogna arrivare all’ultima pagina per deciderlo) che – siano sempre maladéti i Zorzi Vila – dal Ferrarese scendono all’Agro Pontino per scampare a fame e povertà. 


A voler essere retorici quanto il quarto di copertina, la grande epopea di una famiglia, e di tutto un popolo che in una forma o nell’altra si porta appresso, alla ricerca di una nuova terra: un’Eneide incentrata su Pericle Peruzzi, il Leone dei Peruzzi, fumantino e generoso, un Enea contadino che ("il solco dell'aratro, e la spada che lo difende", com'era...) sa prendere in mano la zappa e la spada. O il manganello. Perché la nuova Terra Promessa, l’humilis Italia, è quell’Agro Pontino bonificato dal fascismo in cui tra il 1932 e il 1935 vengono inviati trentamila mezzadri dal Veneto, le Romagne, il Friuli, pezzenti cispadani di fatica e sudore e fame sbattuti come coloni tra i marochin e le zanzare, le paludi e la malaria. 


Una grande opera di ingegneria idraulica, senza dubbio, in cui il Canale Mussolini (oggi Canale delle Acque Alte) raccoglie e drena tutte le acque della Piscinara tra Anzio e Terracina portandole nel mare, tra città modello che sorgono e il disastro che si approssima. E Canale Mussolini, nella sua natura di romanzo storico, è anche una storia dell’Italia dalle proteste anarco-sindaliste di inizio secolo alla fine della Seconda Guerra mondiale. Quota 90, delitto Matteotti, il Maggio radioso, la vittoria mutilata, Piazza San Sepolcro, la campagna d’Etiopia. Tutto seguendo le peregrinazioni, i matrimoni, i disastri, le nascite dei Peruzzi, che otterranno di poter ricominciare tutto in un podere dell’Agro Pontino, perché qualche merito Pericle Peruzzi presso il fascismo lo vanta, in primo luogo quella bastonata con cui ammazzò un prete resistente. Lo ammazzò per sbaglio, oh, sia chiaro, che lui mica voleva. Durante una punizione punitiva, va bene, ma per sbaglio, che se no il personaggio non sta più simpatico e non si vende. Famiglia fascistissima i Peruzzi, da sempre, che il Duce e Rossoni pranzavano da loro, e anzi il Duce, giovane torello, ci guardava il culo a nonna Peruzzi quand’era giovane anche lei. Sì insomma, il fascismo certo, le leggi razziali, e la guerra così sballata, e l’Uomo che ci ha creduto pure lui di essere infallibile, e comunque hanno cominciato i rossi, e però ha fatto tante cose buone. 


E l’io narrante distingue e glossa, in quel filò di tradizione veneto-contadina che è tutto il libro, una chiacchierata co na ombra de moro nel bicer con un interlocutore muto, un po’ insofferente, un po’ puntiglioso, un po’ testone pure lui. Un io narrante che riallaccia la storia famigliare, seguendo le trame di quei nove fratelli (Temistocle, Pericle, Iseo, Adelchi, Adrasto, Turati, Treves, Cesio e uno che mi devo essere perso) e le otto sorelle, con continue emersioni dialettali venete dritte dritte dal sangue e le memorie e le zolle; un io orale che rilegge la storia mondiale con disincantato e bonario occhio contadino, facendo parlare i potenti come figure d’osteria di Copparo o di Bagnolo di Po, con esilaranti duetti tra Mussolini e Hitler, e il senatore Agnelli che esibisce un meraviglioso buon senso popolare quando, informato della dichiarazione di guerra all’America, se ne esce con un “Bòia fàus, ma non glielo avete fatto vedere un elenco del telefono di New York?”; un io che, con scetticismo e comprensione umana, sa anche sollevare la trama degli eventi, per trovare che la storia è fatta di sopravvivenza dalla parte del torto e che in fondo hanno tutti le proprie ragioni.


Un narratore che se ogni tanto avesse evitato qualche Come dite? di troppo per rilanciare il racconto, non sarebbe stato male. Un narratore che, anche, fosse stato un po’ meno onnisciente, tanto da risultare poco credibile, non sarebbe stato male neanche questo: un po’ perché come si fa il macadam o che cos’è la livellatura, al racconto serve fino a un certo punto; un po’ perché è poco credibile che l’interlocutore sia in grado di rimbeccare l’io parlante su aspetti minuti, richiedendo distinguo e puntualizzazioni, e poi necessiti di chiarimenti su argomenti da terza media o poco più. 


Insomma, ogni tanto il canovaccio della necessità editoriale di portarsi appresso anche il lettore più sprovveduto, di costruire il romanzo storico del Novecento, o di voler fare assolutamente il “grande romanzo contadino delle nostre origini che mancava finora”, si vede un po’ troppo, e non sempre si raggiunge l’equilibrio tra dimensione narrativa e ricostruzione del contesto storico-culturale. Né il romanzo scorre sempre ottimamente; in certi punti si vede un po’ troppo la funzione di raccordo. L’impressione è che forse si sia puntato troppo sull’aspetto piacevole e divertente (e a tratti lo è molto) sacrificando il lavoro sui personaggi, a parte alcuni che si stagliano con una certa vivezza, sebbene a tratti più maschere che uomini. Alcune scene hanno in realtà una loro potenza, e non negherò che alcune siano quasi commoventi; molto spesso c’è però qualcosa, in realtà, di già letto; il richiamo al realismo magico è fin troppo evidente, col rischio – vista l’ambientazione ciociaro-latinese –di risultare a tratti un po’ maggico de noartri, e quelle api attorno ad Armida non possono non far venire subito in mente le farfalle intorno a un certo personaggio di un celebre autore colombiano. 


Il romanzo, nel complesso, comunque tiene: la stessa tecnica del filò, con episodi ripresi e preannunciati, ripetuti e modificati, ha una certa forza trascinante, così come le divagazioni e le diversioni, che riescono con una certa naturalezza discorsiva a tornare sempre al punto di origine. E a far avanzare il romanzo, è anche la domanda fondamentale: ma questo io-parlante, quale accidenti di Peruzzi è? Di chi diamine è figlio? Vorrei dirvi che la rivelazione arriva bruciante all’ultima riga. Ecco no, ci si arriva un bel po’ prima. C’è però una parolina, quella sì, inattesa, che merita che si arrivi a concludere la lettura.

sabato 25 giugno 2011

Tutti i giorni che Lot entrò in Zo-ar

Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini [1969], Milano, Feltrinelli

A nascere maschio con sorelle maggiori, manesche e telecomandiste, c’è niente da fare, se sei un ragazzino degli anni ottanta. Footloose ti tocca vederlo. E mentre quelle ballonzolano in giro su “Holding out for a Hero”, tu riesci a distrarti da Ariel per concentrarti su una battuta di due secondi in una scena secondaria. E ti resta la curiosità per quel libro (ormai un classico, come lo definisce quella faccia da schiaffi di Ren McCormack) che in quel buco di posto da qualche parte della Bible Belt in cui è finito – dove rock e ballo sono proibiti per legge – a leggerlo a scuola si suscita scandalo e riprovazione. Devo proprio leggerlo, ti dici, questo Mattatoio N. 5. E te lo dici per parecchi anni. C’è voluto un po’. E ormai pure Kevin Bacon non sta più tanto bene; figuriamoci io.
Ma se l’avessi letto allora, non so che cosa avrei capito.
Formalmente un libro di fantascienza. E come definire altrimenti la storia di un uomo, Billy Pilgrim, che viene rapito dagli alieni del pianeta Tralfamadore, e da loro piazzato in uno zoo insieme alla nota attrice porno Montana Wildhack (bel nome d’arte, peraltro). E che altro, se non fantascienza, peraltro divertentissima, è un libro in cui il protagonista, come già dice il cognome, transita in continuazione nello spazio-tempo? Naturalmente, un libro non diventa un capolavoro della letteratura mondiale, né uno dei libri più banditi da biblioteche e scuole, sulla base di un plot così bislacco. E potrebbero bastare per l’estromissione dagli scaffali, ma non per il riconoscimento di alcuna qualità letteraria, la caustica satira contro la società americana e il fatto che il libro sia uno dei testi fondamentali dell’antimilitarismo. Perché, certo, il nucleo del libro, la sua ragione esistenziale, è il racconto del devastante bombardamento anglo-americano su Dresda (13-15 febbraio 1945), di cui lo stesso Vonnegut fu testimone oculare da prigioniero di guerra. E anche Billy Pilgrim è testimone del disastro, sopravvissuto solo perché riparato nei sotterranei del mattatoio della città.


Il libro è meraviglioso invece perché lo straziante trauma della guerra diventa il perno di un’intera esistenza, quella di Billy, dalla primissima infanzia alla morte nel 1976: una vita fragile, scossa dal dolore, opacizzata da una America civilmente atrofizzata e culturalmente astenica, casa-soldi-matrimoniod’interesse-bulimia-“Denunciate il giudice Earl Warren per alto tradimento”-“sosteniamo i nostri ragazzi in Vietnam”. Così va la vita. Qualcuno crepa? Così va la vita. Tragedia incalza tragedia in grottesca e insensata sequenza? Così va la vita. Per 106 volte. Ma non è così per gli abitanti di Tralfamadore. Loro vivono ogni tempo contemporaneamente, incastonati nell’ambra di ogni istante, senza un “perché”. Loro vivono in quattro dimensioni. Per loro un essere umano è un millepiedi, con gambette da bambini a un capo e gambe da vecchi all’altro. Solo gli umani dicono quella frase così strana, “Così è la vita”, perché la vedono come attraverso un tubo “la cui estremità è appoggiata a un sostegno a due gambe imbullonato a un pianale”. Un mito della caverna moderno e ineludibile.E per di più i Tralfadoriani trovano stupidi i terrestri, i soli della galassia a credere nel libero arbitrio, come se qualcosa potesse essere scelto o mutato; loro, invece, vivono tutto, ogni istante, ogni luogo. Anche Billy, che ha potuto beneficiare della loro saggezza, allora viaggia in un tempo non lineare, tra tutti i suoi ricordi, e tra i ricordi di ciò che ancora non è avvenuto. E il libro stesso è costruito come un romanzo tralfadoriano. Brevi frammenti, che un tralfadoriano saprebbe leggere contemporaneamente, perché contemporaneamente coesistono.
E per quanto tutto ciò sia alquanto un-American, proprio per la sua esperienza con gli alieni con le manine sugli occhi, Billy ha capito che nulla è modificabile, né il passato, né il presente, né il futuro, in un cimitero della volontà, dove tutto è già segnato e definitivo, e può essere sempre solo rivissuto, in un ordine caotico e imprevedibile. Un tempo che torna sempre, immodificabile. “Mi chiamo Yon Yonson / e sto nel Wisconsin”, come riporta il limerick del capitolo di prologo. Noi diremmo, “C’era un voltà un re / seduto sul sofà”; già, perché il libro si apre con un prologo di un narratore, un vecchio rudere con i suoi ricordi e le sue Pall Mall, anche lui costretto a riflettere sulla storia, il tempo, e la letteratura. A tracciare linee di plot con pastelli colorati su un grande rotolo di carta, in uno dei più brevi e affascinanti brani “Io i miei libri li scrivo così”. E un narratore che arriva ad accettare che scrivere un libro contro la guerra è come scrivere un libro contro i ghiacciai.
E allora agli occhi di un umano, questo libro tralfadoriano è breve, confuso e stonato perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Nulla da dire, e nulla da chiedere. Dopo un massacro tutto tace, e solo gli uccelli dicono Puu-tii-uiit. Re Salomone parlava agli uccelli. E qualcosa di biblico c’è in questo libro; nella figura di Lot, che seppe voltarsi e restare di sale, mentre Sodoma e Gomorra bruciavano; nel suo incipit profetico, Ascoltate. Billy Pilgrim ha viaggiato nel tempo; nelle ultime parole, quella domanda Puu-tii-uiit?, che un uccello rivolge a Billy quando affiora dal mattatoio n. 5, lui che ha viaggiato nel tempo e ha visto e rivisto la propria morte e la distruzione dell’universo.

sabato 18 giugno 2011

giovedì 16 giugno 2011

e sì dissi sì voglio Sì

Il 16 giugno è il compleanno della mia biblioteca. Come un accorto potrebbe maliziosamente supporre, è il medesimo del Bloomsday, il giorno in cui si svolge, nel 1904, per l'intera giornata, l'Ulysses di James Joyce. L'anniversario dei miei libri non è scelto a mezz'aria tra il cult e lo snob. Neppure fissato proditoriamente come una specie di catarsi libresca in omaggio malcelato a uno dei più celebri libri del Novecento, secolo nel quale la maggior parte della mia biblioteca si è formata. L'indicazione del 16 giugno potrebbe essere una scelta casuale per poter cominciare in qualche maniera un libro sui miei libri. Con una giustificazione, più allusa che reale. Il giorno genetliaco potrebbe anche essere riferito realmente all'Ulysses joyciano per una irruzione erratica della mente, assunto come casuale simbolo, rappresentando un'odissea il periplo di una biblioteca. Viaggio tra i libri affidati a me dalla sorte per un certo numero di anni e da me custodito, per il tot di tempo concessomi. E perciò, in questo lasso d'esistenza mia, col diritto assoluto di parlarne. (G. Marcenaro, Libri. Storie di passioni, manie e infamie).



Oggi è il Bloomsday, festeggiato in tutto il mondo. Il più importante, ovviamente, a Dublino; fulcro di un fittissimo programma, è  una passeggiata, di cui mostro sotto il percorso, a ricollegare le tappe del romanzo.




La prima parte dell'Ulysses, come noto, è stata stesa a Trieste. Una breve passeggiata, allora, si può fare accanto a Joyce, varcando il Canal Grande.

domenica 12 giugno 2011

Piove. Sono di nuovo a Cesena.

Manuele Fior, Cinquemila chilometri al secondo, Bologna – Roma – Parigi, Coconino Press, 2010, euro 17

Con questo graphic-novel, vincitore come Miglior Album al festival di Angoulême 2011*, uno dei migliori autori della penultima generazione italiana del fumetto racconta una storia di dispersioni e ritrovamenti lungo vent’anni di vita. 


Di tre vite: Piero, Lucia, Nicola. Tre ragazzini cresciuti in un paesone senza nome che sembra fermo agli anni Cinquanta; chissà, forse proprio quella Cesena da cui Manuele Fior è partito per vivere in ogni dove dell’Europa; una di quelle cittadine tra la Romagna e le alte Marche in cui i sogni nascono e germogliano, e in cui un giorno si torna quando qualcosa finisce, o da cui nemmeno si parte mai. 




Il graphic-novel si apre con un preambolo di un giorno affocato di prima estate, quando nascosti dietro le veneziane di una finestra, Piero e Nicola, amici inseparabili, osservano quella ragazza appena arrivata a vivere dall’altra parte del cortile. Ma Piero e Nicola sono troppo diversi; Piero, secchione e imbranato, un giorno sarà un grande egittologo. Nicola, sciupafemmine e scapestrato, rileverà il magazzino del padre. E Lucia partirà; “Senza di te ricomincio a respirare”, scrive a Piero quando finalmente arriva a Oslo per raccogliere materiale per la sua tesi su Ibsen. E Lucia da Oslo non se ne andrà; si sposerà; avrà una figlia. Anche Piero, tra un successo professionale e l’altro, si rifarà una vita, tra una donna che non ama e un figlio inatteso, perché non è questione di felicità o di libertà, ma di giusto e sbagliato, come ben sa Hassan, il volto segnato dalla vita, il vecchio lavoratore egiziano dello scavo di Abu Simbel. 


I cinque capitoli del romanzo sono scanditi – numerati – da una goccia di pioggia, due gocce, tre gocce, quattro, cinque; perché piove sulla favola bella che ieri c’illuse, e piove sul fallimento dei sogni di Lucia (ancora a casa di mia madre, una bambina di 8 anni, a insegnare letteratura in un istituto tecnico di provincia, grassa come una vacca); piove su Nicola, spento e appesantito, tradito e traditore; piove su Piero, meschino e disilluso, confuso di fronte a una trama di vita che non riesce a riallacciare. E l’ultimo capitolo, bellissimo e doloroso, malinconico e amaro, si apre con una pittorica tavola a piena pagina dell’asfalto allagato dal temporale. “Non siamo mica qui per la resa dei conti”; ma forse è proprio così. 


I bellissimi acquarelli di Fior, che ora sono più densi e tersi, e ora improvvisamente si allargano e diluiscono e sporcano in tavole di grande formato come quadri onirici e silenziosi, guidano nei colori e negli umori di questi vent’anni; il verde-azzurro freddo della Norvegia, il giallorosso dell’Egitto, sabbioso e disidratato nel sogno erotico della febbre di Piero, il grigio-cobalto dell’ultimo incontro, di quando, placato il nubifragio, si torna a dare l’ultimo sguardo a un mare che non si vedrà più. Sai cos’è peggio di partire? Ritornare. Tutto di cambiato. Tranne se stessi.

La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto.
(M. Luzi)

* Che, per chi non lo sapesse, non è proprio pizza e fichi.

mercoledì 8 giugno 2011

Verrà la morte e avrà i miei occhi

Bastien Vivès, Nei miei occhi [2009], Blackvelvet, Firenze, 2010, euro 18

Ci sono autori che hanno fatto del proprio tratto un segno immutabile; poi ci sono quelli che a ogni nuovo lavoro sono irriconoscibili. Di Vivès avevo già parlato in un altro post, per il bellissimo Il gusto del cloro. Nei miei occhi è un altro piccolo capolavoro, completamente diverso. In un’aula-studio universitaria, in una sera fredda che si intuisce oltre le grandi vetrate sul fondo, una ragazza dai capelli rossi studia china. Solo lei è a fuoco, tra le ombre indistinte. Comincia così questo bellissimo graphic-novel, post-adolescenziale e amaro. E solo l’acciughina rossa è a fuoco, perché su di lei è concentrato lo sguardo dell’io osservante, in una soggettiva assoluta costante e geniale che è narrazione di un amore nato e incomprensibilmente finito, al primo affacciarsi su un dolore destinato a restare misterioso. Tutto il graphic-novel è visto, da qui il titolo, dal punto di vista del personaggio maschile, in una focalizzazione interna che porta il lettore all’immedesimazione totale; lo sguardo è sempre fisso alla ragazza, in ogni inquadratura, frontale, laterale, di sguincio, da sotto, dall’alto, a scrutarne sorrisi e fragilità, a seguirne con desiderio il corpo flessuoso mentre balla, campo lungo, medio, figura intera, piano americano, primo piano, primissimo piano, fino al dettaglio più ossessivo e erotico. Fisso su di lei, e sulle strade che portano a lei. Le stesse vignette sono non-vignette, macchie di colore senza margini, con la forma indefinita del campo visivo; forme che si allargano e stringono secondo l'alternarsi dei sentimenti e delle sensazioni, fino a diventare una macchia nera nel bacio ad occhi chiusi, macchie monocrome, rosse, gialle, blu, durante la festa. E anche la tecnica muta con lo sguardo; dal pastello sottile matitato, in cui la ragazza è profilata da una nitida penna nera, al pastello sempre più spesso, brusco e quasi infantile di una scena di gelosia, a quello calcato e sbavato e rarefatto della notte di sesso (una delle scene più realisticamente e suggestivamente sensuali del fumetto che io ricordi). E la focalizzazione è totale anche nell’udito; tra lunghe scene di silenzio, si sentono solo le battute di lei, sottoposte anche queste alla deformazione soggettiva, fino a che il lettering si trasforma in uno sgorbio informe per la stordente inquietudine in occasione dell’incontro con due amici maschi della ragazza. Primo segnale; prima riemersione. In ventitré episodi, ognuno aperto da una pagina bianca con un’unica inquadratura dell’ambiente in cui svolge, si dipana un racconto che avanza per forza di sguardi e di parole, con una densità e una forza narrativa rari. Quello che resta, è una ragazza di spalle, raggomitolata su un letto a difendere un’ombra del passato, che attende il mattino per prendere il primo metrò, per ritornare in quel nulla da cui un giorno era apparsa.