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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 30 ottobre 2011

Amerigo e Waldseemüller

Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni [2009], Milano, Mondadori, 2010

Questo è un libro geniale.

Tecumseh Sparrow, TS per tutti, ha avuto la fortuna di due nomi singolari; il primo – derivato dal grande capo indiano shawnee – è tramandato di padre in figlio nella sua famiglia di origini finlandesi; il secondo, è dovuto al fatto che un passerotto si fosse schiantato contro la finestra dietro la quale lui stava nascendo, come se l’anima del volatile si fosse incarnata in lui.
Tecumseh Sparrow è un bambino strano, insomma, e somma di stranezze è la sua famiglia. Un padre vaccaro; una madre scienziata che continua a cercare un fantomatico coleottero tigre a cui nessuno più crede; una sorella maggiore le cui annuali crisi isterico-depressive fungono da scansione temporale per tutta la famiglia; un fratello minore, Layton, morto tragicamente.
E ancora più strano, TS lo è perché è un “mappatutto”. TS è convinto che ognuno nasca con una mappa universale nella testa, e si debba solo riprodurla (bella e fertile idea che, in forma simile, circola da cinquecento anni, anche se in questo caso è ottimamente funzionale). E TS, allora disegna mappe. Su tutto. In forma vagamente ossessiva e autistica, TS fa mappe della distribuzione dei McDonald in Montana, modelli di conversazioni incrociate al tavolo da pranzo in famiglia prima e dopo la morte di Layton, tabelle sulla velocità e lunghezza dei suoi passi, diagrammi di piatti e posate, il rapporto tra strade del Montana e antichi percorsi migratori dei bufali.
Ed ecco la genialità del libro. L’intero libro, quasi quattrocento pagine di formato grande, presenta un duplice livello. Il romanzo, sempre in prima persona di TS, e le sue glosse. Sugli ampi margini si assommano le osservazioni di TS, approfondimenti infantili, rimosso che si ricompone a frammenti, integrazioni aneddotiche sulla propria famiglia. E poi le sue mappe. Sui margini ci sono infatti centinaia di mappe e schizzi e grafici, che rendono questo libro un’opera in cui la parte disegnata è forse tanto importante quanto la parola. Qualcosa che deve essere stato l’incubo peggiore che mai editor potesse immaginare. E infatti il titolo originale è The Selected Works of T.S. Spivet, come se il romanzo fosse una sorta di catalogo della produzione di questo bambino prodigio. E il libro, a dare subito il segno della ricerca di un “oltre”, della metafisica del vivere, della lotta tra la mappa e l’indefinibile, si apre con un’antica carta celeste, su cui è vergata una citazione del Moby Dick: “Non è segnata in nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai”.

Dal Continental Divide...
E un bel giorno, a TS, che vive sul Continental Divide del Montana – là dove West e East si toccano in mezzo al nulla, sul confine del mistero – , arriva una telefonata dallo Smithsonian Institute in cui viene informato che ha vinto un importantissimo premio, che nel tempio del sapere americano ci sarà una presentazione ufficiale, e gli sarà chiesto di tenere un discorso pubblico. Con il problema che, laggiù a Washington, nessuno sa che TS ha solo dodici anni. E allora TS, una notte, scappa di casa, salta su un treno merci, e si mette in viaggio verso Washington e lo Smithsonian. Comincia così la seconda voluminosa parte del romanzo, la lunga strada di TS, un po’ epica e un po’ comica, per diventare grande, tra vagabondi, camionisti, matti, vigilantes, cercando di capire la propria storia, e – a ritroso verso quel remoto East da cui un giorno i suoi avi partirono – quella della propria famiglia, scissa tra silenziosi uomini di fatica, e donne artiste e scienziate che negarono se stesse. 

... alloSmithsonian.
Insomma, un libro geniale nell’invenzione di una forma poli-mediatica, e interessantissimo nel soggetto, la storia di un ragazzino che cerca di ricondurre all’ordine e al metodo la caoticità della vita, il misterioso disordine degli adulti.
Un libro geniale dicevo; ma spesso geniale non significa bello. Un libro con troppe pagine; che talora lo sbadiglio lo strappa; con la lettura di lunghissimi stralci da un quaderno della madre di TS che dovrebbero innescare un gioco di rispecchiamenti tra il viaggio verso Est di TS e quello verso il West di una sua antica antenata, la prima donna geologa degli Stati Uniti, e che finiscono invece con l’essere decisamente noiosi; e soprattutto con un finale in cui, a un testo che vuole essere un Bildungsroman on the road (definizione che, già, farebbe tremare i polsi), si incolla una spy-story pseudo-fantascientifica decisamente posticcia con tanto di lieto fine dolciastro. Peccato: uno di quei casi in cui resta solo l’impressione di quello che sarebbe potuto essere un grande libro.
In copertina una frase di Stephen King: “I grandi libri sono un dono per i lettori che hanno la fortuna di scovarli. Questo libro è un dono enorme”. Non necessariamente chi polemizzò con Kubrik per l’infedeltà di Shining ha tutte le credenziali per essere anche un critico.

mercoledì 26 ottobre 2011

Cuídate, mamacita

Junot Díaz, Drown (A picco), Milano, Mondadori, 2008

Junot Díaz aveva sei anni quando lasciò la Repubblica Dominicana per il New Jersey. In questo sobborgo, Junot era destinato a diventare uno dei più promettenti autori in lingua inglese, tanto da essere considerato da “The New Yorker” tra i venti scrittori determinanti nel ventunesimo secolo.
I dieci racconti di Drown ricostruiscono un piccolo cosmo dell’emigrazione, fortemente autobiografico. Dieci storie incentrate su un ambiguo sistema di personaggi, figure omonime – il piccolo Junior, il poco più grande Rafa, Mami e Papi – colte in stadi diversi della vita, o forse piuttosto forme diverse, e vite diverse, che la stessa famiglia avrebbe potuto assumere; e, in altri racconti, figure anonime ma forse coincidenti con quegli stessi personaggi. Tutto ruota attorno al mondo dell’abbandono, prima nella Repubblica Dominicana e poi negli States, tra speranza e desolazione: l’attesa di una lettera dal padre di là dal mare; di una faccia nuova che non arriva per il ragazzino addentato da un maiale; della fortuna mentre la schiena si spacca a furia di lavorare; di un amore che non fa che sfuggire.
Ragazzini crudeli e padri fuggitivi; spacciatori illusi di amare e vivere una vita normale; drogate in cerca del nulla; bambini che sognano un padre che torna come un eroe o come una creatura miracolosa; uomini di fatica per i quali essere stanchi è la cosa migliore e il cui miraggio per domani è in quale città del New Jersey scaricheranno il loro carico; donne deluse e vinte dall’amore, da un uomo, e dalla vita.
Al centro il racconto eponimo, Drown, storia di un’amicizia finita e di un destino che si serra definitivamente una notte insieme al chiavistello di una finestra, per sempre chiuso in quel quartiere in cui i morenos entrano a picchiare e rubare, e gli arruolatori dell’esercito ti promettono Disciplina e Lealtà e l’unico lavoro che non sia lo spaccio. Ma la maggior parte di voi semplicemente si brucerà. Non andrà da nessuna parte, aveva detto una professoressa a scuola. Non puoi stare in un posto per sempre, aveva detto l’amico di un tempo. E il libro che aveva regalato partendo, era stato buttato via senza nemmeno essere aperto. Mentre la madre dorme davanti alla televisione, sognando di passeggiare con un marito assente sotto le jacarandás, non resta che controllare che le finestre siano chiuse bene. E chiudersi dentro.  Andando a picco.
Racconti tutti sempre in prima persona, con aggettivazione ridottissima, una lingua scabra, corrosiva, dura, che procede per traumi e silenzi e dolori. Prendete quel manuale di corteggiamento per il ghetto che è Come uscire con una ragazza marrone, nera, bianca o mulatta: un ricettario (Aspetta... Togli... Scrivi...) del disastro, una casistica (Se la ragazza viene da Terrace... Se viene da Park o da Society Hill) da Casanova fallito; la sconfitta è in fondo al racconto, da raggiungere azione dopo azione, snodo dopo snodo, naturalmente, inevitabilmente, come se ogni passo fosse già previsto (Non scendere. Non addormentarti. Non ti aiuterà. Rimetti a posto il formaggio dell’assistenza prima che tua madre ti uccida). Tutta la raccolta è così, con questa forza narrativa interna e incalzante, evento dopo evento, come se ogni tragedia, sconfitta, rinuncia fosse già scritta, e dovesse solo essere ripercorsa  ancora una volta.

venerdì 21 ottobre 2011

Sul nozionismo di imparare le poesie a memoria

Primo Levi, in Se questo è un uomo, racconta di quando, durante l’ora di camminata con il francese Pikolo per andare a prendere la zuppa del rancio, cerca di insegnare l’italiano al compagno di campo utilizzando, come sussidiario mnemonico, il canto di Ulisse. Il brano dantesco affiora alla memoria di Primo a frammenti, come rottami di un naufragio di un’intera civiltà. Ricordare il canto di Ulisse, nella sua lettura vagamente post-romantica, significa rifiutare l’abbrutimento di Auschwitz, rivendicare la propria dignità umana. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e conoscenza. [] Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. [...] Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Pochi anni prima, il 27 dicembre 1938, ma molti kilometri più a est, durante le purghe staliniane moriva nel campo di transito di Vtoraja rečka, sulla strada per la Kolyma, Osip Mandel’štam, uno dei più grandi poeti del Novecento. Mandel’štam fu trasfigurato in mito, e già Erenburg nelle sue memorie riferisce della notizia, circolata nei gulag, di un poeta che, la sera, vicino al fuoco, consolava i suoi compagni di tragedia con le sue traduzioni di Petrarca.

Voi, strappandomi i mari, la rincorsa, lo slancio
e dando al piede il sostegno di una terra forzata,
che avete escogitato? Un calcolo sagace:
il moto delle labbra non può venire sottratto.
(Osip Mandel’štam, da Cinquanta poesie)

Mandel’štam è stato anche un sorprendente e meraviglioso critico dantesco con la sua Conversazione su Dante, e un passo sembra quasi prefigurare quell’esigenza di poesia che Primo e Osip avrebbero provato: La citazione non è un estratto. La citazione è una cicala. Sua caratteristica è l’impossibilità di tacere. Afferratasi all’aria, non la molla più. L’erudizione è ben lontana dal coincidere con la tastiera rammemorativa che costituisce appunto la sostanza della cultura.

Nello stesso torno di anni, e solo in un altro risvolto della stessa tragedia. Friedrich Ohly, grande filologo, ufficiale tedesco durante la seconda guerra mondiale rimase in un campo di prigionia sovietico fino al 1953. Qui sfruttò “pezzi di carta rozza e grossolana, preziosi resti di vecchi sacchi di cemento, a volte leggero legno raschiato con pazienza o minuscoli bianchi cartoncini, i vuoti nocchini srotolati delle sigarette russe”, come pagine per appunti, frammenti di versi, riemersioni, traduzioni, Goethe e Dante, Lancelot e Parzival. Ohly, non a caso, è autore di un meraviglioso saggio, Annotazioni di un filologo sulla memoria, una lungo sguardo su epoche e letterature, incentrato proprio sul tema del ricordo, dell’oblio, della malinconia, della lunga catena di labbra che, nel dolore o nello stupore, sussurrano gli stessi versi. Questo studio del topos del bisogno di essere ricordato, però, ha uno degli incipit più sorprendenti e lievi e dolorosi che ci si possa attendere da un saggio di critica. La paura di un bambino di essere abbandonato.

Nell’uomo il bisogno d’amore e d’amicizia è tanto profondamente radicato che egli, privato di tali sentimenti, intristisce. Sopporta anche grandi lontananze e lunghe separazioni senza paura di perderli, se sostenuto dalla sicurezza d’essere ricordato da chi è lontano. Il timore primordiale di venir dimenticati non esiste solo nell’infanzia, e il fatto che ad un individuo, da bambino, sia stata instillata una profonda fiducia d’essere conservato nell’altrui memoria, che valga a controbilanciare tale timore, può decidere della sua felicità o infelicità. Tra le preghiere più commoventi, il «non dimenticarti di me» – scaturisca esso da fiducia o da inquietudine incipiente – costituisce, piuttosto a livello inconscio che non a quello cosciente, la molla silenziosa dei nostri moti verso gli altri. Ciò vale anche per una parte del desiderio proprio dell’uomo di lasciare alcunché di duraturo che lo ricordi: prodotti del suo spirito e delle sue mani, costruzioni e libri, opere d’arte. [...] Sono le opere a scolpire il nome dei loro creatori nella memoria della storia. L’aspirazione a sopravvivere nel ricordo di un erede è propria dell’uomo e va riconosciuta come tratto distintivo umano. (da Geometria e memoria. Lettera e allegioria nel Medioevo)

lunedì 17 ottobre 2011

Fanno i sepulcri tutt' il loco varo

S. O’Kelly, La tomba del tessitore. Una storia di vecchi, Macerata, Quodlibet, 2011

Talora, di fronte a un libro, dici, Ma tu da dove salti fuori?

Seumas O’Kelly, morto nel 1918 a Dublino mentre difendeva la redazione del suo giornale dall’assalto delle truppe britanniche ubriache, è stato contemporaneo, e protagonista titubante, del revival celtico di William Butler Yeats.

La maggior parte delle novelle di Celtic Twilight, racconta Yeats nel primo dei racconti della sua antologia, è dovuta al vecchio Paddy Flynn, sordo solitario e visionario, solito a parlare coi vecchi santi gaelici, le fate e le banshee. Il dialogo coi morti, la loro permanenza, gli incerti confini tra i mondi, le tradizioni secolari che risalgono a quando Fionn mac Cumhaill uccise Aillen che assopiva gli uomini col suo canto, tutto ciò è tema tradizionale nella cultura gaelica. Depositari di questo dialogo, sono proprio i vecchi.

Quando Mortimer Hehir muore, è ai vecchi, vecchissimi del paese, che la vedova, la quarta moglie, la ben più giovane quarta moglie si rivolge. Perché Meehaul Lynskey e Cahir Bowes sono coloro che ricordano le ultime tumulazioni a Cloon na Morav, l’antichissimo camposanto in cui nessuno viene seppellito da quarant’anni e più, ormai abbandonato per il più moderno e ordinato cimitero i cui morti non hanno saputo far altro che nascere, e morire. Mortimer Hehir invece è la penultima persona ad avere diritto a essere sepolto tra quelle tombe, specchio di una società arcaica, declinante, pre-industriale, in cui le professioni si tramandavano di padre in figlio, e i morti si depositavano gli uni sugli altri a legare i secoli. Una società estinta, a suo modo aristocratica, fatta da Mortimer il tessitore, Meehaul il chiodaio, Cahir lo spaccapietre. Quando sarà morto l’ancor più vecchio Malachi Roohan, il bottaio, Cloon na Morav sarà chiuso per sempre, e si chiuderà una storia di secoli, dei cui segreti Mortimer era stato l’ultimo vero depositario, il tutore geloso.

E allora Meehaul Lynskey e Cahir Bowes, seguiti dalla vedova e dai due scavafosse, avanzano come cartografi in quella città dei morti, quella terra di mezzo fatta di licheni sui muri, terreno sconnesso, smottamenti, tombe inghiottite, pietre inclinate, lapidi crepate, lastre sbriciolate, venti che cantano scendendo dai colli. Come vecchi psicopompi saranno loro a riconoscere dove dovrà essere sepolto Mortimer, il penultimo degli antichi.

Foto di J.C. Ryan (www.johncarltonryan.com/)
Ma che cos’è un cimitero se non un mondo che si perde e svanisce, e che cos’è la memoria di un vecchio se non un cimitero i cui confini si fanno sempre più sfocati, in cui è impossibile ormai ritrovare la collocazione di quella che dovrà essere la tomba del tessitore. Perché Mortimer Hehir l’unica cosa che ha mai intessuto sul suo telaio, è stata un sogno. Siamo sogno, e non ci sveglieremo, perché quando ce ne andiamo, il sogno se ne va con noi. Questo dice il vecchissimo Malachi, l’ultima parca a parlare. E sogno le donne ormai morte che fecero bollire il sangue di Mortimer Hehir, che lo resero pazzo furioso d’amore, morte soffocate per un osso in gola davanti a lui, quelle donne che gli avevano dato alla testa come un liquore.

Ho udito i vecchi, molto vecchi, dire:
“Tutto muta,
e a uno a uno ce ne andiamo via”.
Avevano mani come artigli, e le ginocchia
erano contorte come i vecchi pruni
sulla riva.
Ho udito i vecchi, molto vecchi, dire:
“Tutto ciò ch’è bello scorre via
come l’acqua”.
(W.B. Yeats, I vecchi che si ammirano nell’acqua)

In quel modo che muore, scomposto, si riallaccia il ciclo della vita. In quel cimitero, in cui ognuno è la famiglia a cui è appartenuto, la professione che è stato, quando quel tempo si è estinto, quella mitologia avvizzita, una donna riconosce un uomo che emerge dall’indistinto, si strappa a quella pietrificata aristocrazia, e pensa che il mondo era strano, il cielo straordinario, la testa dell’uomo contro il cielo rosso una meraviglia. E quando darà il suo assenso alla posizione della tomba del marito, parlerà con la voce fresca come quella di una giovincella.

Volevo, il lucignolo e l’olio consunti
e gelati i canali del sangue,
l’inappagato mio cuore appagare
con la bellezza che vien tratta dallo stampo
in bronzo, ma quando ce ne andiamo si dilegua
più indifferente alla nostra solitudine
che fosse un fantasma. O cuore, siamo vecchi;
la bellezza vivente è per i giovani:
noi non possiamo darle il tributo di lacrime selvagge.
(W.B. Yeats, La bellezza vivente)



NB: Questa traduzione è patrocinata dall’Ireland Literature Exchange / Idirmhalartán Litríocht Éireann (www.irelandliterature.com), un programma di promozione della diffusione della letteratura irlandese nel mondo, con sovvenzioni destinate a case editrici di nazioni estere. Dubito che esista una cosa simile per l’Italia, ma cercherò informazioni al riguardo.

giovedì 13 ottobre 2011

Fernando Pessoa

Inauguro qui una nuova sezione, destinata a statue un po’ particolari. Quelle statue a grandezza naturale, realistiche, che fermano narratori o poeti in un gesto quotidiano, in mezzo a noi, senza piedistallo, senza strutture separatrici, con le quali si possa interagire. Quasi mai saranno fotografie mie, perché non è questo che mi interessa. Ciò che mi interessa è rintracciare le care e buone immagini paterne che improvvisamente si possono ritrovare lungo una strada, in un bar, su una panchina. E comincio allora dalla statua forse più celebre tra tutte.


Non solo vino, col vino l’oblio, verso
nella coppa: sarò lieto, perché la sorte
                è ignara. Chi, ricordando
                o prevedendo, aveva sorriso?

Dei bruti non la vita, bensì l’anima,
acquistiamo pensando; raccolti
                nell’impalpabile destino
       che non spera né ricorda.

Con mano mortale levo alla mortale bocca
 in fragile coppa il vino passeggero,
           opachi gli occhi
           per non più vedere.
                                         (da Odi di Ricardo Reis)


Lo storico caffè art-nouveau A Brasileira (dichiarato “Patrimonio architettonico portoghese”), in Rua Garrett, nel quartiere Chiado di Lisbona, presso il quale Pessoa, notorio bevitore, ha ancora il suo tavolino nel locale in qui passava tutti i pomeriggi, così vicino a Largo S. Carlos in cui si trovava una delle sue molte temporanee case (ora museo dedicato al poeta).

lunedì 10 ottobre 2011

Bosna, mon amour - 1

Un mattino del novembre del 1516, il giovanissimo Bajica diede addio alla sua terra, alla sua famiglia, alla sua lingua, alla sua religione, ai suoi monti, e attraversò su una barca a remi il fiume Drina. Il passaggio del fiume era l’ingresso in una nuova vita, quella in cui sarebbe diventato Gran Visir della Sublime Porta, e uno degli uomini più potenti d’Europa.

Che cosa pensasse quel bambino mentre attraversava la Drina per raggiungere, dal suo villaggio sui monti bosniaci, la remota e misteriosa Istanbul, quale fosse davvero il suo addio monti, non sappiamo. Ma Ivo Andrić riconosce, in quel muto dolore infantile che torna sempre più aspro quanto più ci si inoltra nella vecchiaia, il bisogno di Bajica, ormai diventato il grande Mehmed Pascià Sokolovič, di sanare, o annichilire, quella sofferenza. E riannodare la propria infanzia alla propria vecchiaia, il mondo che aveva lasciato e quello che lo avevo reso uno degli uomini più temuti nello scacchiere internazionale, una vita all’altra. Con un ponte. Che sorgerà là dove Bajica attraversò il fiume. A Višegrad.
  
Per arrivare da Sarajevo a Višegrad, si attraversano valli come questa, così simili a quelle valicate in carovana dal piccolo Mehmed. 


Improvvisamente a Višegrad tutto cambia.


Ma qui le montagne si allargano improvvisamente in un anfiteatro irregolare, il cui diametro, nel punto più ampio, non supera la quindicina di chilometri in linea d’aria.
In questo luogo in cui la Drina sembra sgorgare con tutto il peso della sua massa d’acqua, verde e schiumosa, da una catena ininterrotta di nere e ripide alture, si scorge un grande ponte di pietra, d’armonica fattura, con undici arcate ad ampio raggio.




Il ponte è lungo circa duecentocinquanta passi e largo una decina, tranne che al centro, dove è ampliato mediante due terrazzi perfettamente identici, uno su ciascun lato della carreggiata, che gli fanno raggiungere una larghezza doppia. È questa la parte che si chiama “porta”. 


Questi due terrazzi, questa “porta”, sono l’anima del ponte, e della città.

Il terrazzo di destra, venendo dalla città, si chiama sofà. Vi si accede salendo due gradini, ed è orlato di sedili cui il parapetto funge da spalliera, e sia i gradini che i sedili ed il parapetto sono tutti della medesima pietra chiara.

Qui, la città si ferma.

Ogni abitante del luogo, in ogni ora del giorno e della notte, può andare alla “porta” e sedersi sul sofà, oppure indugiare nelle vicinanze per trattare affari o per chiacchierare. Germogliato ed elevato fino a una quindicina di metri dal fiume verde e rumoroso, quel sofà di pietra è sospeso nello spazio, al disopra dell’acqua, i mezzo a montagne verdescuro che lo cingono da tre lati, col cielo e le nuvole o le stelle in alto, e con una vista aperta lungo il fiume che sembra un angusto anfiteatro  chiuso, in fondo, da monti azzurri.



Se il terrazzo di destra rappresenta la parte “sociale” del ponte, il luogo in cui il tempo – nelle discussioni, o nel ripiegamento su di sé – pare farsi liquido e fuggitivo, quello di sinistra, invece, rappresenta l’elemento monumentale, la rivendicazione dell’eterno.

Il terrazzo di sinistra, dinanzi al sofà, è identico, ma è vuoto, senza sedili. Al centro del suo parapetto il muro si eleva al disopra dell’altezza di un uomo: in esso, nella parte superiore, è situata una targa di marmo bianco sulla quale è incisa una ricca iscrizione turca, un tarih, con un cronogramma che, in tredici versi, indica il nome del costruttore del ponte e l’anno della costruzione.




Questo è il Ponte sulla Drina, il fulcro e tema del romanzo di Ivo Andrić, uno dei massimi capolavori del Novecento europeo. Il vero protagonista del romanzo è infatti proprio il ponte.



Sul ponte e vicino al ponte sbocciano i primi sogni d’amore, avvengono i primi incontri casuali, i primi approcci e sussurri. Qui si svolgono anche i primi lavori e gli affari, i litigi e gli accordi, gli appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra del ponte, vengono messi in vendita le prime ciliegie e i meloni, i salep del mattino e il pane caldo. Ma qui si raccolgono pure i mendicanti, gli storpi e i tignosi, così come i giovani e i sani che desiderano farsi vedere o vedere qualcuno, o come tutti coloro che hanno da mettere in mostra qualche frutto, qualche abito o qualche arma speciale. Vengono spesso a sedersi qui uomini maturi e ragguardevoli per discorrere intorno alle cose pubbliche e alle faccende d’interesse collettivo, ma ancora più spesso i giovincelli che non hanno mente ad altro che ai canti e agli scherzi. In occasione di grandi eventi e di storiche trasformazioni è qui che vengono esposti appelli e proclami (sul muro sopraelevato, al di sotto della targa marmorea con l’iscrizione turca e al disopra della fontana), ma qui, fino al 1878, venivano anche impiccate o impalate le teste di tutti coloro che, pe un qualsiasi motivo, erano giustizianti, e le esecuzioni, in questa cittadina di frontiera, specialmente negli anni turbolenti, furono frequenti e in certi tempi, come vedremo, perfino quotidiane.

Il ponte è un fondale eterno delle tragedie e degli amori, di suicidi ed esecuzioni, amicizie e odii, matrimoni e funerali, rivolte e guerre, pesti e alluvioni e innovazioni tecnologiche. Generazione dopo generazione, lutto dopo lutto, gioia dopo gioia. Secoli e secoli di storia si accavallano gli uni agli altri; i personaggi si susseguono, tragici o grotteschi, percorrendo il ponte, sedendo sul sofà. Il ponte, per gli uomini di Višegrad, per il lettore, è ciò che resta nella storia che collassa, l’ordine nel caos. Fino al 1918, fino a quel colpo di cannone che chiude il libro. Fino a che gli uomini di Višegrad vedranno frantumarsi il loro mondo, e il lettore solleverà lo sguardo dall’imam Alihodža agonizzante in spasimi brevi sulla strada.

È stata una strada lunga fino a Višegrad, per infilarsi in una strada chiusa poco prima del confine con la Serbia, solo una lunga deviazione che poi bisognerà percorrere a ritroso. Eppure lì, su quell’acqua, il ponte ha davvero qualcosa da raccontare.
Višegrad è la più brutta città della Bosnia, casermoni, negozi tristi. Eppure, inaspettatamente, la sera la città fiorisce, e le persone si allargano per le strade, e lente, lentamente, ancora oggi, raggiungono il ponte, e lo attraversano, e tornano, e si siedono sul sofà, e sollevano gli occhi all’oscurità luminosa là in alto.
Tu che passi, ti chiedi quanti di loro cerchino nel buio del ponte il ricordo di coloro che nel 1992 furono scacciati dalla città, o furono massacrati sul ponte, o scomparvero per sempre. E chi sa dove sono ora. E, come Bajica, portano in giro per il mondo un ricordo che a volte riaffiora. 
Perché il ponte ha visto anche questo, e lui è sempre lì, a dare ordine, e forse serenità.


giovedì 6 ottobre 2011

“Una notte d’amore è un libro letto in meno” (Balzac)

Storie di libri. Amati, misteriosi, maledetti, a cura di G. Casalegno, Torino, Einaudi, 2011

In un episodio spesso citato de Il grande Gatsby, un personaggio, “con enormi occhiali simili a occhi di gufo”, ammira la biblioteca di James Gatz. Non solo i libri sono autentici, e non “di un bel cartone pesante” come aveva sospettato, ma lì, con buon gusto, intelligenza e senso scenico, si incarna al meglio il prodigio della costruzione del sé, di auto-rappresentazione, di quel vecchio figlio di pezzenti venuto giù dal North Dakota. “Che accuratezza! Che realismo! Sapeva anche quando fermarsi  - non ha tagliato le pagine.”

La bibliomania è una strana malattia, a cui anche D’Alembert ha dedicato una voce sull’Enciclopedia; che cosa spinga un uomo a raccogliere libri, resta un mistero.  Certo è che bisogna mettere le mani sui cinque mostruosi volumi pubblicati da Picot nel 1884 contenenti il “catalogo”  della biblioteca di James Rothschild per conoscere il senso della vertigine. Con buona pace di Tommaso d’Aquino, che diceva di temere l’uomo di un unico libro. Chi ne legge troppi, dovrebbe piuttosto guardarsi da se stesso.

Bibliomania e lettura spasmodica non hanno nulla in comune; il bibliofilo compulsivo non legge i suoi preziosi libri per non rovinarli; il lettore ossessivo, in genere le rarità bibliografiche non se le può permettere, ed è comunque uno straziatore di carta e rilegature e sovracoperte. In comune, però, hanno quell’oggetto, il libro, che gli permette di essere ciò che non è, come un attore sul palcoscenico. E leggere un racconto sui libri, per chi di libri vive, è sempre un po’ come riconoscersi, riconoscere il proprio mondo, i propri territori. A volte vedendoli meravigliosi, a volte contemplandone tutte le brutture.

E l’amore per i libri, concupiti o percorsi, è il tema che fa da collante a questa antologia; dentro un po’ di tutto – come in ogni antologia, anche se forse qui fin troppo – ripartito in sezioni: Libri e delitti; Libri maledetti; Mondi di carta; Bibliomanie; Cacciatori di libri; Il piacere di leggere. Insomma, dal poliziesco di ambito letterario all’horror; dall’apocalittico al racconto di una triste paranoia personale, all’incartapecorirsi di chi legge per non vivere. Anche qualitativamente le differenze sono notevoli, all’interno. Racconti tutto sommato piacevoli, come quelli di Flaubert (dio mio, che cos’ho detto), o il giallo di Chesterton con il solito Padre Brown, che peraltro c’entra davvero poco – nella stessa sezione Libri maledetti – con la meravigliosa Storia del Necronomicon di Lovecraft, che descrive la storia del grimorio maledetto  composto dal pazzo yemenita Alhazred, lo pseudolibro che incuba lo stesso Borges. Altri per i quali è difficile pensare una ragione sufficiente per l’inclusione: da uno stucchevole omicidio a una fiera internazionale del libro femminista, a un D’Annunzio marchettaro che cita repertori bibliografici con la stessa prevedibile eleganza con cui parlerebbe di finimenti equini, a un estenuante Hermann Hesse irritante come sempre.

Alcuni  racconti, però, celano il capolavoro. Il geniale e brevissimo De consolatione philosophiae di Dossi, a incistarsi nell’incapacità di vivere di ogni lettore; la Biblioteca Universale di K. Laßwitz, gioiello matematico-preborgesiano; la Fine del mondo del fine di Julio Cortázar, una genesi inversa in cui gli scriba distruggono il mondo con i loro libri; La fine dei libri di Octave Uzanne che già nel 1895 prevedeva la sostituzione del libro cartaceo con supporti mobili per un testo immateriale, con alcuni tratti della televisione, e altri dell’ebook.

Il personaggio de Il grande Gatsby, al termine ripone la copia dei Lectures di John Lawson Stoddard che aveva usato per dimostrare che si trattava di veri libri. “Se si toglie un libro, tutta la biblioteca crolla.” E crolla tutto un mondo. E tutta la storia di uomini che hanno percorso il proprio cammino costeggiando una sequenza di coste variopinte, infinita perché ci sarà sempre un nuovo libro da collocare un po’ più in là.

lunedì 3 ottobre 2011

Franz Kafka

"Di una cosa sono convinto: un libro deve essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi."