Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni [2009], Milano, Mondadori, 2010
Questo è un libro geniale.
Tecumseh Sparrow, TS per tutti, ha avuto la fortuna di due nomi singolari; il primo – derivato dal grande capo indiano shawnee – è tramandato di padre in figlio nella sua famiglia di origini finlandesi; il secondo, è dovuto al fatto che un passerotto si fosse schiantato contro la finestra dietro la quale lui stava nascendo, come se l’anima del volatile si fosse incarnata in lui.
Tecumseh Sparrow è un bambino strano, insomma, e somma di stranezze è la sua famiglia. Un padre vaccaro; una madre scienziata che continua a cercare un fantomatico coleottero tigre a cui nessuno più crede; una sorella maggiore le cui annuali crisi isterico-depressive fungono da scansione temporale per tutta la famiglia; un fratello minore, Layton, morto tragicamente.
E ancora più strano, TS lo è perché è un “mappatutto”. TS è convinto che ognuno nasca con una mappa universale nella testa, e si debba solo riprodurla (bella e fertile idea che, in forma simile, circola da cinquecento anni, anche se in questo caso è ottimamente funzionale). E TS, allora disegna mappe. Su tutto. In forma vagamente ossessiva e autistica, TS fa mappe della distribuzione dei McDonald in Montana, modelli di conversazioni incrociate al tavolo da pranzo in famiglia prima e dopo la morte di Layton, tabelle sulla velocità e lunghezza dei suoi passi, diagrammi di piatti e posate, il rapporto tra strade del Montana e antichi percorsi migratori dei bufali.
Ed ecco la genialità del libro. L’intero libro, quasi quattrocento pagine di formato grande, presenta un duplice livello. Il romanzo, sempre in prima persona di TS, e le sue glosse. Sugli ampi margini si assommano le osservazioni di TS, approfondimenti infantili, rimosso che si ricompone a frammenti, integrazioni aneddotiche sulla propria famiglia. E poi le sue mappe. Sui margini ci sono infatti centinaia di mappe e schizzi e grafici, che rendono questo libro un’opera in cui la parte disegnata è forse tanto importante quanto la parola. Qualcosa che deve essere stato l’incubo peggiore che mai editor potesse immaginare. E infatti il titolo originale è The Selected Works of T.S. Spivet, come se il romanzo fosse una sorta di catalogo della produzione di questo bambino prodigio. E il libro, a dare subito il segno della ricerca di un “oltre”, della metafisica del vivere, della lotta tra la mappa e l’indefinibile, si apre con un’antica carta celeste, su cui è vergata una citazione del Moby Dick: “Non è segnata in nessuna carta: i luoghi veri non lo sono mai”.
Dal Continental Divide... |
E un bel giorno, a TS, che vive sul Continental Divide del Montana – là dove West e East si toccano in mezzo al nulla, sul confine del mistero – , arriva una telefonata dallo Smithsonian Institute in cui viene informato che ha vinto un importantissimo premio, che nel tempio del sapere americano ci sarà una presentazione ufficiale, e gli sarà chiesto di tenere un discorso pubblico. Con il problema che, laggiù a Washington, nessuno sa che TS ha solo dodici anni. E allora TS, una notte, scappa di casa, salta su un treno merci, e si mette in viaggio verso Washington e lo Smithsonian. Comincia così la seconda voluminosa parte del romanzo, la lunga strada di TS, un po’ epica e un po’ comica, per diventare grande, tra vagabondi, camionisti, matti, vigilantes, cercando di capire la propria storia, e – a ritroso verso quel remoto East da cui un giorno i suoi avi partirono – quella della propria famiglia, scissa tra silenziosi uomini di fatica, e donne artiste e scienziate che negarono se stesse.
... alloSmithsonian. |
Insomma, un libro geniale nell’invenzione di una forma poli-mediatica, e interessantissimo nel soggetto, la storia di un ragazzino che cerca di ricondurre all’ordine e al metodo la caoticità della vita, il misterioso disordine degli adulti.
Un libro geniale dicevo; ma spesso geniale non significa bello. Un libro con troppe pagine; che talora lo sbadiglio lo strappa; con la lettura di lunghissimi stralci da un quaderno della madre di TS che dovrebbero innescare un gioco di rispecchiamenti tra il viaggio verso Est di TS e quello verso il West di una sua antica antenata, la prima donna geologa degli Stati Uniti, e che finiscono invece con l’essere decisamente noiosi; e soprattutto con un finale in cui, a un testo che vuole essere un Bildungsroman on the road (definizione che, già, farebbe tremare i polsi), si incolla una spy-story pseudo-fantascientifica decisamente posticcia con tanto di lieto fine dolciastro. Peccato: uno di quei casi in cui resta solo l’impressione di quello che sarebbe potuto essere un grande libro.
In copertina una frase di Stephen King: “I grandi libri sono un dono per i lettori che hanno la fortuna di scovarli. Questo libro è un dono enorme”. Non necessariamente chi polemizzò con Kubrik per l’infedeltà di Shining ha tutte le credenziali per essere anche un critico.