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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

martedì 28 febbraio 2012

Sura dell’uomo che cade

Meša Selimović, Il derviscio e la morte [1966], Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008 (1983)

In uno dei territori più selvaggi della Bosnia, a Blagaj, improvvise si aprono nella roccia le sorgenti della Buna, fiume carsico che alla fonte vanta un flusso di 40.000 metri cubi d’acqua per minuto, più del Danubio, e che presto si getterà nella Neretva, la lenta madre azzurra dell’Erzegovina.





Lì, alle foci della Buna, ai piedi di una parete verticale di duecento metri, dal sedicesimo secolo, si specchia nella acque una tekija, un “monastero” sufi.


In un villaggio innominato della Bosnia, e che pure potrebbe essere anche questo, incentrato in una tekija indefinita, e che pure con un po’ di fantasia potrebbe anche essere questa, è ambientato un meraviglioso romanzo; un romanzo “orientale”, e che di questa terra sospesa al crocevia della geografia e dei tempi ha tutta la lentezza e la sacralità. Un romanzo ascetico come può esserlo il memoriale di un derviscio condannato a penetrare nella parte più oscura di sé.

Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Chiamo a testimone calamaio e penna e quello che con la penna si scrive; Chiamo a testimone l’ombra incerta del crepuscolo e la notte e tutto quello che essa ravviva; Chiamo a testimone la luna piena e l’alba che imbianca; Chiamo a testimone il giorno del giudizio e l’anima che si accusa da se stessa; Chiamo a testimone il tempo, inizio e fine di tutto – che l’uomo è sempre in perdita. 

Il romanzo si apre con un incipit altissimo, e tragico. Ogni capitolo è aperto da una citazione del Corano - fino all’ultimo In quel giorno Noi diremo alla gehenna: «Sei piena?» ed essa chiederà: «C’è dell’altro?» - a scandire il travaglio di un uomo cresciuto nella certezza della fede, nelle regolarità rassicurante della liturgia, nella costanza dell’eternità: Ho sempre saputo che cosa dovevo fare, l’ordine dei dervisci pensava per me e le fondamenta della fede sono solide e larghe, e non c’era nulla in me che non si potesse porre su di esse.

Ahmed Nurudin, sceicco della tekija durante la dominazione ottomana, è un uomo probo e di fede, un punto di riferimento per la comunità. Un giorno il fratello viene arrestato. L’accusa resta misteriosa; la colpa inespressa; la sentenza a lungo sconosciuta. Per Ahmed è l’inizio del percorso, in un labirinto insensato e cieco nei palazzi e nelle trame del potere, perso tra la violenza, l’arbitrio, la cupidigia, l’ottusità, fino alla rivelazione della propria nullità. Ma per Ahmed, Giobbe disperato, è anche l’inizio di un percorso dentro di sé alla ricerca della più vera propria natura, tra lunghi monologhi scarnificanti e folgorazioni impietose: la menzogna, la paura, la rabbia, la fragilità, la vigliaccheria, la meschinità, la solitudine. Tutto a poco a poco in lui si erode; e ciò che resta sono odio, per sé e per tutti, e vendetta. E il tradimento ultimo di sé e anche dell’ultima cosa che era riuscito a preservare.

Nella lunga ultima notte, dopo l’ultimo ricordo di un tempo remoto, di una vita attesa e desiderata diversa, Ahmed inoltra lo sguardo nell’abisso. Uomo che canti in questa oscurità spaventosa, io ti ascolto. Mentre le ultime ore incalzano agghiaccianti e tremende, mentre l’onda del terrore si approssima, la mano verga la conclusione del memoriale ponendo il sigillo della disperazione umana e di una vita confusa e senza senso.

Non amo molto i libri in forma di diario, o memoriale che sia. Troppo usurata la formula, e troppe volte irrealistica la costruzione e l’interruzione (presente il narratore interno che sbatte via tempo a vergare le ultime parole mentre torme di lemuri carnivori del pianeta XyW4Zr premono al portellone antigravitazionale?).

In questo libro però, la cui lettura dovrebbe essere studiata per essere conclusa nel silenzio abissale della notte, tutto appare naturale. La prosa ha la dolcezza lirica del rimpianto e del ricordo, del ripiegamento su sé, anche se tutto ciò che vi può trovare l’uomo è l’abisso di un’infelicità esacerbata dalla piccola tragica meschinità che gorgoglia nel fondo; e la prosa ha insieme la potenza apocalittica della prosa profetica e visiva del Corano, i suoi ritmi misteriosi e violenti. Durante la guerra partigiana, il fratello di Meša Selimović, partigiano, fu arrestato dai suoi stessi compagni con l’accusa di furto; Meša Selimović, figura importante del partito a Tuzla, non poté nulla per aiutarlo. In questo bellissimo e cupo romanzo si deposita la forza catartica della letteratura, la purificazione del dolore e della paura.

Alla fossa ho detto: “Tu sei mio padre!”,
al verme ho detto: “Tu sei mia madre e sorella”-
Dove sei, ora, mia speranza?
Chi ti vedrà più?
Scenderai con me nel mondo dei morti,
assieme finiremo nella polvere.

mercoledì 22 febbraio 2012

Raccontare la morte nel freddo nel tutto nel nulla

Jack London, Le mille e una notte, Milano, Adelphi, 2006

Come fa chi è cresciuto sperando che un giorno avrebbe anche lui sentito il richiamo della foresta a resistere alla tentazione di comprare una raccolta intitolata Le mille e una morte


Sette racconti pubblicati in sedi diverse, tra il 1899 e, postumo, il 1918. Racconti che affrontano tutti la morte attraversando l’intera vita artistica di London, dalla prima giovinezza e le sue esperienze per mare, al crudele biancore del Klondike, agli ultimi intentati confini della Polinesia. E la prima inevitabile impressione, è quella di una crescita, di una naturalezza e di una complessità che si impone agli occhi. 


È quasi traumatico il passaggio dal primo racconto (Le mille e una morte) al secondo (Bâtard). Il primo, tra le Ventimila leghe sotto i mari in sedicesimo e un dottor Mabuse di scarto, pretenderà pure di essere una psicomachia con la figura del padre, ma in concreto è un raccontino che non sta in piedi, senza struttura, senza verosimiglianza, senza montaggio e linee, mera accozzaglia di chimica e biologia, orecchiate e futuribili. 


Poi, improvvisi, i capolavori. E il primo è Bâtard, racconto tanto celebre che già lo avevo letto da bambino in una vecchia raccolta Mursia: la lotta di odio tra cane e uomo per il dominio, in cui umanità e caninità si confondono, l’uomo che si fa bestia, il cane che ha sentimenti umani di malvagità, un rossomalpelo subdolo nelle scelleratezze, figlio di cagna ringhiosa, rissosa, sconcia, un tragico apologo sulla violenza e la ferocia, e sul destino, natura o educazione che sia. 


E poi Accendere un fuoco, un racconto da rileggere e rileggere ancora per l’impressionante capacità di lentezza narrativa: un uomo che cerca di accendere quel fuoco che potrà salvarlo dalla morte per assideramento; un racconto dell’orrore che affonda nel biancore sterminato, in cui ogni istante si scompone attimo dopo attimo nell’inesorabilità della debolezza umana di fronte alla forza del potere annientante dell’immensità del Nord, un dialogo di un islandese senza quella fantasia che serve anche solo a percepire la propria nullità, e della natura indifferente che prende la forma finale in un cane che ulula sotto le stelle che guizzavano e danzavano e brillavano radiose nel gelido cielo per poi riprendere il suo cammino verso il fuoco.


E ancora nel Nord è ambientato Perdifaccia, e chissà che giri ha fatto lo schema narrativo che ne costituisce la fabula, che non credo che London avesse letto di Isabella e Rodomonte. Ma appunto l’inganno di Subienkow non è altro che l’architrave, l’esile elemento su cui è costruito il racconto. Ma la bellezza del racconto è in quell’analessi quando Subienkow vede avvicinarsi la tortura: quella lunga traversata della Siberia, in fuga dalla Polonia, fino alla morte che lo attende sul fiume Yukon, sempre nel vano tentativo di tornare a quelle capitali dell’Europa occidentale a cui sembrava destinato. Anche qui il nucleo è il destino imprevedibile dell’uomo, schiacciato e deciso nello scontro tra civiltà e violenza naturale, in una lotta che questa volta però, sotto il finale quasi comico da racconto orale popolare, ha la forma ambigua e malinconia di una canzone francese che fa parte di un rituale magico su una pozione in cui si mescolano bacche e muschio e dita mozzate ai moribondi, e che è invece l’ultimo ricordo di un viso di donna sulla Senna e di un addio.


C’è un ultimo racconto che merita, davvero, una lettura, per la sua anomalia, per la sua non facile riconducibilità al London più conosciuto. Il Dio Rosso è una sorta di cuore di tenebra polinesiano; comincia con la potenza biblica delle trombe dell’Apocalisse, in un incipit tanto potente quanto ambiguo, in cui la profezia si confonde con la pazzia. Almeno nell’ancor fragile consapevolezza del lettore. La storia di una ricerca disperata dell’origine di un suono, attraverso la morte, la giungla la malattia, le paludi, la paura e la ferocia, nell’approssimarsi progressivo al richiamo della voce del Dio Rosso, il Dio della violenza e della tortura. Ma il Dio Rosso non è solo un signore delle mosche. E il finale allora ha la forza straziante e insieme rasserenante dell’ultimo passo verso l’ignoto, nell’ultima visione, quando anche quell’ultimo passo sarà illuminato. E tutto ancora resterà per sempre celato, e il lettore porterà con sé l’immagine di crani mummificati che appesi alla trave ruotano nel fumo, e ruotano, e ruotano nell’eternità del tempo selvaggio.

lunedì 20 febbraio 2012

Diritto allo studio medioevale

In un precedente post avevo commentato un passo del Didascalicon di Ugo di san Vittore sulla lettura e i suoi rischi. Poco prima (V 6), Ugo aveva affrontato le difficoltà, interne ed esterne dell'apprendimento. Un passo che sarà ricordato nel primo trattato del Convivio. Un passo che mi è tornato alla mente ora che ho davvero poco tempo per seguire il blog con l'attenzione che vorrei e sono ex parte obiecti, e ora che proprio tale penuria è dovuta a impegni e doveri che mi mettono ex parte subiecti. Che poi, per farla breve, resta comunque un passo bellissimo sulla fragilità e labilità del nostro bisogno di leggere e sapere.

Raccogliendo in sintesi il mio pensiero dirò che tre cose in modo particolare danneggiano gli studenti nel loro lavoro: la negligenza, l’imprevidenza e la sfortuna. C’è negligenza quando si trascurano del tutto o si studiano svogliatamente quelle nozioni che è necessario imparare; vi è imprevidenza quando non si segue nell’apprendimento delle singole discipline il metodo adeguato. La sfortuna è costituita da avvenimenti che si verificano per caso o per necessità naturale: siamo ostacolati nel raggiungimento dei nostri obiettivi ad esempio dalla povertà, dalla malattia, ovvero da temporanea lentezza mentale, altre volte da scarsa disponibilità di maestri (sia perché non si trovano coloro che insegnano, sia perché non si trovano coloro che insegnano bene). Nel primo caso, quando c’è negligenza, lo studente deve essere ammonito; nel secondo, quando c’è imprevidenza, deve essere istruito; nel terzo, quando si tratta di sfortuna, dev’essere aiutato. (trad. di V. Liccaro)

martedì 14 febbraio 2012

Su cani, libri, amori

Charlie Brown ha passato tutta la sua lunghissima vita di preadolescente cercando di esprimere il suo amore per la ragazzina dai capelli rossi, che nessun lettore ha mai visto. E i Peanuts sono la storia di amori sbagliati, incompiuti, non corrisposti, unidirezionali, che si  addensano in quello che era uno dei topoi del piccolo mondo: il giorno di San Valentino.

Schulz, quando si rese conto che non avrebbe più potuto scrivere, preparò la tavola finale, quella di addio. E decise che il suo saluto ai suoi piccoli amici sarebbe stato pubblicato il 13 febbraio, giorno prima di san Valentino. 





Charles M. Schulz morì la notte del 12 febbraio, poche ore prima che venisse pubblicata la sua ultima striscia. Una delle più commoventi sovrapposizioni tra autore e opera, e forse tra autore e narratore. 

Due giorni dopo, morì la moglie. 

Charlie Brown continua ad aspettare e attendere.

Avvicinandosi a san Valentino la British Library ha postato sul profilo fb ogni giorno un frammento di una lettera d'amore dal libro Love Letters 2000 years of Romance, contenente 25 riproduzioni di originali di lettere d'amore (immagino possedute dalla BL, ma non ho trovato esplicita dichiarazione). Il gran finale è dedicato a Elizabeth Browning, "How do I love thee? Let me count the ways", uno dei tantissimi capisaldi della letteratura anglo-americana citati nei Peanuts.

Ma per san Valentino la BL pubblicizza anche un altro progetto, "Adopt a Book for Valentine's Day" (http://support.bl.uk/Page/Adopt-a-book). Ci sono varie combinazioni, per tipologia e costo, di modi per adottare un libro; alcuni dei libri proposti sono particolarmente adatti al giorno di san Valentino. Se proprio avete un/una bibliophile sweetheart. Che non so che cosa sia, ma nel caso buon divertimento. 

Non credo che tra le lettere d'amore del volume della BL ce ne sia una molto particolare; e non credo che ci sia perché l'originale è andata perduto. Charlie Brown, nel breve giro della luce della lampada, cerca di esprimere il suo amore per la ragazzina dai capelli rossi. Ma la notte intorno lo riprende. E la paura di sé lo riprende. 
Una delle strisce più poetiche e malinconiche.


domenica 12 febbraio 2012

Le turbe di Dewey

Sophie Divry, La custode dei libri [2010], Torino, Einaudi, 2012

Quando cominciai a progettare questo blog, tra le categorie a cui avevo pensato, c’era la Collana Cinque fermate, pensata per libri lievi lievi, di quelli che si possono leggere sui mezzi e interrompere in continuazione. Un divertissement, lo definisce la dedica. E di sicuro, le pretese molto oltre non vanno.

Lo strillo della quarta di copertina:”Dal sottosuolo di una biblioteca di provincia, la storia di un’anima ferita dalla vita e dagli uomini”; diciamo che dà subito l’idea dell’immagine che negli uffici Einaudi hanno deciso di dare al libro, qualcosa tipo “Donne che sbattono contro le porte delle biblioteche”.

Personalmente ho trovato qualcosa di ben diverso in questo monologo che, nelle due ore che precedono la riapertura mattutina, una non troppo colta bibliotecaria, frustrata e un po’ appassita, ossessiva e pantafobica, riversa su un malcapitato rimasto chiuso nella biblioteca. Per questa cultrice del sistema Dewey, pronta a citarne la classe per qualsiasi argomento di conversazione (Che angoscia la Prima guerra mondiale, che regressione, la classe 944.855), questa vestale di Eugène Morel e delle sue idee di riforma delle biblioteche, la biblioteca è davvero immagine di un mondo gerarchico e organizzato: alla piramide che dal direttore porta alle api operaie dei depositi, corrisponde quella delle classi Dewey, dall’aristocrazia di corte della letteratura francese e della storia al proletariato delle guide di viaggio e dei manuali per la compilazione dei curriculum vitae. Tutto squadernando idiosincrasie, manie e insofferenze: contro il rumore, la cultura di massa, le biblioteche ridotte a mediateca dove imperano i dvd, gli instant-book.

In realtà le parole della nostra bibliotecaria, in tutta la loro voluta caoticità, sono una riflessione, in certi punti davvero stimolante, sul concetto di biblioteca, i suoi modelli, la sua funzione, la sua identità: i pazzi che vi albergano, i poveri che vi si rifugiano alla ricerca del caldo, i libri in vista, i pensionati della solitudine, i figli del sostegno scolastico che entrano protervamente timidi per la prima volta in biblioteca, e allora gli spazi di lettura, i libri in vista.

E in fondo, in ballo, forse è la stesso concetto di cultura. E noi lettori, alla fine, non ne usciamo bene. Leggere è un pretesto. Una messinscena. La gente viene qui a cercare qualcosa a cui aggrapparsi. La biblioteca è il cuore stesso della Grande Consolazione, là dove ci si rifugia per la disperazione. E forse, tra amore e odio, non c’è troppa differenza. E non c’è troppa differenza sulle ragioni per cui si legge e per cui si scrive, tra Maupassant e la nostra bibliotecaria che pensa ai dorsi dei libri come a natiche maschili. La biblioteca, non c’è posto in cui ci si senta più miserabili.

È confortante sapere che si tratta solo di un divertissement.

mercoledì 8 febbraio 2012

Radiocronaca di un tempo perduto

B.S. Johnson, In balìa di una sorte avversa [1969], Milano, Rizzoli, 2011

Un vecchio lettore diceva che, quanto più il tempo avanza, i libri, anziché accumularsi sugli scaffali, si diradano progressivamente, nella ricerca della vera identità di se stesso lettore, di ciò che davvero ha avuto un senso. Da allora, ogni volta che apro un nuovo libro, mi chiedo fino a quando mi accompagnerà.

In balìa di una sorte avversa è uno di quei libri che dichiarano subito quale ruolo svolgeranno. E dichiara di essere un libro che non sarà perduto.

B.S. Johnson, morto suicida nel 1973, è stato davvero un personaggio anomalo, e autore brusco e sperimentale, presto dimenticato fino a che Jonathan Coe, con Come un furioso elefante, una sorta di biografia a frammenti e stralci, non l’ha riportato all’attenzione.

E di Coe è l’introduzione a questo singolarissimo romanzo di B.S. Johnson; introduzione singolarissima, perché non introduce. È un fascicolo sparso. Perché il romanzo è un non romanzo, estremo e ultimo smontaggio del genere romanzo, ultimo approdo di quel Sterne un cui passo compare nella scatola. Scatola? Piatto anteriore, posteriore, dorso, zanchetta, copertina, tutti gli elementi, eppure questo tomo bianco è una scatola; il “book in the box”, come lo aveva pensato Johnson. All’interno ventisette capitoli (brevissimi, anche solo una mezza facciata) in fascicoli separati; due segnati come “primo”, e “ultimo”. Tutti gli altri, con un simbolo grafico; e numerazione delle pagine che ogni volta ricomincia da 1. E allora, salvo il primo e l’ultimo, i capitoli possono essere letti in qualsiasi ordine. È banalità trita che un libro, ad ogni lettura, sia sempre diverso. In questo caso lo è davvero.

Ma non è virtuosismo; o meglio, raramente lo sperimentalismo è così intrinsecamente, quasi inevitabilmente, forma del contenuto. L’io narrante arriva a Manchester, come inviato di un giornale londinese per seguire il derby City-United; e qui, improvvisamente, si rende conto che è una città conosciuta, la città legata al ricordo di Tony. Nell’attesa dell’inizio della partita, si snodano, si aggrovigliano, i ricordi di quell’amico, morto tragicamente giovanissimo di cancro; riaffiorano, si eclissano, rampollano, si sperdono, i giorni di quell’amicizia quando Tony, prima giovane studente, poi dottorando con ambizioni di critico, si era incontrato con quel giovane promettente romanziere. E il romanzo è in realtà il tragico tributo a Tony Tillinghast, a un’amicizia tragicamente finita. Perché l’estremo del formalismo, in realtà, è espressione di una poetica di fedeltà rigorosa alla realtà.

Racconterò tutto, amico mio. Sarà ben poca cosa, disse, dopo un po’, lentamente, sempre con gli stessi occhi. È ciò che tutti hanno, ben poca cosa, dissi.

Ogni lettura, allora, è sempre diversa, perché i ricordi si riallacceranno in maniera diversa, e il lettore ricostruirà gangli e inneschi ogni volta diversa. E il romanzo, e anche in questo la forma è solo intrinsecamente necessitata, si presenta come un monologo interiore, a volte confinante con il flusso di coscienza, interruzioni, pause, correzioni, spaziature bianche di ampiezza variante con l’incertezza della lingua.

In alto il soffitto con la carta da parati, irregolare, probabilmente lo tiene su la carta, no, forse, ma                                         marrone.                     Il caminetto rustico, un pianoforte.    Ridono, qualcuno mi guarda. Sembro strano.
                 Due cose senza senso.                              Sfortunatamente.                                  Tutto.

                                                                                                                                                                                                                                                                       E allora?

Ma forse c’è anche un altro senso in questa parcellizzazione del libro. Questo romanzo sfabbricato, è anche una metafora della città in cui l’io narrante cammina facendo emergere i ricordi, una città in decadenza, uno stadio diroccato, a sua volta metafora del corpo di Tony devastato dal cancro, del suo corrompersi. Ma ancora, della memoria, che perde pezzi, che non sa ricostruire, che confonde. E della vita stessa, che si fa accumulo disperato di eventi confusi. E l’unico senso che l’io può dare, è “che cosa importa?” . In ogni caso che importa, ora, la sua morte rende tutto così irrilevante. Nella tragedia del ricordo tutto perde fisionomia, l’amicizia, i sogni di essere romanziere, il grande amore per una donna tradito e umiliato; al fondo, resta solo il senso la perdita, l’unica cosa importante.

E allora, la cronaca della partita, sarà l’ultimo suggello alla vita senza senso. Quella cronaca che, come una myse-en-abime due volte ripetuta, due volte smembrata e in forme diverse, è la forma di una partita che può solo terminare grottescamente con la più assurda delle beffe, in cui il portiere si tende all’indietro ricadendo sgraziatamente. Virgola.

venerdì 3 febbraio 2012

Il buffonesco giudice e boia dell’impero

Friedrich Dürrenmatt, Romolo il Grande [1986], Milano, Marcos y Marcos, 2006

Già se ti tocca recitare la parte dell’ultimo degli imperatori romani d’Occidente, è cosa da richiedere il buttadentro della storia. Se poi ti chiami Romolo Augusto, associando in te il fondatore di Roma e il fondatore dell’impero, e sei solo un ragazzino spaventato, allora quel buttadentro è di necessità pure assai sardonico.

Certo che Romolo Augusto qualche fascino lo esercita, e la sua fine misteriosa ha sufficiente forza mitopoetica per innestarsi, ne L’ultima legione di Manfredi, nella leggenda arturiana. C’è voluto un bel prodigio di agilità, ma Manfredi ce l’ha fatta. E ancora più agilità, e un bel più di perizia e complessità, mette Dürrenmatt nel suo Romolo il Grande.

Il Romolo di Dürrenmatt non è un ragazzino appena salito al trono, ma un uomo maturo al potere da vent’anni. E, di conseguenza, in questo dramma teatrale, libertà, anacronismi, invenzioni, abbondano. Tanto che Romolo si spazientisce quando, di fronte al disastro, i suoi generali si inventano con parecchi secoli di anticipo la “mobilitazione generale”: lui li conosce i suoi generali, quelli che sono, o saranno, buoni solo a dire “La guardia muore, ma non si arrende” o “Morire, non ripiegare”.

Romolo, in quattro atti che abbracciano aristotelicamente ventiquattro ore, vive l’ultima giornata dell’Impero romano d’Occidente, da un’alba all’altra. O meglio, da una prima colazione all’altra. Romolo, rubando il velenoso aneddoto di Procopio sull’imperatore Onorio, ha come unica preoccupazione il suo pollame, e quante uova ognuna delle galline, ribattezzate come i vari imperatori, ha prodotto. Sembra un po’ di assistere al risveglio del giovin signore, inerzia e pochezza; che la figlia lasci stare l’Antigone e impari piuttosto le commedie: è molto più adatto alla nostra situazione. Un uomo che rifiuta di sapere che il mondo sta crollando. No: le notizie non fanno altro che eccitare il mondo. È bene perciò abituarsi a farne a meno. Un uomo che, se gli toccherà di essere ricordato negativamente come ultimo imperatore, almeno non si dica che disturbava il sonno altrui. Un uomo sardonico, fatuo, leggero, indolente: Non vorrei disturbare il corso della storia, mia cara. Insomma la tragedia farsesca della caduta di un impero.

Insomma, non proprio un personaggio gradevole. E quando il primo atto si chiude con il grido di rabbia disperata Roma ha un imperatore indegno!, e il secondo Questo imperatore deve scomparire!, è difficile non concordare. E così Dürrenmatt nella sua Nota in postfazione chiede al suo attore che ciò avvenga.

Ma qualcuno ha mai letto un dramma di Dürrenmatt che vada a finire come ci si aspetta che debba finire?

E così, questo teatro epico brechtiano ha la sua sorpresa, e la sua natura tra il teatro politico e l’Adelchi, con un Romolo dalla “rea progenie degli oppressor disceso”. E se Romolo fosse invece stato uno dei più grandi e lucidi e implacabili visionari uomini politici di ogni tempo? Eppure ancora un boia pietoso e sofferto di fronte alla fragilità umana? Eppure ancora una volta sconfitto? Facciamo finta che esista una soluzione, a questo mondo, che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia.

Non è un capolavoro, no davvero. Molto divertente, a tratti; ma forse il versante più strettamente politico è un po’ usurato, e il dramma manca della forza mitica e poetica di altri testi come La morte della Pizia, della sua straniante molteplicità. E forse la tragedia intellettuale viene soffocato proprio dagli elementi più grotteschi della decadenza, da quell’anacronismo ironico degli arraffa-arraffa di fine regime e dello stolidume funzionaristico. Alcuni passaggi, però, mantengono una rara forza, quella della solitudine, del peso della scelta, e della colpa del giusto, come nel bellissimo dialogo notturno con Emiliano, tornato dopo tre anni di prigionia per essere un fantasma, con un diritto alla cecità rabbiosa sancito dalle mani torturate, da una vita spezzata.

mercoledì 1 febbraio 2012

2 luglio 1923 – 1 febbraio 2012

Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto?
Ad abbeverarsi ad un’acqua scritta
che riflette il suo musetto come carta carbone?
Perché alza la testa, sente forse qualcosa?
Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità,
da sotto le mie dita rizza le orecchie.
Silenzio - anche questa parola fruscia sulla carta
e scosta
i rami generati dalla parola “bosco”.

Sopra il foglio bianco si preparano al balzo
lettere che possono mettersi male,
un assedio di frasi
che non lasceranno scampo.

In una goccia d’inchiostro c'è una buona scorta
di cacciatori con l’occhio al mirino,
pronti a correr giù per la ripida penna,
a circondare la cerva, a puntare.

Dimenticano che la vita non è qui.
Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io,
si lascerà dividere in piccole eternità
piene di pallottole fermate in volo.
Non una cosa avverrà qui se non voglio.
Senza il mio assenso non cadrà foglia,
né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.

C’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere a mio comando incessante?

La gioia di scrivere
Il potere di perpetuare.
La vendetta d’una mano mortale
                            (La gioia di scrivere)



                                        “Signora Szymborska, la vogliono al telefono”