Meša Selimović, Il derviscio e la morte [1966], Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008 (1983)
In uno dei territori più selvaggi della Bosnia, a Blagaj, improvvise si aprono nella roccia le sorgenti della Buna, fiume carsico che alla fonte vanta un flusso di 40.000 metri cubi d’acqua per minuto, più del Danubio, e che presto si getterà nella Neretva, la lenta madre azzurra dell’Erzegovina.
Lì, alle foci della Buna, ai piedi di una parete verticale di duecento metri, dal sedicesimo secolo, si specchia nella acque una tekija, un “monastero” sufi.
In un villaggio innominato della Bosnia, e che pure potrebbe essere anche questo, incentrato in una tekija indefinita, e che pure con un po’ di fantasia potrebbe anche essere questa, è ambientato un meraviglioso romanzo; un romanzo “orientale”, e che di questa terra sospesa al crocevia della geografia e dei tempi ha tutta la lentezza e la sacralità. Un romanzo ascetico come può esserlo il memoriale di un derviscio condannato a penetrare nella parte più oscura di sé.
Nel nome di Dio, clemente misericordioso! Chiamo a testimone calamaio e penna e quello che con la penna si scrive; Chiamo a testimone l’ombra incerta del crepuscolo e la notte e tutto quello che essa ravviva; Chiamo a testimone la luna piena e l’alba che imbianca; Chiamo a testimone il giorno del giudizio e l’anima che si accusa da se stessa; Chiamo a testimone il tempo, inizio e fine di tutto – che l’uomo è sempre in perdita.
Il romanzo si apre con un incipit altissimo, e tragico. Ogni capitolo è aperto da una citazione del Corano - fino all’ultimo In quel giorno Noi diremo alla gehenna: «Sei piena?» ed essa chiederà: «C’è dell’altro?» - a scandire il travaglio di un uomo cresciuto nella certezza della fede, nelle regolarità rassicurante della liturgia, nella costanza dell’eternità: Ho sempre saputo che cosa dovevo fare, l’ordine dei dervisci pensava per me e le fondamenta della fede sono solide e larghe, e non c’era nulla in me che non si potesse porre su di esse.
Ahmed Nurudin, sceicco della tekija durante la dominazione ottomana, è un uomo probo e di fede, un punto di riferimento per la comunità. Un giorno il fratello viene arrestato. L’accusa resta misteriosa; la colpa inespressa; la sentenza a lungo sconosciuta. Per Ahmed è l’inizio del percorso, in un labirinto insensato e cieco nei palazzi e nelle trame del potere, perso tra la violenza, l’arbitrio, la cupidigia, l’ottusità, fino alla rivelazione della propria nullità. Ma per Ahmed, Giobbe disperato, è anche l’inizio di un percorso dentro di sé alla ricerca della più vera propria natura, tra lunghi monologhi scarnificanti e folgorazioni impietose: la menzogna, la paura, la rabbia, la fragilità, la vigliaccheria, la meschinità, la solitudine. Tutto a poco a poco in lui si erode; e ciò che resta sono odio, per sé e per tutti, e vendetta. E il tradimento ultimo di sé e anche dell’ultima cosa che era riuscito a preservare.
Nella lunga ultima notte, dopo l’ultimo ricordo di un tempo remoto, di una vita attesa e desiderata diversa, Ahmed inoltra lo sguardo nell’abisso. Uomo che canti in questa oscurità spaventosa, io ti ascolto. Mentre le ultime ore incalzano agghiaccianti e tremende, mentre l’onda del terrore si approssima, la mano verga la conclusione del memoriale ponendo il sigillo della disperazione umana e di una vita confusa e senza senso.
Non amo molto i libri in forma di diario, o memoriale che sia. Troppo usurata la formula, e troppe volte irrealistica la costruzione e l’interruzione (presente il narratore interno che sbatte via tempo a vergare le ultime parole mentre torme di lemuri carnivori del pianeta XyW4Zr premono al portellone antigravitazionale?).
In questo libro però, la cui lettura dovrebbe essere studiata per essere conclusa nel silenzio abissale della notte, tutto appare naturale. La prosa ha la dolcezza lirica del rimpianto e del ricordo, del ripiegamento su sé, anche se tutto ciò che vi può trovare l’uomo è l’abisso di un’infelicità esacerbata dalla piccola tragica meschinità che gorgoglia nel fondo; e la prosa ha insieme la potenza apocalittica della prosa profetica e visiva del Corano, i suoi ritmi misteriosi e violenti. Durante la guerra partigiana, il fratello di Meša Selimović, partigiano, fu arrestato dai suoi stessi compagni con l’accusa di furto; Meša Selimović, figura importante del partito a Tuzla, non poté nulla per aiutarlo. In questo bellissimo e cupo romanzo si deposita la forza catartica della letteratura, la purificazione del dolore e della paura.
Alla fossa ho detto: “Tu sei mio padre!”,
al verme ho detto: “Tu sei mia madre e sorella”-
Dove sei, ora, mia speranza?
Chi ti vedrà più?
Scenderai con me nel mondo dei morti,
assieme finiremo nella polvere.