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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

mercoledì 22 febbraio 2012

Raccontare la morte nel freddo nel tutto nel nulla

Jack London, Le mille e una notte, Milano, Adelphi, 2006

Come fa chi è cresciuto sperando che un giorno avrebbe anche lui sentito il richiamo della foresta a resistere alla tentazione di comprare una raccolta intitolata Le mille e una morte


Sette racconti pubblicati in sedi diverse, tra il 1899 e, postumo, il 1918. Racconti che affrontano tutti la morte attraversando l’intera vita artistica di London, dalla prima giovinezza e le sue esperienze per mare, al crudele biancore del Klondike, agli ultimi intentati confini della Polinesia. E la prima inevitabile impressione, è quella di una crescita, di una naturalezza e di una complessità che si impone agli occhi. 


È quasi traumatico il passaggio dal primo racconto (Le mille e una morte) al secondo (Bâtard). Il primo, tra le Ventimila leghe sotto i mari in sedicesimo e un dottor Mabuse di scarto, pretenderà pure di essere una psicomachia con la figura del padre, ma in concreto è un raccontino che non sta in piedi, senza struttura, senza verosimiglianza, senza montaggio e linee, mera accozzaglia di chimica e biologia, orecchiate e futuribili. 


Poi, improvvisi, i capolavori. E il primo è Bâtard, racconto tanto celebre che già lo avevo letto da bambino in una vecchia raccolta Mursia: la lotta di odio tra cane e uomo per il dominio, in cui umanità e caninità si confondono, l’uomo che si fa bestia, il cane che ha sentimenti umani di malvagità, un rossomalpelo subdolo nelle scelleratezze, figlio di cagna ringhiosa, rissosa, sconcia, un tragico apologo sulla violenza e la ferocia, e sul destino, natura o educazione che sia. 


E poi Accendere un fuoco, un racconto da rileggere e rileggere ancora per l’impressionante capacità di lentezza narrativa: un uomo che cerca di accendere quel fuoco che potrà salvarlo dalla morte per assideramento; un racconto dell’orrore che affonda nel biancore sterminato, in cui ogni istante si scompone attimo dopo attimo nell’inesorabilità della debolezza umana di fronte alla forza del potere annientante dell’immensità del Nord, un dialogo di un islandese senza quella fantasia che serve anche solo a percepire la propria nullità, e della natura indifferente che prende la forma finale in un cane che ulula sotto le stelle che guizzavano e danzavano e brillavano radiose nel gelido cielo per poi riprendere il suo cammino verso il fuoco.


E ancora nel Nord è ambientato Perdifaccia, e chissà che giri ha fatto lo schema narrativo che ne costituisce la fabula, che non credo che London avesse letto di Isabella e Rodomonte. Ma appunto l’inganno di Subienkow non è altro che l’architrave, l’esile elemento su cui è costruito il racconto. Ma la bellezza del racconto è in quell’analessi quando Subienkow vede avvicinarsi la tortura: quella lunga traversata della Siberia, in fuga dalla Polonia, fino alla morte che lo attende sul fiume Yukon, sempre nel vano tentativo di tornare a quelle capitali dell’Europa occidentale a cui sembrava destinato. Anche qui il nucleo è il destino imprevedibile dell’uomo, schiacciato e deciso nello scontro tra civiltà e violenza naturale, in una lotta che questa volta però, sotto il finale quasi comico da racconto orale popolare, ha la forma ambigua e malinconia di una canzone francese che fa parte di un rituale magico su una pozione in cui si mescolano bacche e muschio e dita mozzate ai moribondi, e che è invece l’ultimo ricordo di un viso di donna sulla Senna e di un addio.


C’è un ultimo racconto che merita, davvero, una lettura, per la sua anomalia, per la sua non facile riconducibilità al London più conosciuto. Il Dio Rosso è una sorta di cuore di tenebra polinesiano; comincia con la potenza biblica delle trombe dell’Apocalisse, in un incipit tanto potente quanto ambiguo, in cui la profezia si confonde con la pazzia. Almeno nell’ancor fragile consapevolezza del lettore. La storia di una ricerca disperata dell’origine di un suono, attraverso la morte, la giungla la malattia, le paludi, la paura e la ferocia, nell’approssimarsi progressivo al richiamo della voce del Dio Rosso, il Dio della violenza e della tortura. Ma il Dio Rosso non è solo un signore delle mosche. E il finale allora ha la forza straziante e insieme rasserenante dell’ultimo passo verso l’ignoto, nell’ultima visione, quando anche quell’ultimo passo sarà illuminato. E tutto ancora resterà per sempre celato, e il lettore porterà con sé l’immagine di crani mummificati che appesi alla trave ruotano nel fumo, e ruotano, e ruotano nell’eternità del tempo selvaggio.

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