B.S. Johnson, In balìa di una sorte avversa [1969], Milano, Rizzoli, 2011
Un vecchio lettore diceva che, quanto più il tempo avanza, i libri, anziché accumularsi sugli scaffali, si diradano progressivamente, nella ricerca della vera identità di se stesso lettore, di ciò che davvero ha avuto un senso. Da allora, ogni volta che apro un nuovo libro, mi chiedo fino a quando mi accompagnerà.
In balìa di una sorte avversa è uno di quei libri che dichiarano subito quale ruolo svolgeranno. E dichiara di essere un libro che non sarà perduto.
B.S. Johnson, morto suicida nel 1973, è stato davvero un personaggio anomalo, e autore brusco e sperimentale, presto dimenticato fino a che Jonathan Coe, con Come un furioso elefante, una sorta di biografia a frammenti e stralci, non l’ha riportato all’attenzione.
E di Coe è l’introduzione a questo singolarissimo romanzo di B.S. Johnson; introduzione singolarissima, perché non introduce. È un fascicolo sparso. Perché il romanzo è un non romanzo, estremo e ultimo smontaggio del genere romanzo, ultimo approdo di quel Sterne un cui passo compare nella scatola. Scatola? Piatto anteriore, posteriore, dorso, zanchetta, copertina, tutti gli elementi, eppure questo tomo bianco è una scatola; il “book in the box”, come lo aveva pensato Johnson. All’interno ventisette capitoli (brevissimi, anche solo una mezza facciata) in fascicoli separati; due segnati come “primo”, e “ultimo”. Tutti gli altri, con un simbolo grafico; e numerazione delle pagine che ogni volta ricomincia da 1. E allora, salvo il primo e l’ultimo, i capitoli possono essere letti in qualsiasi ordine. È banalità trita che un libro, ad ogni lettura, sia sempre diverso. In questo caso lo è davvero.
Ma non è virtuosismo; o meglio, raramente lo sperimentalismo è così intrinsecamente, quasi inevitabilmente, forma del contenuto. L’io narrante arriva a Manchester, come inviato di un giornale londinese per seguire il derby City-United; e qui, improvvisamente, si rende conto che è una città conosciuta, la città legata al ricordo di Tony. Nell’attesa dell’inizio della partita, si snodano, si aggrovigliano, i ricordi di quell’amico, morto tragicamente giovanissimo di cancro; riaffiorano, si eclissano, rampollano, si sperdono, i giorni di quell’amicizia quando Tony, prima giovane studente, poi dottorando con ambizioni di critico, si era incontrato con quel giovane promettente romanziere. E il romanzo è in realtà il tragico tributo a Tony Tillinghast, a un’amicizia tragicamente finita. Perché l’estremo del formalismo, in realtà, è espressione di una poetica di fedeltà rigorosa alla realtà.
Racconterò tutto, amico mio. Sarà ben poca cosa, disse, dopo un po’, lentamente, sempre con gli stessi occhi. È ciò che tutti hanno, ben poca cosa, dissi.
Ogni lettura, allora, è sempre diversa, perché i ricordi si riallacceranno in maniera diversa, e il lettore ricostruirà gangli e inneschi ogni volta diversa. E il romanzo, e anche in questo la forma è solo intrinsecamente necessitata, si presenta come un monologo interiore, a volte confinante con il flusso di coscienza, interruzioni, pause, correzioni, spaziature bianche di ampiezza variante con l’incertezza della lingua.
In alto il soffitto con la carta da parati, irregolare, probabilmente lo tiene su la carta, no, forse, ma marrone. Il caminetto rustico, un pianoforte. Ridono, qualcuno mi guarda. Sembro strano.
Due cose senza senso. Sfortunatamente. Tutto.
E allora?
Ma forse c’è anche un altro senso in questa parcellizzazione del libro. Questo romanzo sfabbricato, è anche una metafora della città in cui l’io narrante cammina facendo emergere i ricordi, una città in decadenza, uno stadio diroccato, a sua volta metafora del corpo di Tony devastato dal cancro, del suo corrompersi. Ma ancora, della memoria, che perde pezzi, che non sa ricostruire, che confonde. E della vita stessa, che si fa accumulo disperato di eventi confusi. E l’unico senso che l’io può dare, è “che cosa importa?” . In ogni caso che importa, ora, la sua morte rende tutto così irrilevante. Nella tragedia del ricordo tutto perde fisionomia, l’amicizia, i sogni di essere romanziere, il grande amore per una donna tradito e umiliato; al fondo, resta solo il senso la perdita, l’unica cosa importante.
E allora, la cronaca della partita, sarà l’ultimo suggello alla vita senza senso. Quella cronaca che, come una myse-en-abime due volte ripetuta, due volte smembrata e in forme diverse, è la forma di una partita che può solo terminare grottescamente con la più assurda delle beffe, in cui il portiere si tende all’indietro ricadendo sgraziatamente. Virgola.
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