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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

venerdì 3 febbraio 2012

Il buffonesco giudice e boia dell’impero

Friedrich Dürrenmatt, Romolo il Grande [1986], Milano, Marcos y Marcos, 2006

Già se ti tocca recitare la parte dell’ultimo degli imperatori romani d’Occidente, è cosa da richiedere il buttadentro della storia. Se poi ti chiami Romolo Augusto, associando in te il fondatore di Roma e il fondatore dell’impero, e sei solo un ragazzino spaventato, allora quel buttadentro è di necessità pure assai sardonico.

Certo che Romolo Augusto qualche fascino lo esercita, e la sua fine misteriosa ha sufficiente forza mitopoetica per innestarsi, ne L’ultima legione di Manfredi, nella leggenda arturiana. C’è voluto un bel prodigio di agilità, ma Manfredi ce l’ha fatta. E ancora più agilità, e un bel più di perizia e complessità, mette Dürrenmatt nel suo Romolo il Grande.

Il Romolo di Dürrenmatt non è un ragazzino appena salito al trono, ma un uomo maturo al potere da vent’anni. E, di conseguenza, in questo dramma teatrale, libertà, anacronismi, invenzioni, abbondano. Tanto che Romolo si spazientisce quando, di fronte al disastro, i suoi generali si inventano con parecchi secoli di anticipo la “mobilitazione generale”: lui li conosce i suoi generali, quelli che sono, o saranno, buoni solo a dire “La guardia muore, ma non si arrende” o “Morire, non ripiegare”.

Romolo, in quattro atti che abbracciano aristotelicamente ventiquattro ore, vive l’ultima giornata dell’Impero romano d’Occidente, da un’alba all’altra. O meglio, da una prima colazione all’altra. Romolo, rubando il velenoso aneddoto di Procopio sull’imperatore Onorio, ha come unica preoccupazione il suo pollame, e quante uova ognuna delle galline, ribattezzate come i vari imperatori, ha prodotto. Sembra un po’ di assistere al risveglio del giovin signore, inerzia e pochezza; che la figlia lasci stare l’Antigone e impari piuttosto le commedie: è molto più adatto alla nostra situazione. Un uomo che rifiuta di sapere che il mondo sta crollando. No: le notizie non fanno altro che eccitare il mondo. È bene perciò abituarsi a farne a meno. Un uomo che, se gli toccherà di essere ricordato negativamente come ultimo imperatore, almeno non si dica che disturbava il sonno altrui. Un uomo sardonico, fatuo, leggero, indolente: Non vorrei disturbare il corso della storia, mia cara. Insomma la tragedia farsesca della caduta di un impero.

Insomma, non proprio un personaggio gradevole. E quando il primo atto si chiude con il grido di rabbia disperata Roma ha un imperatore indegno!, e il secondo Questo imperatore deve scomparire!, è difficile non concordare. E così Dürrenmatt nella sua Nota in postfazione chiede al suo attore che ciò avvenga.

Ma qualcuno ha mai letto un dramma di Dürrenmatt che vada a finire come ci si aspetta che debba finire?

E così, questo teatro epico brechtiano ha la sua sorpresa, e la sua natura tra il teatro politico e l’Adelchi, con un Romolo dalla “rea progenie degli oppressor disceso”. E se Romolo fosse invece stato uno dei più grandi e lucidi e implacabili visionari uomini politici di ogni tempo? Eppure ancora un boia pietoso e sofferto di fronte alla fragilità umana? Eppure ancora una volta sconfitto? Facciamo finta che esista una soluzione, a questo mondo, che nell’uomo lo spirito possa vincere sulla materia.

Non è un capolavoro, no davvero. Molto divertente, a tratti; ma forse il versante più strettamente politico è un po’ usurato, e il dramma manca della forza mitica e poetica di altri testi come La morte della Pizia, della sua straniante molteplicità. E forse la tragedia intellettuale viene soffocato proprio dagli elementi più grotteschi della decadenza, da quell’anacronismo ironico degli arraffa-arraffa di fine regime e dello stolidume funzionaristico. Alcuni passaggi, però, mantengono una rara forza, quella della solitudine, del peso della scelta, e della colpa del giusto, come nel bellissimo dialogo notturno con Emiliano, tornato dopo tre anni di prigionia per essere un fantasma, con un diritto alla cecità rabbiosa sancito dalle mani torturate, da una vita spezzata.

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