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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

martedì 31 maggio 2011

Campioni del mondo!

Oggi un post sulle tre cose più amate dagli italiani: calcio, politica e soprattutto letteratura. Una Divagazioni che più divagazione non si può; un post che non si capisce nulla, ma sa benissimo quello che vuole dire. 


In un blog ancorato a Repubblica.it trovo un articolo la cui conclusione recita: 


Appena cinque anni prima della bonaria satira di Erasmo [l'Elogio della follia], nel 1506, Shakespeare aveva scritto in Re Lear che “folle è chi si fida della docilità del lupo, della salute di un cavallo, dell’amore di un ragazzo, del giuramento di una puttana” – e anche in quest’ultimo riferimento tutto torna e insieme tutto si perde nel’attualità del tramonto berlusconiano.


Anche al di là di quel bonario attribuito all'Elogio della follia che mi fa un po' rabbrividire, sarebbe buona norma, quando si è in procinto di collocare Shakespeare quel secoletto prima di quel che fu e piazzarlo prima di Erasmo da Rotterdam, non eccedere con le citazioni colte. 


Anche perché è folle fidarsi della saldezza della memoria poetica. Anche se quella stessa memoria invece ti fa ricordare magari che, proprio nel Re Lear, Shakespeare dice: Nor tripped neither, you base football player.


Football player? Wow, è la prima attestazione della parola football nella storia! E proprio nella letteratura, e nell'opera di uno dei più grandi geni della letteratura. E allora, è giusto mostrare la foto della più grande squadra di calcio della storia, quella mitica formazione che seppe sconvolgere il mondo ai mondiali del 1974.




Gli arancioni.


Nulla sarà più come prima.

lunedì 30 maggio 2011

L'albo a cui tendevi la pargoletta mano

Ho già avuto l’occasione in un altro post di accennare alla complessità di richiami che, a mettersi in caccia, riserbano gli albi di Asterix. Da bambino, nel divertentissimo Asterix e Cleopatra, ero rimasto decisamente insoddisfatto da una vignetta: l’architetto egiziano Numerobis, disperando di poter adempiere a un incarico affidatogli dalla bizzosa Cleopatra, giunge al villaggio degli irriducibili galli per invocare l’aiuto del vecchio amico Panoramix. Qui, sotto una coltre di neve, avviene l’incontro; il minuscolo Numerobis saluta l’allampanato druido con una frase un po’ strana: “Io sono felicissimo di rivederti, alfine”.


Frase grammaticalmente corretta, per l’amor di dio, ma un po’ strana, come se fosse pronunciata da uno straniero, con ottima conoscenza della grammatica, ma non proprio al corrente dell’uso. E straniero, l’architetto egiziano lo è davvero, e così si poteva spiegare l’anomalia. Mi restava però un qualche senso di irrisolto, accentuato ancor di più dalla battuta del gallo: “È un alessandrino”. Da Alessandria d’Egitto l’architetto viene davvero, e quindi, di nuovo, tutto si spiegava. Però anche in questa seconda frase c’era qualcosa di strano, di poco pertinente alla situazione; poteva sì servire a spiegare la strana lingua e foggia del visitatore; ma allora perché non dire semplicemente “È un egiziano”?; e non sarebbe stata comunque una spiegazione un po’ strana, quasi persino maleducata, dato che non ricambiava saluto e felicitazioni del vecchio amico?; e se questi fosse giunto da Pisaurum, avrebbe detto “È un gallo senone”?

Insomma, non mi convinceva. Molti anni dopo, l’illuminazione. Alessandrino! Un bel doppio senso letterario, perché Panoramix non sta dicendo solo che l’amico viene da Alessandria d’Egitto, ma anche e soprattutto che la frase pronunciata da questi è un “verso alessandrino”, ossia il doppio hexasyllabe, il doppio settenario, verso classico della poesia d’Oltralpe, tanto da essere al centro di polemiche iconoclaste nell’Ottocento (e quindi immediatamente riconoscibile da qualunque lettore francofono di buona formazione scolastica). Il nome deriva dal Roman d’Alexandre del XII secolo, ispirato alle gesta di Alessandro Magno, fondatore, per l’appunto di Alessandria d’Egitto. E allora come può esprimersi un alessandrino, se non in alessandrini? Se andiamo a vedere l’originale francese troviamo la conferma della natura versale della battuta.


In questo caso Numerobis osserva: “Je suis mon cher ami, très heureux de te voir”. Qui la natura di verso doppio della frase è resa ancora più evidente dalla presenza della virgola, e i due elementi della frase sono appunto degli hexasyllabe (corrispondenti al settenario per l’alta densità di tronche del francese). Nella traduzione italiana il gioco letterario è molto meno riconoscibile, perché da noi l’alessandrino è rimasto un verso minoritario, quasi da cultori, confinato per lo più alle Origini. E anche il nome, più di tanto, da noi non è attecchito: anzi, spesso si usa il termine “martelliano”, da Pier Iacopo Martello (1665-1727) che lo introdusse nel teatro italiano. E piccola curiosità: il primo settenario è sdrucciolo (“felicìssimo”), il che riallaccia il nostro traduttore non tanto al martelliano moderno, quanto alla prassi diffusa proprio nella lingua delle origini, poi ripresa, per gusto antiquario, da Carducci.

martedì 24 maggio 2011

Pensieri della libreria

Dietro le nevi incede,
domenica, dietro fiondando il porto,
il Deutschland; e così il cielo si mantiene,
ché ostile è l’aria infinita,
e il mare scaglie di silice, nero-dorsuto nel colpo regolare,
fisso Est-Nord-Est, nel quarto maledetto, il vento;
rigida, bianco-ardente, attorta in turbine la neve
rotea verso gli abissi culla di vedove, bara di figli e padri.

Fu spinto nel buio sottovento,
urtò – non un banco o uno scoglio
ma le creste di una nebulosa di sabbia: la notte lo trascinò
a morte su Kentish Knock;
e squarciò la secca con la prua e il corso della chiglia:
le ondate rotolavano da un fianco all’altro con urto devastante;
e da vele e bussola, elica e timone
inutili per sempre a spingerlo o a guidarlo, ora era oppresso.

(Gerard Manley Hopkins, Il naufragio del Deutschland, 13-14, trad. di Rosanna Farinazzo)

La copertina dell’edizione in cui conobbi Il naufragio del Deutschland, capolavoro rivoluzionario di un’epoca vittoriana non in grado di riconoscerlo come tale, aveva un particolare de Il mare di ghiaccio di Friedrich.





Tutto questo, quello scafo sfasciato, mi è tornato in mente vedendo, ahimè, tardi, una locandina di un allestimento parmense di Claudio Parmiggiani (1943), artista anomalo di fama internazionale, che ha attraversato arte povera e arte concettuale, alla ricerca di un’arte materiale che sappia esprimere l’invisibile e il suo trascorrere.




Un'immagine di grande impatto, nella forza maestosa di una nave in secca, sbalzata attraverso un muro, schiacciata nella nicchia, quasi minacciosa, come se fosse la inquietante forma di un qualcosa irrotto da un altro mondo. 


Particolare interessante è che la nave è incagliata su un banco di libri. E il titolo della personale è proprio Naufragio con spettatore; esplicita allusione a un famoso saggio di Blumenberg, il cui sottotitolo recita Paradigma di una metafora dell’esistenza. Il mondo dei libri, come forma del mondo, è sempre presente nell’opera di Parmiggiani. Libri apparenti, ombre di libri, libri che scompaiono, che forse, riaffiorano, trasparenti, silenziosi, confusi.  

Parmiggiani, Polvere

Ho sempre pensato alle librerie di chi non c’è più. Esistono davvero quello librerie, quelle storie di una vita di ricerca e accumuli e scoperte, quando non c’è più chi ha dato loro esistenza soffiando tra le loro pagine l’alito della lettura? 

Parmiggiani, Scultura d'ombra

Naufragi, rimasti senza più nemmeno spettatori.


venerdì 20 maggio 2011

Le parole che non ti ho detto, quelle che ho detto, e quelle che ho letto

Nullum esse librum, in quo non aliquid boni sit. [“Non v’è libro che non contenga qualcosa di buono”.] Così nel libro di favole morali Bestiarum Schola di Pompeo Sarnelli recita il titolo della Lezione XIX (“Mamma formica e la formicuzza”, secondo il sottotitolo).

Una formica vide due mucchi di grano e, cogliendo a volo l’occasione propizia, incaricò sua figlia di trasportare nel formicaio chicchi di uno dei due mucchi per averne cibo in inverno; dell’altro si sarebbe occupata lei stessa. La formicuzza, però dopo aver trasportato un paio di granelli, ritornò dalla madre, mostrandosi pronta a caricarsi sulle spalle i chicchi dell’altro mucchio. La formica se ne stupì e le chiese il perché. “Ho trovato nel mio mucchio – le rispose – un chicco vuoto: perciò, per non sfacchinare inutilmente, ho pensato che la cosa migliore fosse sospendere quel lavoro e venire a darti una mano”. “Che gli dei ti fulminino! – imprecò la madre – per un solo chicco che hai trovato vuoto hai ritenuto, senza pensarci su, che andassero disprezzati tutti gli altri che sono invece pieni di farina e utili alle nostre necessità!”.
La lezione dà una tirata d’orecchi a quei saputelli avventati e superficiali che stroncano su due piedi eccellenti opere letterarie, fondandosi su qualche fortuita citazione mnemonica nemmeno completa in tutte le sue parti, se non addirittura per niente accessibile alla propria ottusa cultura. (trad. A. Iurilli)

La conclusione morale, in realtà, dice qualcosa di ben diverso dal titolo, ed è piuttosto una critica verso chi pontifica senza avere davvero letto un libro, o peggio senza essere riuscito a capirlo. Il titolo rimanda piuttosto a una celebre frase di Plinio il Giovane, dietro la quale mi rifugio spesso: “Non c’è libro tanto brutto che in qualche sua parte non possa giovare” (dicere etiam solebat nullum esse librum tam malum ut non aliqua parte prodesset, Ep. III 5, 10). Allora andrei anche un po’ oltre. Non c’è uomo tanto stupido da cui, ad ascoltarlo, non si possa imparare qualcosa. Mi rifugio spesso dietro anche questa frase; un giorno deciderò se sia confortante, o no.

martedì 17 maggio 2011

Ieri, oggi, domani. Sciarada politico-letteraria.

Si alzava, aggiustava colle due mani la testa e le gambe ingranchite, dava una giravolta per la stanza, e via, pigliava il cappello, via a sciorinare la malinconia all'aria e al sole di piazza Castello, a cercare una salutare distrazione alle baracche del Tivoli*, dove si mostrano le più grandi meraviglie dell'universo. Le piante vestivano il primo verde. Sull'orlo dei viali, ancora umidi e freschi, cresceva un'erba tenera, che faceva piacere al cuore, come se quel poco verde, serpeggiante nell'arido anfiteatro di una grande città tutta polvere e sassi, fosse un ricordo della buona madre natura, che comincia fuori dei bastioni. Nello sfondo nitido di piazza d'Armi** spiccava l'arco della Pace, co' suoi cavalli neri sul marmo bianco, e dietro l'arco uscivano le cime nevose delle prealpi lontane e del Monte Rosa, che nei giorni asciutti si rivela ai milanesi come l'idea un po' confusa d'un mondo migliore. (Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, III 7)


* L'area a est e sud dell'Arena, nell'Ottocento zona malfamata spesso occupata da teatri improvvisati e mercati delle pulci.
** La zona attualmente occupata dal Parco Sempione, ma originariamente adibita alle esercitazioni militari delle truppe acquartierate al Castello Sforzesco.

lunedì 16 maggio 2011

Personaggi in cerca di una spiegazione dall’autore

Paul Auster, Viaggio nello scriptorium [2005], Torino, Einaudi, 2008

Foster Wallace, in uno dei suoi racconti, paventa il rischio che il suo arduo schema narrativo lo trasformi in “uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudo postmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso”. E la meta-narrativa sembra proprio essere un giochetto in cui molti scrittori prima o poi cadono, bisogno di virtuosismo che sia, bonaccia creativa o riflessione sulla propria natura. 


Qui è il caso di Paul Auster. E Paul Auster, almeno, lo salva essere Paul Auster. Perché questo Viaggio nello scriptorium è un cimento per formalisti, un compendio del manuale di narratologia. 


In primo luogo, questo romanzo breve è un perfetto esempio di racconto della camera chiusa; sarà mica un caso che il titolo ricordi così da presso il Viaggio intorno alla mia camera [in genere tradotto in inglese con Journey, contro il Travels di Auster] di Xavier de Maistre, quello strano savoiardo che passa di traverso Sette e Ottocento? Quei quarantadue giorni di prigionia in cui l’io narrante, agli arresti per un duello, compie un viaggio, dal letto alla poltrona ai quadri, ritessendo, tra molteplici divagazioni e qualche diletto metanarrativo, la trama della sua vita. “Tutti gl’infelici, i malati e gli annoiati del mondo mi seguano!”. 


Anche il vecchio su cui si apre il Viaggio è recluso – ma lo è davvero, in questo romanzo dell’ambiguità? – in una stanza: il letto, la scrivania, la seggiola, il bagno. Può uscire, non può uscire, da quella stanza? è inchiavardata la porta? con un catenaccio? a scatto? L’uomo non ricorda nulla, chi è, come è finito lì, da quanto, perché, il suo passato. La stanza bianca, lui che deve essere vestito di solo bianco; tutto quel che c’è sono foto di sconosciuti sulla scrivania, e quelle targhette che indicano il nome degli oggetti su cui sono apposte, il tavolo, il letto, il muro, come se fosse un malato di Alzheimer. 


E Mr. Blank è infatti il suo nome, il vuoto, l’assente. La stanza è come un grande palcoscenico di non-essere che solo le etichette adesive definiscono, così come la giornata di Mr. Blank sembra esistere solo perché viene continuamente osservata e auscultata e ripresa da microfoni e fotocamere, e come la sua vita stessa può essere ricostruita solo dagli accenni e dalle domande dei visitatori che a turno entrano nella stanza: Anna Blume, James P. Flood, Farr, e tutti gli altri (sono loro la ciurma di dannati, i senza volto che lo aggrediscono nel sonno?). Tutti sono legati al passato di Mr. Blank, hanno qualcosa da perdonargli, o gli hanno perdonato, mentre al vecchio resta solo il dibattersi tra sensi di colpa indefiniti e il rifiuto di sottostare a vincoli e obblighi della sua imprecisata reclusione. 


In tempi lontani, tutti sono stati inviati da lui in “missione”; qualcuno non è tornato; qualcuno è morto; tutti sono invecchiati. Forse qui il gioco meta-narrativo sarebbe fin troppo scoperto, se non altro perché tutti questi visitatori sono stati personaggi dei precedenti romanzi di Auster; ma qui entra in ballo lo sprofondamento nella mise en abyme. Anzi, nelle. Già, perché qui c’è da far impazzire Lucien Dällenbach con il suo Le récit spéculaire: Contribution à l’etude de la mise en abyme. Sulla scrivania della stanza infatti c’è anche un dattiloscritto di storia alternativa, che parla di una guerra tra la Confederazione e i Primitivi, e di una peste, e una congiura, o forse un’insurrezione, o forse un tradimento e un eroismo di persone inviate “in missione”. E molte pagine del Viaggio sono in realtà costituite dalle pagine del dattiloscritto; abbiamo così un personaggio che legge e vediamo leggere: un personaggio recluso in una cella che legge un romanzo in forma autobiografica scritta da un io narrante, Sigmund Graf, recluso anch’egli in una cella. Di più: un uomo che ha inviato in “missione” i suoi agenti, che legge il resoconto di un uomo che “in missione” è stato inviato. E ancora: il manoscritto è incompleto, e la misteriosa “terapia” a cui è sottoposto il vecchio prevede che tocchi a lui proseguire quel romanzo iniziato e abbandonato da un io narrante recluso. Come recluso era l’io narrante del Viaggio intorno alla mia camera. E forse, anche, le parole con cui Mr. Blank termina il romanzo nel romanzo, La commedia è terminata, ricordano troppo da presso la battuta terminale de I pagliacci, capolavoro del metateatro, per essere un caso. Ma l’avvitamento a frattali non finisce qui: non siamo infatti di fronte a una mera mise-en-abyme ricorsiva, a sprofondamento, come potrebbe sembrare.

Ummagumma dei Pink Floyd (mise-en-abyme ricorsiva)

Barbara Lehman, Self-portrait (mise-en-abyme ricorsiva, impostata sull'infinità riproducibilità)
E nemmeno alla mise-en-abyme estrema e aporetica della scrittura che scrive se stessa, come in una celebre stampa di Escher, ma a qualcosa di più. 


Perché Mr. Blank trova sulla scrivania un altro manoscritto, scritto da Mr. Fanshawe, uno degli inviati in missione dal vecchio molti anni prima, nonché autore di un romanzo in cui compariva proprio uno degli uomini che aveva visitato Mr. Blank nella sua stanza cercando di estirpargli informazioni sul proprio passato e la propria storia. Ciò che il vecchio legge in questo secondo dattiloscritto, ciò che lo leggiamo leggere, la chiave del romanzo, potrà allora – giusto per non svelare tutto – essere espressa solo in un’immagine, nell’avvitamento esterno-interno:

La striscia di Moebius
Un personaggio vive più a lungo di un uomo; così dichiara l’anonimo io narrante e osservante che affiora nell’ultima pagina del romanzo, parte di un misterioso “noi”, carcerieri-autori. Mr. Blank, allora, lo salva essere Mr. Blank. Lo salva quella prigionia immobile e sempre uguale, giorno dopo giorno, riflesso di uno specchio che riflette uno specchio che riflette etc.









Concetti e immagini di questa scheda sono debitori all’amica Alice Bellini. Io ho solo banalizzato e frainteso i suoi studi di Ph.D. a Cambridge

venerdì 13 maggio 2011

Dalle Marche a Pittsburgh a Garland, coi pennelli in tasca

A Garland, Utah, vivono 1943 anime. Nella contea di cui fa parte, ai confini con l'Idaho, la densità è di 3 persone a km2. 
Non so bene che cosa si faccia a Garland la sera, ma in Songs for Drella, il bio-concept album dedicato a Andy Warhol, Lou Reed ricordava l'infanzia dell'artista a Pittsburgh: "There is only one good use for a small town / you hate it and you'll know you have to leave".
A Garland vive Alonzo Rhodes, 17 anni, della Bear River High School. Non so se odii la sua città, ma gli auguro di no. Non so se voglia andarsene, e non è mio diritto saperlo. A suo modo credo però che se ne vada ogni sera.
Alonzo è tra i finalisti di "Doodle for Google", il concorso per la grafica del motore di ricerca, rivolto a bambini e ragazzi dalle elementari all'High School.
Quello di Alonzo forse non era il disegno migliore della sua classe, ma ha avuto il mio voto. Riporto qui l'immagine, e il suo testo di presentazione. E credo che non occorra spiegare perché.



Reading: Share the Adventure: 

Books are a gateway to the imagination. You can go anywhere when you read a book, as far as your mind will let you go, from the depths of the sea to parallel universes. Someday, I want to see reading touch every corner of the globe, be available to everyone. 

martedì 10 maggio 2011

L’orrore delle biblioteche

Mike Thaler e Jared Lee, sono autori (rispettivamente come autore e illustratore) di una fortunatissima serie di libretti, la Black Lagoon, ambientati nell’orroroso mondo di Hubie, un povero bimbo in balia di un mondo spaventoso fatto di palestre con maestri di ginnastica cavernicoli, presidi  mutanti, segretarie deformi, maestre stregonesche. E sadiche e orchesche bibliotecarie. Qui, la bellissima animazione, diretta da Galen Fott, proprio di The Librarian from the Black Lagoon. Vietato parlare oltre questo punto. Vietato sussurrare oltre questo punto. Vietato respirare oltre questo punto.

venerdì 6 maggio 2011

Una breve, brevissima pausa

Un ricercatore a Oslo deve avere notevoli vantaggi su uno in Italia; almeno uno è facilmente intuibile, un altro deve essere che, durante i consigli di Facoltà, giunto al punto 15 dell’Ordine del giorno, prossimo all'asfissia, alza lo sguardo e vede tre giganteschi capolavori di Munch: Il sole, La storia e Alma mater. L’artista, dopo aver vinto una commissione pubblica per la decorazione dell’Aula magna dell'Ateneo, consegnò definitivamente le sue tre grandi tele nel 1916.

In particolare Alma mater merita qualche osservazione; si tratta di una tela colossale (m 4.80 x 11.5), il cui titolo è particolarmente significativo sia come sinonimo di università in sé, sia per il suo riferimento alla scienza stessa, alla sua funzione naturale. In realtà, esistono due copie di questa tela; una è esposta là dove era destinata, l’altra (nota come I ricercatori / Alma Mater) si trova al Munch Museet, e ne é una prima stesura. Al centro una figura femminile allattante, una sorta di Grande Madre atavica, primordiale, salda e benigna. 

Alla sua sinistra, un giovane insegna a un bambino, simbolo della trasmissione del sapere; alla sua destra alcuni bambini ne osservano un altro che disegna sulla sabbia (e quanti grandi insegnamenti e figure geometriche e scoperte e parole la storia ci racconta che siano stati affidati alla sabbia); due altri bambini si affiancano a lei, quasi cercandone il contatto e la forza; più sullo sfondo, sulla riva del fiordo, tra bambini guardano verso la costa dall’altra parte, all’infinito nascosto eppure coglibile nell'esile ombra del profilo dei monti; tutto in una natura esattamente speculare, le acque e il bosco, spirito e materia, fluido e solido, e la Madre si pone là dove si incontrano. Come se la scienza fosse nutrice, ma a sua volta anche nascesse da un bisogno primigenio, da una forza naturale nascosta. Un’immagine che suscita una grande serenità, inattesa in Munch.

La tela effettivamente esposta all’Università, però, pur mantenendo la sinopia della precedente, muta profondamente.

I bambini diminuiscono, scompare la figura del giovane, si perde l’elemento della tradizione del sapere, e scompare ogni figura umana alla destra della donna. Saranno i colori più acri e freddi, o la vegetazione che si fa più nordica, o le rocce che compaiono sulla sabbia dove prima giocavano i bambini, o ancora la costa opposta che si alza oltre il fiordo a danno proprio dell’acqua che si fa ora una striscia sottile e più fredda e come soffocata dalla lingua di terra inarcata alle spalle della Mater, però mi sembra che in questa versione sfumi l’incanto di quella precedente, l’impressione di piacere dello studio e dell’avventura di una scoperta comune, e lo scenario si chiuda e incupisca, perdendo in prospettive e promessa.

Vale però ricordare che lo stesso Munch, ancora a distanza di decenni, cercò di far collocare nell’Aula magna dell’Università di Oslo proprio la prima, forse più serena, forse più iconograficamente incisiva, versione.

mercoledì 4 maggio 2011

A mo' di augurio, oggi



La pietra e l'acciarino

La pietra, essendo battuta dall'acciariuolo del foco, forte si maravigliò, e con rigida voce disse a quello: che presunzion ti move a darmi fatica? Non mi dare affanno, che tu m'hai colto in iscambio, io che non dispiacei mai a nessuno. Al quale l'accaiarolo rispose: se starai paziente, vederai che maraviglioso frutto uscirà di te. Alle quale parole la pietra, datosi pace, con pazienza stette forte al martire, e vide di sé nascere il maraviglioso foco, il quale, colla sua virtù, oprava in infinite cose. 
Detta per quelli i quali spaventano ne' prencipi delli studi, e poi che a loro medesimi si dispongano potere comandare, e dare con pazienza opera continua a essi studi, di quelli si vede resultare cose di maravigliosa dimostrazione.
(Leonardo da Vinci, da Favole, Novellette e Bizzarrie)


Le cose belle finiscono. Ma almeno questa lo fu. Grazie.