Paul Auster, Viaggio nello scriptorium [2005], Torino, Einaudi, 2008
Foster Wallace, in uno dei suoi racconti, paventa il rischio che il suo arduo schema narrativo lo trasformi in “uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudo postmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso”. E la meta-narrativa sembra proprio essere un giochetto in cui molti scrittori prima o poi cadono, bisogno di virtuosismo che sia, bonaccia creativa o riflessione sulla propria natura.
Qui è il caso di Paul Auster. E Paul Auster, almeno, lo salva essere Paul Auster. Perché questo Viaggio nello scriptorium è un cimento per formalisti, un compendio del manuale di narratologia.
In primo luogo, questo romanzo breve è un perfetto esempio di racconto della camera chiusa; sarà mica un caso che il titolo ricordi così da presso il Viaggio intorno alla mia camera [in genere tradotto in inglese con Journey, contro il Travels di Auster] di Xavier de Maistre, quello strano savoiardo che passa di traverso Sette e Ottocento? Quei quarantadue giorni di prigionia in cui l’io narrante, agli arresti per un duello, compie un viaggio, dal letto alla poltrona ai quadri, ritessendo, tra molteplici divagazioni e qualche diletto metanarrativo, la trama della sua vita. “Tutti gl’infelici, i malati e gli annoiati del mondo mi seguano!”.
Anche il vecchio su cui si apre il Viaggio è recluso – ma lo è davvero, in questo romanzo dell’ambiguità? – in una stanza: il letto, la scrivania, la seggiola, il bagno. Può uscire, non può uscire, da quella stanza? è inchiavardata la porta? con un catenaccio? a scatto? L’uomo non ricorda nulla, chi è, come è finito lì, da quanto, perché, il suo passato. La stanza bianca, lui che deve essere vestito di solo bianco; tutto quel che c’è sono foto di sconosciuti sulla scrivania, e quelle targhette che indicano il nome degli oggetti su cui sono apposte, il tavolo, il letto, il muro, come se fosse un malato di Alzheimer.
E Mr. Blank è infatti il suo nome, il vuoto, l’assente. La stanza è come un grande palcoscenico di non-essere che solo le etichette adesive definiscono, così come la giornata di Mr. Blank sembra esistere solo perché viene continuamente osservata e auscultata e ripresa da microfoni e fotocamere, e come la sua vita stessa può essere ricostruita solo dagli accenni e dalle domande dei visitatori che a turno entrano nella stanza: Anna Blume, James P. Flood, Farr, e tutti gli altri (sono loro la ciurma di dannati, i senza volto che lo aggrediscono nel sonno?). Tutti sono legati al passato di Mr. Blank, hanno qualcosa da perdonargli, o gli hanno perdonato, mentre al vecchio resta solo il dibattersi tra sensi di colpa indefiniti e il rifiuto di sottostare a vincoli e obblighi della sua imprecisata reclusione.
In tempi lontani, tutti sono stati inviati da lui in “missione”; qualcuno non è tornato; qualcuno è morto; tutti sono invecchiati. Forse qui il gioco meta-narrativo sarebbe fin troppo scoperto, se non altro perché tutti questi visitatori sono stati personaggi dei precedenti romanzi di Auster; ma qui entra in ballo lo sprofondamento nella mise en abyme. Anzi, nelle. Già, perché qui c’è da far impazzire Lucien Dällenbach con il suo Le récit spéculaire: Contribution à l’etude de la mise en abyme. Sulla scrivania della stanza infatti c’è anche un dattiloscritto di storia alternativa, che parla di una guerra tra la Confederazione e i Primitivi, e di una peste, e una congiura, o forse un’insurrezione, o forse un tradimento e un eroismo di persone inviate “in missione”. E molte pagine del Viaggio sono in realtà costituite dalle pagine del dattiloscritto; abbiamo così un personaggio che legge e vediamo leggere: un personaggio recluso in una cella che legge un romanzo in forma autobiografica scritta da un io narrante, Sigmund Graf, recluso anch’egli in una cella. Di più: un uomo che ha inviato in “missione” i suoi agenti, che legge il resoconto di un uomo che “in missione” è stato inviato. E ancora: il manoscritto è incompleto, e la misteriosa “terapia” a cui è sottoposto il vecchio prevede che tocchi a lui proseguire quel romanzo iniziato e abbandonato da un io narrante recluso. Come recluso era l’io narrante del Viaggio intorno alla mia camera. E forse, anche, le parole con cui Mr. Blank termina il romanzo nel romanzo, La commedia è terminata, ricordano troppo da presso la battuta terminale de I pagliacci, capolavoro del metateatro, per essere un caso. Ma l’avvitamento a frattali non finisce qui: non siamo infatti di fronte a una mera mise-en-abyme ricorsiva, a sprofondamento, come potrebbe sembrare.
Qui è il caso di Paul Auster. E Paul Auster, almeno, lo salva essere Paul Auster. Perché questo Viaggio nello scriptorium è un cimento per formalisti, un compendio del manuale di narratologia.
In primo luogo, questo romanzo breve è un perfetto esempio di racconto della camera chiusa; sarà mica un caso che il titolo ricordi così da presso il Viaggio intorno alla mia camera [in genere tradotto in inglese con Journey, contro il Travels di Auster] di Xavier de Maistre, quello strano savoiardo che passa di traverso Sette e Ottocento? Quei quarantadue giorni di prigionia in cui l’io narrante, agli arresti per un duello, compie un viaggio, dal letto alla poltrona ai quadri, ritessendo, tra molteplici divagazioni e qualche diletto metanarrativo, la trama della sua vita. “Tutti gl’infelici, i malati e gli annoiati del mondo mi seguano!”.
Anche il vecchio su cui si apre il Viaggio è recluso – ma lo è davvero, in questo romanzo dell’ambiguità? – in una stanza: il letto, la scrivania, la seggiola, il bagno. Può uscire, non può uscire, da quella stanza? è inchiavardata la porta? con un catenaccio? a scatto? L’uomo non ricorda nulla, chi è, come è finito lì, da quanto, perché, il suo passato. La stanza bianca, lui che deve essere vestito di solo bianco; tutto quel che c’è sono foto di sconosciuti sulla scrivania, e quelle targhette che indicano il nome degli oggetti su cui sono apposte, il tavolo, il letto, il muro, come se fosse un malato di Alzheimer.
E Mr. Blank è infatti il suo nome, il vuoto, l’assente. La stanza è come un grande palcoscenico di non-essere che solo le etichette adesive definiscono, così come la giornata di Mr. Blank sembra esistere solo perché viene continuamente osservata e auscultata e ripresa da microfoni e fotocamere, e come la sua vita stessa può essere ricostruita solo dagli accenni e dalle domande dei visitatori che a turno entrano nella stanza: Anna Blume, James P. Flood, Farr, e tutti gli altri (sono loro la ciurma di dannati, i senza volto che lo aggrediscono nel sonno?). Tutti sono legati al passato di Mr. Blank, hanno qualcosa da perdonargli, o gli hanno perdonato, mentre al vecchio resta solo il dibattersi tra sensi di colpa indefiniti e il rifiuto di sottostare a vincoli e obblighi della sua imprecisata reclusione.
In tempi lontani, tutti sono stati inviati da lui in “missione”; qualcuno non è tornato; qualcuno è morto; tutti sono invecchiati. Forse qui il gioco meta-narrativo sarebbe fin troppo scoperto, se non altro perché tutti questi visitatori sono stati personaggi dei precedenti romanzi di Auster; ma qui entra in ballo lo sprofondamento nella mise en abyme. Anzi, nelle. Già, perché qui c’è da far impazzire Lucien Dällenbach con il suo Le récit spéculaire: Contribution à l’etude de la mise en abyme. Sulla scrivania della stanza infatti c’è anche un dattiloscritto di storia alternativa, che parla di una guerra tra la Confederazione e i Primitivi, e di una peste, e una congiura, o forse un’insurrezione, o forse un tradimento e un eroismo di persone inviate “in missione”. E molte pagine del Viaggio sono in realtà costituite dalle pagine del dattiloscritto; abbiamo così un personaggio che legge e vediamo leggere: un personaggio recluso in una cella che legge un romanzo in forma autobiografica scritta da un io narrante, Sigmund Graf, recluso anch’egli in una cella. Di più: un uomo che ha inviato in “missione” i suoi agenti, che legge il resoconto di un uomo che “in missione” è stato inviato. E ancora: il manoscritto è incompleto, e la misteriosa “terapia” a cui è sottoposto il vecchio prevede che tocchi a lui proseguire quel romanzo iniziato e abbandonato da un io narrante recluso. Come recluso era l’io narrante del Viaggio intorno alla mia camera. E forse, anche, le parole con cui Mr. Blank termina il romanzo nel romanzo, La commedia è terminata, ricordano troppo da presso la battuta terminale de I pagliacci, capolavoro del metateatro, per essere un caso. Ma l’avvitamento a frattali non finisce qui: non siamo infatti di fronte a una mera mise-en-abyme ricorsiva, a sprofondamento, come potrebbe sembrare.
Ummagumma dei Pink Floyd (mise-en-abyme ricorsiva) |
Barbara Lehman, Self-portrait (mise-en-abyme ricorsiva, impostata sull'infinità riproducibilità) |
E nemmeno alla mise-en-abyme estrema e aporetica della scrittura che scrive se stessa, come in una celebre stampa di Escher, ma a qualcosa di più.
Perché Mr. Blank trova sulla scrivania un altro manoscritto, scritto da Mr. Fanshawe, uno degli inviati in missione dal vecchio molti anni prima, nonché autore di un romanzo in cui compariva proprio uno degli uomini che aveva visitato Mr. Blank nella sua stanza cercando di estirpargli informazioni sul proprio passato e la propria storia. Ciò che il vecchio legge in questo secondo dattiloscritto, ciò che lo leggiamo leggere, la chiave del romanzo, potrà allora – giusto per non svelare tutto – essere espressa solo in un’immagine, nell’avvitamento esterno-interno:
La striscia di Moebius |
Concetti e immagini di questa scheda sono debitori all’amica Alice Bellini. Io ho solo banalizzato e frainteso i suoi studi di Ph.D. a Cambridge
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