Su questo Blog

Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

venerdì 30 settembre 2011

La sottile linea rossa di Arianna

Manuele Fior, Rosso oltremare, Bologna – Milano – Parigi, Coconino Press, 2006, euro 16

Impossibile non essere attratti dalla tavola a piena pagina che apre Rosso oltremare, una barca da pescatore sulla riva, sotto un cielo sconfinato. Tutto è di un biancore abbacinante, il candore avvampante del mare greco, l’arsura purificata del tempo mitico. E tutto il graphic novel è in bicromia: il bianco accecante del sole, il rosso duro e disteso dei corpi e del mare, nei capitoli dedicati al mondo primigenio del mito antico di Dedalo e Icaro; e a questi si aggiunge come colore dominante il nero nei capitoli del mito moderno di Faust.
I sette capitoli del graphic novel si alternano infatti tra l’antico e il moderno, il Mediterraneo primitivo e una città europea scossa dalla pioggia, tutto nel segno del tentativo di superare i limiti dell’umano. Di fronte a Dedalo e Icaro, duro come un monito, come un incubo surrealista, si erge il cubo del labirinto, costruito dal grande architetto e inventore per relegarvi il minotauro, dividendo così l’ordine dal caos, l’uomo dal mostro;
e proprio nell’edificio – solido e pietroso archetipo dell’errare, dello smarrimento dell’uomo in se stesso – saranno rinchiusi Icaro e Dedalo a causa dell’uccisione del Minotauro. Perché il ferino non può essere ucciso senza precipitare in se stessi. Dal labirinto cercheranno la fuga in tavole meravigliose e metafisiche.
Quella stessa fuga, in silenzio tra le stanze vuote di un edificio che non è mai esistito, perso in un labirinto interiore e immateriale, cerca George Fausto, l’architetto alla ricerca della perfezione, della conoscenza, del mistero dello spazio, che tra le linee gracili della geometria intuisce per un breve istante le leggi della natura per poi precipitare in una vertigine prossima alla follia, alla confusione di sé.
L’angoscia e la prometeica bramosia di astrologi e alchimisti, navigatori e scienziati, cercatori di pietre filosofali, poeti e investigatori dell’occulto  è la stessa di Dedalo e Fausto, inquieti e colpevoli. L’arsura della loro ricerca, in fragile equilibrio tra follia e ragione, nel timore del mostro annidato in noi, è il segno che unifica i due mondi e i diversi tempi del racconto, il fulcro di unico universo retto da Minosse-Mefistofele, “colui che cerca il male facendo il bene”. Anche qui, il filo della vita, la traccia che conduce a riemergere dal buio labirinto uterico, è una donna, Silvia, in grado di vivere insieme nel mito e nel reale, di riconoscere quell’unica faccia di chi ha cercato troppo, ritrovandola sul mare assolato della vita.


Su Manuele Fior: Cinquemila chilometri al secondo

lunedì 26 settembre 2011

Come te, neuter mai

Allora ne parlo anch’io... Perché di letteratura non si parla, ma di lingua sì.

Il famoso comunicato sulla “scoperta” del CERN sarà ricordato a lungo. Che si tratti di macroscopica caduta o di “polemica strumentale”, “destituita di fondamento e assolutamente ridicola”, se ne parlerà.

Personalmente ritengo questo comunicato una delle cose peggiori uscite da un ministero; una topica non solo miseranda, ma – peggio – rivelatrice.

Al di là della cautela dei fisici, senza alcun riscontro nel trionfalismo del comunicato stampa, mi limito a due osservazioni: la prima è che trovo inquietante l’asserzione Il superamento della velocità della luce è una vittoria epocale per la ricerca scientifica di tutto il mondo. Finché l’italiano sarà l’italiano, questa frase vuol dire che si cercava di superare la velocità della luce, e finalmente ci siamo riusciti. E “superamento” indica un atto: riuscire ad andare più veloce di... Prima ci abbiamo provato lanciando i ceci, poi abbiamo tentato con le lattine di birra vuote, ma non funzionava; poi uno ha detto “Sai che c’è, e se provassimo a lanciare i neutrini giù per il tunnel?”. E così finalmente siamo riusciti a lanciare qualcosa più veloce della luce.

Insomma, una concezione della scienza come una sorta di caccia al record. Citius altius fortius. Semplicemente, magari si stavano studiando i neutrini, le loro caratteristiche fisiche. Non è che “siamo riusciti a mandarli più veloci della luce”; come se di volta in volta avessimo “sparato” i neutrini sempre più veloci, sempre più veloci, sempre più veloci. Semplicemente, è stato rilevato che...  Ma non abbiamo superato nulla.

Ma forse al ministero c’è qualcuno che le lezioni di fisica le ha fatte in quest'aula qui, e ne deve essere rimasto sensibilmente impressionato, o forse ha fatto qualche confusione.

La seconda cosa che non riesco a non osservare è la frase Alla costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento, l’Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro. Grazie alla risentita precisazione del Miur abbiamo imparato che, ovviamente, Il tunnel a cui si fa riferimento è quello nel quale circolano i protoni dalle cui collisioni ha origine il fascio di neutrini che attraversando la terra raggiunge il Gran Sasso. Ora, non riesco a capire se il tunnel sia lo spazio “metaforico” lungo il quale hanno viaggiato i neutrini (come fa supporre la formula tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso come nel primo comunicato), ma in tal caso, come si fa a “costruire” uno spazio metaforico, tanto più pagandolo, per la sola parte italiana, 45 milioni di euro; oppure se con tunnel. Oppure se, come da secondo comunicato, sia il tunnel, questo reale e di forma circolare, nel quale circolano i protoni dalle cui collisioni ha origine il fascio di neutrini. Con l’unico problema che questo tunnel, il cosiddetto LHC, è a Ginevra, è circolare e di conseguenza non si estende affatto da Ginevra al Gran Sasso


E scusate, ma sempre nella frase Il tunnel a cui si fa riferimento è quello nel quale circolano i protoni dalle cui collisioni ha origine il fascio di neutrini che attraversando la terra raggiunge il Gran Sasso,  non posso non rilevare che, finché l’italiano sarà italiano, ci sono due casi:
a)      a) attraversare la Terra. Ossia passando il pianeta Terra da parte a parte. E così per questo esperimento non è.
b)      b) attraversare “della terra”; nel senso di “materiale terroso”. E ovviamente così non è, perché sono ben altri gli elementi attraversati,dai metalli all’acqua.
Insomma. Io di fisica non capisco nulla. D’accordo. Ma in italiano, quella frase non vuol dire nulla. Si dovrebbe saper scegliere; non saper nulla di fisica, o non saper nulla di italiano. Anche perché, almeno le scienze esatte richiedono ancora un linguaggio esatto.

So benissimo che il comunicato non è stato davvero vergato dal Ministro; sebbene, da un ministro che pronuncia egìda e dice i carceri... Certo il Ministro non ha colpa, perché ovviamente il tutto nasce da un pessimo assistente-consigliere che ha compromesso la credibilità del suo Ministro, le cui capacità restano indiscusse. Così come insegna la letteratura.

E la prima coniettura, che si fa del cervello d’uno signore, è vedere li uomini che lui ha d’intorno: e quando sono sufficienti [capaci] e fedeli, sempre si può reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e sa mantenerli fedeli; ma quando sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui: perché el primo errore che fa, lo fa in questa elezione. (Machiavelli, Il principe, 22)

sabato 24 settembre 2011

Voce di uno che grida nel deserto civile

Étienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Milano, Chiarelettere, 2011


Il sofista Gorgia compose un Encomio di Elena, la grande baldracca dell’epica greca; Sinesio di Cirene un encomio della calvizie. E nella cultura classica gli elogi paradossali erano uno degli esercizi retorici più comuni, l’incubo di qualsiasi ragazzino alle prime armi costretto ad arrampicarsi sugli specchi per lodare il deprecabile. Giochi un po’ fatui, sempre da condurre sul filo della citazione colta e del rigore argomentativo.
E poco più che questo, secondo Montaigne, sarebbe stato il Discorso sulla servitù volontaria di un sedicenne La Boétie, un esercizio scolastico, steso in pochissimi giorni, per tenere affilati penna e cervello. Di più, “un argomento volgare, fritto e rifritto mille volte nei libri”.
La casa editrice Chiarelettere è specializzata in tomoni di passione civile dalla grafica ben riconoscibile, dai mass-media asserviti alla metastasi della ‘ndrangheta al nord, alle molte miserie dell’Italia contemporanea. Con grafica ben diversa, di design ambizioso e più ardito, e formato minore, tre libretti: A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, di don Milani, Odio gli indifferenti, di A. Gramsci, e proprio il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie.
Un libro misterioso e ambiguo quest’ultimo, e che pure ha segnato alcune delle pagine fondamentali della storia politica occidentale. Morto giovanissimo l’autore nel 1563 (di peste, nell’adempimento del dovere, si direbbe oggi), le sue opere erano destinate a essere pubblicate dall’amico carissimo Montaigne; così avviene per tutte – poca roba, in fondo – ma non per il Discorso, che, secondo le intenzioni dell’amico ed esecutore testamentario, doveva essere incorporato al centro di quel capolavoro della nostra cultura che sono i suoi meravigliosamente moderni Saggi. Così non sarà mai. Il Discorso infatti – con il più che significativo titolo Contr’un – era entrato nel circolo della ferocissima lotta politica francese tra cattolici e protestanti, per divenire una sorta di trattato “protestante” contro la monarchia, allora cattolica. Anzi, una legittimazione dell’assassinio del tiranno. Poi, va da sé, lo utilizzeranno i cattolici per legittimare l’assassinio di Enrico III, e poi di Enrico IV, quando il re sarà sentito come un “filo-protestante”. E di nuovo tornerà sullo scrittoio dei rivoluzionari del 1789, in primo luogo Marat. E ancora nel biennio rosso.
Insomma, un libricino da trattare con le molle, che regicidi e rivoluzionari avevano ben presente. Mica male per un compituzzo, banalotto per di più, “sfuggito di penna” a un ragazzino, per come la metteva Montaigne.
Montaigne voleva tenere lontano l’amico – colui senza il quale, dice nel saggio L’amicizia dedicatogli, la vita non era che “fumo”, che “una notte oscura e noiosa” – da il pericolo di una strumentalizzazione sanguinosa, nel periodo più violento della Francia; perché è vero che nel Discorso c’è qualcosa di scolastico, a volte persino di prevedibile, ma tutto si ricompone in un’analisi, questa sì innovativa, delle ragioni che spingono l’uomo, naturalmente libero, ad accettare la servitù. Un asservimento, una corruzione che nascono nella società, crogiuolo di cecità, conformismo, accettazione. Più che un invito alla rivolta, una scorata, quasi incredula, analisi della passività inerte dell’uomo, della sua disposizione ad accettare tutto, e ancora qualcosa in più. Perché pure, e mai era stato detto con tanta forza in precedenza, gli unici veri arcana imperii sono che qualsiasi potere esiste solo perché è accettato: siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi. E La Boétie parla di qualsiasi potere, monarchico o repubblicano, e persino buono o cattivo, qualsiasi potere che non sia quello in cui ciascuno sa che parteciperà in maniera eguale agli svantaggi della sconfitta o ai vantaggi della vittoria. L’essenza del potere è nell’orgoglio del servo: all’inizio l’uomo serve a malincuore ... quelli che vengono dopo, servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. È nella convenienza che si cova la servitù; nell’ignoranza e nell’incultura, che impediscono l’intelligenza di riconoscer se stessi; in una società senza morale in cui il potere stesso costruisce bordelli, taverne e sale da gioco in modo che gli uomini, invaghiti da tali passatempi, imparino a servire come i bambini imparano a leggere sulle immagini luccicanti dei libri miniati; nell’ottusità di una religione che tutto giustifica ed esalta. Ma soprattutto, in quei compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie che il tiranno raccoglie e alimenta, quegli uomini che gli hanno sacrificato devotamente tutto, e godono di quei privilegi che li sollevano su chi ha meno, e questi ultimi che godono di prevalere su chi ancora ha meno, e così via, al punto che quanti godono della servitù quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà. Libido serviendi, diceva Tacito, il “gusto di essere servi”. La Boétie arriva alla radice ultima psicologica della catena di abbrutimento e disprezzo che è lo scheletro su cui si regge la massa informe del potere.

E allora, in appendice, si trova benissimo il Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani del barone d’Holbach. L’amara risata di rivalsa su quelle ombre che alimentano la nostra servitù.

martedì 20 settembre 2011

I tre giorni nella città di Alba - 3

Concludo qui, finalmente, la macroscheda dedicata a Langhe e Roero; ormai sono rimaste solo poche frattaglie, ma credo davvero curiose per l’intreccio di storie e percorsi.
Come ben si sa, Langhe Roero e Monferrato, più che per la letteratura, sono famosi per gastronomia ed enologia. Barolo, bagna caôda, tajarin, agnolotti al plin, murazzano, lumache di Cherasco, torrone di Alba, cuneesi al rhum, nutella, tartufo bianco, salam ‘d Neive, Arneis. E Cinzano.
La Cinzano ha sede a Santa Vittoria d’Alba, bellissimo paesino appollaiato tra Roero e Valle Tanaro.


Avete idee di quante bottiglie possano esserci nei magazzini della Cinzano? Nemmeno io, ma a fine della Seconda guerra mondiale ce n’erano circa un milione. E i tedeschi cercarono di portarsele via. Gli abitanti del paese difesero – a rischio della vita – quelle bottiglie, nascondendole. E a questo episodio è ispirato un film, intitolato proprio Il segreto di Santa Vittoria, diretto nel 1969 da Stanley Kramer (quello di Indovina chi viene a cena e di Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo, insomma, mica ciàspole), con un cast davvero impressionante con Anthony Quinn, Anna Magnani, Virna Lisi, Renato Rascel, Giancarlo Giannini.


Poi, come si vede da questo video, il film è stato girato nei dintorni di Roma, e l’accento ha proprio poco di piemontese, ma le ragioni di cassetta erano abbastanza chiare.
Che altro avrà mai da dare un posto come Santa Vittoria d’Alba? E invece, appena arrivati nella piazza ai piedi della rocca, si vedono due epigrafi affiancate.


A sinistra, quella per Carlo Bertero, medico e botanico e viaggiatore, nato nel 1789 e naufragato al largo di Valparaiso nel 1831 al ritorno da un viaggio a Tahiti.


Ad onore e ricordanza perenne
del dottor fisico
Carlo Bertero
naturalista e botanico illustre
nelle remote regioni equatoriali
di novelle e peregrine specie di piante
esploratore e scopritore infaticabile e audace
nato a Santa Vittoria d’Alba
il 14 ottobre 1789

il comune
decretava questa lapide
nel primo di lui centenario
1889

A destra, un’epigrafe molto più recente, ma in latino. Perché a Santa Vittoria d’Alba è nato anche Oreste Badellino  (1896-1975), professore al celeberrimo Liceo D’Azeglio di Torino e autore nel 1949, tra il resto, del dizionario latino Badellino-Calonghi che chiunque abbia sostenuto anche un solo esame di latino conosce.


Sanctae Victoriae de Alba XIV Kal. Mart. A. MDCCCXCVI nato
Augustae Taurinorum VIII Kal. Mart. A. MCMLXXV mortuo
viro alti ingenii atque excelsi animi
latinae linguae litterarumque peritissimo
maximo post Aegidium Forcellini lexicographo
cuius lexicon ex italico in latinum sermonem
monumentum exstat posteris
scientiae et amoris linguae humanitatisque latinae
hunc lapidem
sanctavictoriensis civitas
ad tanti viri perennem memoriam
V Non. October A. MCMLXXVI
P.

Sul latino, mi sentirei di metterci la mano, visto che l’autore dell’epigrafe è Riccardo Avallone, professore all’Università di Salerno, autore di storiche Esercitazioni latine e di studi non solo sulla letteratura e la cultura latine (ad esempio su Mecenate), ma anche su sorrentini e sorrentiniani illustri della letteratura italiana come Masuccio e Tasso.

Anche Barolo ha la sua piccola gloria letteraria. Proprio la strada che conduce al Castello dei Marchesi Falletti, in cui ha sede il museo del Barolo, si intitola a Silvio Pellico, che presso i Marchesi – dopo i dieci anni allo Spielberg – trovò rifugio fino alla morte. Al castello, al fianco di Juliette Colbert, figlia del grande economista francese, Silvio Pellico curò la grande biblioteca, e qui scrisse Dei doveri degli uomini.


E, infine, un ultimo sfizio: ciondolando per Alba mi sono imbattuto nella casa natale del grande critico d’arte Roberto Longhi, celebre soprattutto per i suoi studi su Caravaggio, Piero della Francesca e l’arte lombarda. C’entra poco con  il blog, ma mi piaceva l’intrico di storie e di culture di questa terra.


lunedì 12 settembre 2011

Vado a Mantova e torno


Poche ore a Mantova, al Festivaletteratura, non bastano certo né per godersi una delle più belle città rinascimentali, né tantomeno per assaporare il turbinio di stimoli e occasioni offerti da un meraviglioso scenario culturale. Giusto l’occasione per avere la sensazione di una vivacissima comunità di persone con la voglia di leggere e scoprire.

A causa di una decisamente frettolosa preparazione, sono riuscito ad assistere a solo due eventi, non eccezionali, a mio giudizio: le presentazioni di Geraldine Brooks e Luigi Zoja.

Geraldine Brooks (http://www.geraldinebrooks.com/), australiana, già giornalista, è ora autrice di romanzi storici, o diciamo a sfondo storico, tra i quali Annus mirabilis, dedicato alla scelta della comunità inglese di Eyam, colpita dalla peste nel 1666, di auto-segregarsi per evitare la diffusine del contagio, un testo in cui la peste è metafora della lotta contro il male; L’idealista (Pulitzer 2006) – recuperando la strategia del romanzo dedicato a sviluppare un personaggio minore di una celebre opera (qualcosa presente nella letteratura occidentale fin dai tempi del Telemaco di Ulisse, e poi degenerato nella cosiddetta Fan fiction) – è dedicato alla figura del padre-assente di Piccole donne, dietro cui si cela Amos Bronson Alcott, padre dell’autrice del celebre polpettone defluito nella biblioteca di qualsiasi ragazzino con sorella maggiore nonché celebre educatore, abolizionista, animalista; I custodi del libro, dedicato all’Haggadah di Sarajevo, uno dei libri più preziosi al mondo, palinsesto di storie e tragedie e culture, e agli uomini che – nella Spagna al ricerca del sangue limpio come durante la Shoah o nell’ultima tragedia bosniaca – hanno rischiato la vita per salvarlo; e l’ultimo L’isola dei due mondi, dedicato a Caleb Cheeshahteaumauk, amerindo nativo di Martha’s Vineyard (Massachussets), primo nativo americano a laurearsi ad Harvard, in uno stupefacente 1665, ben prima che Sequoyah, un Cherokee, nel 1721 inventasse un alfabeto per il suo popolo, unico caso attestato al mondo di creazione autonoma di un codice scritto. Il prossimo “drammone storico” annunciato – per quanto si senta una vaga puzza di piaggeria nei confronti del pubblico – è un romanzo sui Gonzaga.

Una pagina dell'Haggadah di Sarajevo

Luigi Zoja, invece, è un analista junghiano che ha presentato l’ultimo libro, Paranoia. La follia che fa la storia; alcuni anni fa avevo letto un bellissima miscellanea, Paranoia e politica, per la Bollati Boringhieri, in un viaggio tra ossessioni del complotto, paranoia dell’antisemitismo, 1984 di Orwell, e processi politici e tema del capro espiatorio di René Girard. Debbo dire che sono stato un po’ deluso dalla presentazione; il libro – a una veloce scorsa – sembra interessante, ma Zoja ha deciso di impostare il suo intervento su due grandi medaglioni, vagamente aneddotici, di Hitler e Stalin, con l’esito di una personalizzazione molto forte e di una quasi totale assenza di problematizzazione dell’approdo al potere dei “due massimi paranoici della storia” a dieci anni di distanza.







In realtà, debbo dire, le due cose che mi sono piaciute di più, erano gratuite, e semivuote.

Quaderni di scuola. Centocinquant’anni di storia italiana letta attraverso i componimenti degli scolari: al liceo-ginnasio Virgilio, in un’aula ricostruita, con vecchi banchi, e vecchie cartine alle pareti, e per ogni banco un tablet con la possibilità di leggere centinaia e centinaia di “temi” elementari digitalizzati, e ripartiti in categorie: costume, famiglia, lavoro, nazione, religione, immaginario. Una meraviglia. La possibilità di attraversare la nostra storia e la nostra società seguendo il modificarsi delle grafie, della lingua, e della retorica scolastica. E penso che non dimenticherò mai l’anziana, ma proprio anziana, signora che, seduta di fronte a me, ha ascoltato pazientemente le istruzioni della giovanissima volontaria sull’uso delle diavolerie moderne, e subito, con uno stupendo sorriso, si è immersa nei ricordi e nel passato.

Il secondo, Biblioteca di fantascienza, ai vecchi bagni pubblici, è la biblioteca alessandrina della fantascienza, con libri fatti affluire da tutta Italia, e ripartiti per categorie, Apocalisse, Ucronia, Viaggi nel tempo, Guerra, Religione, Alieni, Orrori dello spazio e della terra, Sociologia, Saghe cosmiche, Scienza e tecnologia, Esplorazioni. E tutto in un ambiente come se fosse un’antica astronave alla deriva. Ed è stato struggente trovare, in una vecchia ormai scollata Urania, una prima edizione de I guardiani del tempo di Poul Anderson, il mio autore più amato, il canto della malinconia sul tempo che scompare, su mondi apparsi alla luce e poi annichiliti nel nulla, sulla solitudine di chi viaggia tra volti destinati a scomparire senza che più nessuno ne abbia ricordo. E chi si è dovuta sorbire quel bambino invasato ed eccitato, gli perdonerà i suoi venti minuti di allucinata felicità.


mercoledì 7 settembre 2011

Comics Nighthawks

Muñoz & Sampayo, Nel bar1 e 2, Bologna, Coconino Press, 2001 e 2003



Non c’è città in cui manchi il “Bar centrale”; né il “Al solito posto”, o il “Bar collo”. E certi bar, in fondo, sono tutti uguali. Quei bar arrampicati su per la stradina, dietro la svolta, in fondo all’ultima piazzetta, che devi conoscerli per andarci, l’ultima insenatura dove la marea deposita i detriti della vita. Lì si arenano i vecchi e le loro ombre di ricordi e rimorsi, i giovani che se li preparano, quelli che nemmeno ne hanno più. E un Joe’s Bar, c’è in ogni città anglosassone, e New York ha il suo. Il mondo dei fumetti, pure.
I due Nel bar, cinque storie ognuno che ruotano attorno al Joe’s Bar, sono tra le opere più belle di Muñoz e Sampayo, gli autori di Alack Sinner [1975], il detective hard boiled chandleriano doloroso e amaro di cui il Joe’s Bar è appunto uno spin-off (l’origine è nell’archetipico Conversando con Joe, dal profilo grafico non ancora definito). E una storia ambientata in un bar è forse quella più adatta allo stile grafico di Muñoz, quel chiaroscuro espressionistico così suo, dalle linee dure e grottesche; le scene ampie dagli spazi gremiti, e improvvisamente i primissimi piani fissi e allucinati, i protagonisti remoti sullo sfondo e il proscenio – in una selva di balloon – assiepato da comparse, ognuno un gretto dramma personale rinchiuso nello spazio ristretto di una vignetta. 



E un bar è  l’universo perfetto di Muñoz e Sampayo, là dove tutto scola e rifluisce, uomini resi deformi da un’autobiografia annientatrice o dalla lordura morale, grumi di storia personale devastata, mentre oscenità e violenza del grande palcoscenico universale riecheggiano attraverso le radio, le pagine di giornale che svolazzano sbattute dal vento, le spille politiche delle grandi campagne americane, le battute di un ubriaco. Il fumetto politico e d’autore per eccellenza trova questo doppio capolavoro, dove non ci sono disegni, ma incubi (e già nella prima tavola un anonimo avventore, dichiara I mostri di Grunewald sono contemporanei mentre quelli di Ensor raccontano il nostro passato remoto), volti che divengono maschere di solitudine e paura, vuoti che sono gli abissi della vita, pieni per la follia caotica del quotidiano, fondali che si fanno improvvisamente inferni di pece dove tutto sprofonda e resta solo la tenebra dell’inchiostro. 



Dieci brevi storie che in parte si richiamano, si riecheggiano, fanno da fondale le une alle altre, e in cui affiorano micro-storie racconti nel racconto. Via via, lungo le pagine, incontriamo  il giovane architetto indocumentado che attraversa strade in cui gli uomini sono ratti e incubi in cui le donne sono feroci poliziotte (Pepe l’architetto); il vecchio campione del mondo di pugilato, il “Matador ebreo” che perde ancora e perde tutto (Storie arrugginite); la donna che può solo fotografare la vita (Ella); la punizione di un tragico e fragile amore filiale (Quinta storia); l’apologo politico sulla ricerca di un’identità e un ruolo nella società (Tratti di Stevenson); il grande regista H.H. Kuntz (Herzog) che fonda “obiettività teatrale di Eisenstein” e “la spettacolarità di DeMille” per denunciare il neo-colonialismo europeo, sintetizzando la verità sulla pelle delle comparse indios bruciate vive (Tenochtitlan); un disegnatore vedovo e la vedova di un desaparecido che si incontrano (Disegnini); e l’ultimo piccolo capolavoro, quint’essenza grafica e costruttiva di Muñoz e Sampayo, frammenti di immagini, tra la vita e la paura, tra l’osteomielite e i fantocci della politica mondiale, senza storia e racconto, solo il bisogno della felicità (Il bar).

sabato 3 settembre 2011

Zum Geburstag!

L'oubiquo compie un anno. Non so dove abbia trovato il tempo. E allora, per festeggiare, faccio a mio modo gli auguri al mio blog. In fondo si tratta sempre di filologia ed edizioni... ed è divertente quasi nello stesso modo.... 

venerdì 2 settembre 2011

I tre giorni nella città di Alba - 2

Dopo un precedente post dedicato a Fenoglio e i suoi luoghi, tocca a Pavese; o, meglio, alla sua casa natale a Santo Stefano Belbo.




Non sono riuscito a fare molto altro, e anche alla casa ho avuto accesso – fuori orario – grazie alla cortesia personale dell’anzianissimo custode, e all’intercessione di due turisti francesi.


All’interno di questa casa, un po’ fuori dal paese, e ampiamente rimaneggiata, documenti vari, e fotografie, come questa – qui in pessima riproduzione – in compagnia di un ben più allegro e pulsante Vittorini.




Si distendono poi, come in ogni casa natale di autore, bacheche di libri:




dalle monografie specifiche (e qui occhieggia un libro che mi ha riavviluppato nella quotidianità);




alle varie edizioni e traduzioni: qui ad esempio Il mestiere di vivere in rumeno e olandese;




qui, d’accordo non lo so...




e qui, infine, dall’opera omnia in spagnolo, Il mestiere di vivere; Il mestiere di poeta; La bella estate; Dialoghi con Leucò.




Proprio nel frontespizio dei Dialoghi con Leucò, Pavese vergò il suo ultimo messaggio. “Perdono a tutti, e a tutti chiedo perdono. Così va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Come si trova traccia nel titolo dell’articolo del "Corriere della Sera" dedicato alla sua morte.




All’esterno, il busto di Pavese, con una frase estrapolata da Il cattivo meccanico.




E sul muro, una targa con una frase – tratta da “Il mestiere di vivere” – bellissima e dolorosa di impegno e solitudine.




Rimane il torrente, la rupe, l'orrore. Rimangono i sogni. Bellerofonte non può fare un passo senza urtare un cadavere, un odio, una pozza di sangue, dei tempi che tutto accadeva e non erano sogni. (La chimera, da Dialoghi con Leucò)


Il 9 settembre, è il compleanno di Cesare Pavese, e per l’occasione la Fondazione Cesare Pavese (http://www.fondazionecesarepavese.it/) organizza una “Passeggiata nei luoghi pavesiani”. Insomma, quanto di più pertinente a una rubrica intitolata "Passeggiate nelle città narrative".