Il sofista Gorgia compose un Encomio di Elena, la grande baldracca dell’epica greca; Sinesio di Cirene un encomio della calvizie. E nella cultura classica gli elogi paradossali erano uno degli esercizi retorici più comuni, l’incubo di qualsiasi ragazzino alle prime armi costretto ad arrampicarsi sugli specchi per lodare il deprecabile. Giochi un po’ fatui, sempre da condurre sul filo della citazione colta e del rigore argomentativo.
E poco più che questo, secondo Montaigne, sarebbe stato il Discorso sulla servitù volontaria di un sedicenne La Boétie, un esercizio scolastico, steso in pochissimi giorni, per tenere affilati penna e cervello. Di più, “un argomento volgare, fritto e rifritto mille volte nei libri”.
La casa editrice Chiarelettere è specializzata in tomoni di passione civile dalla grafica ben riconoscibile, dai mass-media asserviti alla metastasi della ‘ndrangheta al nord, alle molte miserie dell’Italia contemporanea. Con grafica ben diversa, di design ambizioso e più ardito, e formato minore, tre libretti: A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, di don Milani, Odio gli indifferenti, di A. Gramsci, e proprio il Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie.
Un libro misterioso e ambiguo quest’ultimo, e che pure ha segnato alcune delle pagine fondamentali della storia politica occidentale. Morto giovanissimo l’autore nel 1563 (di peste, nell’adempimento del dovere, si direbbe oggi), le sue opere erano destinate a essere pubblicate dall’amico carissimo Montaigne; così avviene per tutte – poca roba, in fondo – ma non per il Discorso, che, secondo le intenzioni dell’amico ed esecutore testamentario, doveva essere incorporato al centro di quel capolavoro della nostra cultura che sono i suoi meravigliosamente moderni Saggi. Così non sarà mai. Il Discorso infatti – con il più che significativo titolo Contr’un – era entrato nel circolo della ferocissima lotta politica francese tra cattolici e protestanti, per divenire una sorta di trattato “protestante” contro la monarchia, allora cattolica. Anzi, una legittimazione dell’assassinio del tiranno. Poi, va da sé, lo utilizzeranno i cattolici per legittimare l’assassinio di Enrico III, e poi di Enrico IV, quando il re sarà sentito come un “filo-protestante”. E di nuovo tornerà sullo scrittoio dei rivoluzionari del 1789, in primo luogo Marat. E ancora nel biennio rosso.
Insomma, un libricino da trattare con le molle, che regicidi e rivoluzionari avevano ben presente. Mica male per un compituzzo, banalotto per di più, “sfuggito di penna” a un ragazzino, per come la metteva Montaigne.
Montaigne voleva tenere lontano l’amico – colui senza il quale, dice nel saggio L’amicizia dedicatogli, la vita non era che “fumo”, che “una notte oscura e noiosa” – da il pericolo di una strumentalizzazione sanguinosa, nel periodo più violento della Francia; perché è vero che nel Discorso c’è qualcosa di scolastico, a volte persino di prevedibile, ma tutto si ricompone in un’analisi, questa sì innovativa, delle ragioni che spingono l’uomo, naturalmente libero, ad accettare la servitù. Un asservimento, una corruzione che nascono nella società, crogiuolo di cecità, conformismo, accettazione. Più che un invito alla rivolta, una scorata, quasi incredula, analisi della passività inerte dell’uomo, della sua disposizione ad accettare tutto, e ancora qualcosa in più. Perché pure, e mai era stato detto con tanta forza in precedenza, gli unici veri arcana imperii sono che qualsiasi potere esiste solo perché è accettato: siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi. E La Boétie parla di qualsiasi potere, monarchico o repubblicano, e persino buono o cattivo, qualsiasi potere che non sia quello in cui ciascuno sa che parteciperà in maniera eguale agli svantaggi della sconfitta o ai vantaggi della vittoria. L’essenza del potere è nell’orgoglio del servo: all’inizio l’uomo serve a malincuore ... quelli che vengono dopo, servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. È nella convenienza che si cova la servitù; nell’ignoranza e nell’incultura, che impediscono l’intelligenza di riconoscer se stessi; in una società senza morale in cui il potere stesso costruisce bordelli, taverne e sale da gioco in modo che gli uomini, invaghiti da tali passatempi, imparino a servire come i bambini imparano a leggere sulle immagini luccicanti dei libri miniati; nell’ottusità di una religione che tutto giustifica ed esalta. Ma soprattutto, in quei compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie che il tiranno raccoglie e alimenta, quegli uomini che gli hanno sacrificato devotamente tutto, e godono di quei privilegi che li sollevano su chi ha meno, e questi ultimi che godono di prevalere su chi ancora ha meno, e così via, al punto che quanti godono della servitù quasi equivalgono a quelli che preferirebbero la libertà. Libido serviendi, diceva Tacito, il “gusto di essere servi”. La Boétie arriva alla radice ultima psicologica della catena di abbrutimento e disprezzo che è lo scheletro su cui si regge la massa informe del potere.
E allora, in appendice, si trova benissimo il Saggio sull’arte di strisciare a uso dei cortigiani del barone d’Holbach. L’amara risata di rivalsa su quelle ombre che alimentano la nostra servitù.
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