Non c’è città in cui manchi il “Bar centrale”; né il “Al solito posto”, o il “Bar collo”. E certi bar, in fondo, sono tutti uguali. Quei bar arrampicati su per la stradina, dietro la svolta, in fondo all’ultima piazzetta, che devi conoscerli per andarci, l’ultima insenatura dove la marea deposita i detriti della vita. Lì si arenano i vecchi e le loro ombre di ricordi e rimorsi, i giovani che se li preparano, quelli che nemmeno ne hanno più. E un Joe’s Bar, c’è in ogni città anglosassone, e New York ha il suo. Il mondo dei fumetti, pure.
I due Nel bar, cinque storie ognuno che ruotano attorno al Joe’s Bar, sono tra le opere più belle di Muñoz e Sampayo, gli autori di Alack Sinner [1975], il detective hard boiled chandleriano doloroso e amaro di cui il Joe’s Bar è appunto uno spin-off (l’origine è nell’archetipico Conversando con Joe, dal profilo grafico non ancora definito). E una storia ambientata in un bar è forse quella più adatta allo stile grafico di Muñoz, quel chiaroscuro espressionistico così suo, dalle linee dure e grottesche; le scene ampie dagli spazi gremiti, e improvvisamente i primissimi piani fissi e allucinati, i protagonisti remoti sullo sfondo e il proscenio – in una selva di balloon – assiepato da comparse, ognuno un gretto dramma personale rinchiuso nello spazio ristretto di una vignetta.
E un bar è l’universo perfetto di Muñoz e Sampayo, là dove tutto scola e rifluisce, uomini resi deformi da un’autobiografia annientatrice o dalla lordura morale, grumi di storia personale devastata, mentre oscenità e violenza del grande palcoscenico universale riecheggiano attraverso le radio, le pagine di giornale che svolazzano sbattute dal vento, le spille politiche delle grandi campagne americane, le battute di un ubriaco. Il fumetto politico e d’autore per eccellenza trova questo doppio capolavoro, dove non ci sono disegni, ma incubi (e già nella prima tavola un anonimo avventore, dichiara I mostri di Grunewald sono contemporanei mentre quelli di Ensor raccontano il nostro passato remoto), volti che divengono maschere di solitudine e paura, vuoti che sono gli abissi della vita, pieni per la follia caotica del quotidiano, fondali che si fanno improvvisamente inferni di pece dove tutto sprofonda e resta solo la tenebra dell’inchiostro.
Dieci brevi storie che in parte si richiamano, si riecheggiano, fanno da fondale le une alle altre, e in cui affiorano micro-storie racconti nel racconto. Via via, lungo le pagine, incontriamo il giovane architetto indocumentado che attraversa strade in cui gli uomini sono ratti e incubi in cui le donne sono feroci poliziotte (Pepe l’architetto); il vecchio campione del mondo di pugilato, il “Matador ebreo” che perde ancora e perde tutto (Storie arrugginite); la donna che può solo fotografare la vita (Ella); la punizione di un tragico e fragile amore filiale (Quinta storia); l’apologo politico sulla ricerca di un’identità e un ruolo nella società (Tratti di Stevenson); il grande regista H.H. Kuntz (Herzog) che fonda “obiettività teatrale di Eisenstein” e “la spettacolarità di DeMille” per denunciare il neo-colonialismo europeo, sintetizzando la verità sulla pelle delle comparse indios bruciate vive (Tenochtitlan); un disegnatore vedovo e la vedova di un desaparecido che si incontrano (Disegnini); e l’ultimo piccolo capolavoro, quint’essenza grafica e costruttiva di Muñoz e Sampayo, frammenti di immagini, tra la vita e la paura, tra l’osteomielite e i fantocci della politica mondiale, senza storia e racconto, solo il bisogno della felicità (Il bar).
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