Manuele Fior, Rosso oltremare, Bologna – Milano – Parigi, Coconino Press, 2006, euro 16
Impossibile non essere attratti dalla tavola a piena pagina che apre Rosso oltremare, una barca da pescatore sulla riva, sotto un cielo sconfinato. Tutto è di un biancore abbacinante, il candore avvampante del mare greco, l’arsura purificata del tempo mitico. E tutto il graphic novel è in bicromia: il bianco accecante del sole, il rosso duro e disteso dei corpi e del mare, nei capitoli dedicati al mondo primigenio del mito antico di Dedalo e Icaro; e a questi si aggiunge come colore dominante il nero nei capitoli del mito moderno di Faust.
I sette capitoli del graphic novel si alternano infatti tra l’antico e il moderno, il Mediterraneo primitivo e una città europea scossa dalla pioggia, tutto nel segno del tentativo di superare i limiti dell’umano. Di fronte a Dedalo e Icaro, duro come un monito, come un incubo surrealista, si erge il cubo del labirinto, costruito dal grande architetto e inventore per relegarvi il minotauro, dividendo così l’ordine dal caos, l’uomo dal mostro;
e proprio nell’edificio – solido e pietroso archetipo dell’errare, dello smarrimento dell’uomo in se stesso – saranno rinchiusi Icaro e Dedalo a causa dell’uccisione del Minotauro. Perché il ferino non può essere ucciso senza precipitare in se stessi. Dal labirinto cercheranno la fuga in tavole meravigliose e metafisiche.
Quella stessa fuga, in silenzio tra le stanze vuote di un edificio che non è mai esistito, perso in un labirinto interiore e immateriale, cerca George Fausto, l’architetto alla ricerca della perfezione, della conoscenza, del mistero dello spazio, che tra le linee gracili della geometria intuisce per un breve istante le leggi della natura per poi precipitare in una vertigine prossima alla follia, alla confusione di sé.
L’angoscia e la prometeica bramosia di astrologi e alchimisti, navigatori e scienziati, cercatori di pietre filosofali, poeti e investigatori dell’occulto è la stessa di Dedalo e Fausto, inquieti e colpevoli. L’arsura della loro ricerca, in fragile equilibrio tra follia e ragione, nel timore del mostro annidato in noi, è il segno che unifica i due mondi e i diversi tempi del racconto, il fulcro di unico universo retto da Minosse-Mefistofele, “colui che cerca il male facendo il bene”. Anche qui, il filo della vita, la traccia che conduce a riemergere dal buio labirinto uterico, è una donna, Silvia, in grado di vivere insieme nel mito e nel reale, di riconoscere quell’unica faccia di chi ha cercato troppo, ritrovandola sul mare assolato della vita.
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