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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 25 dicembre 2011

Bosna, mon amour – 3. Versione Sretan Božić

Ci voleva un post natalizio, ed è una bellissima favola.

Proprio per Natale si è conclusa la TransuManza della Pace. Trentuno manze trentine, dopo le quarantotto dell’anno scorso, sono state consegnate a piccoli contadini di Srebrenica. Srebrenica èil buco nero d’Europa, e il memoriale di Srebrenica-Potočari per il genocidio (8372 cadaveri identificati) è il centro della cattiva coscienza di tutto l’Occidente.



In un’economia di sussistenza come quella di Srebrenica, con il 40% di disoccupazione, una mucca vuol dire latte e formaggio, e possibilità di scambiare prodotti con i vicini. E possibilità di ricominciare.

Che cosa c’entra la letteratura?

Ad esempio che la TransuManza è nata da un’idea di Roberta Biagiarelli, autrice di A come Srebrenica.

D’accordo, motivazione assolutamente pretestuosa. Però tutta la Bosnia è letteratura. Tutto quello che è successo è letteratura. E questo è un racconto bellissimo.

Sretan Božić!


Per saperne di più:




sabato 24 dicembre 2011

Ché troppo stanco sono e troppo stanca sei

Jon Fosse, Insonni [2007], Roma, Fandango, 2011

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

                                               Il campanile scocca
                                               lentamente le dieci.

Quando da ragazzino scoprii che quell’odiata filastrocca delle elementari era dell’amatissimo Gozzano, ebbi una mezza sincope. Anche se, in effetti, ero ormai in grado di comprendere quanto quella sensazione di facilità, di leggerezza, di “melologo popolare” fosse il risultato di una impressionante perizia metrico-prosodica.


E quella poesia mi è tornata in mente inesorabile già solo a vedere la copertina di questo libricino. Che mentre parla di cose tragiche, con il tipico accumulo di sfighe delle fiabe, delle fiabe conserva anche la leggerezza. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, il babbo di uno morto in mare, il babbo dell’altra scappato lontano, la mamma di uno morta di dolore, la mamma dell’altra con i tutti i tratti della matrigna cattiva che privilegia l’altra sorella, quella bionda e bella, rispetto a lei, che è nera e brutta come suo padre. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, che scappano di casa, e vagano per la notte per le strade di Bergen, un violino sulle spalle, poche cose da salvare. Asle e Aida, diciassette anni entrambi, che cercano un riparo, mentre piove e tira vento e l’inverno si fa rigido, da tutti rifiutati. Aida che presto, molto presto, partorirà, e porta in giro il segno dello scandalo per quelle strade fredde e umide. Quel figlio concepito il giorno che Asle si era svegliato orfano, e aveva solo Alida, e Alida aveva solo Asle.

Tutto il racconto, un racconto lungo (che solo i caratteri di grande dimensione riescono a portare alle 70 pagine necessarie per farne un volumetto autonomo), si svolge nell’arco di poche ore. Poche ore che si dilatano fino all’infanzia ormai lontana attraverso l’analessi del sogno e del ricordo. Una prosa continua e ininterrotta, senza punti per pagine, riproduce il trascorrere dei pensieri, incorporando dialoghi e impressioni, in un linguaggio di un narratore esterno basso che riproduce il linguaggio semplice di due ragazzini incerti di speranze e di paure (... poi Asle scioglie gli ormeggi e rema un pezzo e dice che il tempo è buono, la luna brilla, le stelle luccicano chiare, è una notte fredda e nitida, e c’è il vento propizio per navigare verso sud, dice lui, quindi adesso possono dirigersi verso Bjørgvin e va bene così, duce lui, e Alida non vuole domandargli se sa dove dirigere la rotta ...); poi, improvvisamente, una serie di a capo irrazionali, come fossero versi e emistichi.

Ma tu hai me, gli dice Alida
         E tu hai me, le dice Asle
        e allora Asle si mette a sventolare la mano avanti e indietro come in un cenno di saluti
        Saluti i tuoi genitori, chiede Alida
        Sì, la loro presenza qui, fa lui
        e Asle abbassa la mano e la appoggia su Alida per accarezzarle la guancia poi mette la mano nella sua e restano così
        T’immagini, dice Alida
        e si appoggia l’altra mano sulla pancia
        Già, pensa, dice Asle
       e allora si sorridono e s’incamminano, mano nella mano, giù lungo il Pendio e poi Alida vede che Asle è davanti a lei in solaio e ha i capelli bagnati e c’è come del dolore sul suo volto e ha un’aria stanca e smarrita
       Dove sei stato, chiede Alida
       No, niente, dice Asle
       Ma sei così bagnato e infreddolito, fa lei
       e gli dice di venire a sdraiarsi ora ma lui resta lì dov’è

Una scelta grafica e mimetica che è forma dell’emozione e dei ricordi e dei presentimenti che si infiltrano negli attimi. In cui un ricordo si insinua nel sogno. Come il bellissimo addio monti.

... e la barca comincia a scivolare via da Dylgija e Alida si volta a guardare, tanto è luminosa quella notte di tardo autunno, la casa là sul Pendio, e la casa ha un’aria così sinistra, e vede la Cima dove lei e Asle avevano preso l’abitudine di trovarsi e dove è rimasta incinta, dove ha cominciato a esistere il bimbo che presto partorirà, è il suo posto quello, è casa sua e Alida guarda la Capanna dove lei e Asle hanno vissuto per qualche mese e poi la barca oltrepassa quella striscia di terra e lei vede montagne, isole e isolotti mentre la barca veleggia piano sul mare. ... così resta sdraiata ad ascoltare il mare sbattere contro la barca e sprofonda in quel dondolio leggero e si sente bene lì accoccolata al tepore, in quella sera fredda, e guarda su le stelle limpide e la luna che illumina tutt’intorno.
Adesso comincia la vita, dice
Adesso veleggeremo dentro la nostra vita



E la vita verso cui veleggiano è una vita di adulti anonimi, l’uomo con la barba, la levatrice, la madrina. E che vadano a cercare una stanza in affitto nel paese da dove vengono, non qui a Bjørgvin, qui non c’è nessun bisogno di gente in più. Asle a Alida attraversano tutto questo sognando, sogno dopo sogno ricostruendo la propria vita, il proprio dolore e la propria speranza, sogno che cede a sogno, e a volte – nelle forme narrative di questa novella, dove tutto ha la malinconia delle nebbie dei fiordi norvegesi – non si capisce che cosa sia sogno e cosa realtà. Questa favola dolorosamente lieve, favola di amore e speranza, si chiude nella gioia.

Il campanile scocca / La Mezzanotte Santa.

Eppure anche in questa fiaba c’è ombra; l’ombra di un’immagine che Alida vede per l’ultima volta attraverso una porta. E di cui non osa più parlare.


Domanda per il traduttore e, ancor più, l’editor: perché cavolo avete scelto di mantenere la forma Bjørgvin anziché adottare la forma invalsa Bergen? Per coerenza, quindi, i vostri romanzi si svolgono a London, Paris, Athína, Beijīng, al-Qāhira?

mercoledì 21 dicembre 2011

Di uomini e di fiamme

Il vento, da forte era divenuto più leggero, e fu sventura, perché forte avrebbe forse spento le scintille, leggero le trasportava eccitandole, e con loro faceva volteggiare nell’aria brandelli di pergamena, resi esili da una interna face. A quel punto si udì uno schianto: il pavimento del labirinto aveva ceduto in qualche punto precipitando le sue travi infuocate al piano inferiore, perché ora vidi lingue di fiamma alzarsi dallo scriptorium, anch’esso popolato di libri e di armadi, e di carte sciolte, distese sui tavoli, pronte alla sollecitazione delle scintille. Udii delle grida di disperazione provenire da un gruppo di scrivani che si mettevano le mani nei capelli e ancora divisavano di salire eroicamente, per ricuperare le loro pergamene amatissime. Invano, ché la cucina e il refettorio erano ormai un incrocio di anime perdute agitantesi in tutte le direzioni, dove ciascuno ostacolava gli altri.

E come l’angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi esausto allo stipite della porta: “È impossibile, non ce la faremo mai, neppure con tutti i monaci dell’abbazia. La biblioteca è perduta.” Diversamente dall’angelo, Guglielmo piangeva. (U. Eco, Il nome della rosa)


Nella notte del 17 dicembre, brucia, in seguito agli scontri, la biblioteca dell’Accademia scientifica d’Egitto al Cairo. Nelle immagini, purtroppo solo in arabo, il tentativo degli studenti e dei dimostranti di salvare parte del patrimonio librario.


Eppure mi è sembrato di vedere un ES

Georges Perec, La bottega oscura [1973], Macerata, Quodlibet, 2011

La scrittura del sogno è uno dei territori più ambiziosi per un narratore; e, da Omero in poi, nel sogno si cristallizzano le forme più ardite della narrativa. Più o meno. E lì si sedimenta e prende forma l’ambiguo e mutevole rapporto di ogni cultura con il reale e l’immaginario.

Ed ecco che a uno dei più geniali e sperimentali autori del secondo Novecento europeo dobbiamo questo piccolo affascinante e singolare capolavoro, pubblicato per l’Italia nel marzo 2011 dal piccolo e curiosissimo editore marchigiano Quodlibet. Perec raccoglie 124 sogni, sognati tra il maggio 1968 e l’agosto 1972. Con estensioni che vanno dal frammento minimo e sfuggente, poco più che impressioni del risveglio, a quasi piccoli racconti surrealisti.


In epigrafe, la citazione di un tanka del monaco giapponese Saygiō (XII secolo): poiché io penso / che il reale / non sia per nulla reale / come potrei credere / che i sogni siano sogni. Nella coltissima epigrafe, debitrice alle traduzioni dell’amico J. Roubaud, c’è già il nodo più stretto di questa opera anomala e affascinante. Credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni. Quanto la dimensione onirica viene piegata all’esigenza stessa di narrazione di sé che ogni uomo ha? Il titolo stesso, La bottega oscura, è un sorprendente addensamento di sensi: officina nascosta dell’artista? materiali della costruzione del sé?

E questi materiali ripercorrono la vita di Perec, e l’analisi a cui si sottopose più volte. L’olocausto e la guerra, l’ombra dei genitori, una scomparsa ad Auschwitz e l’altro morto da volontario durante l’invasione tedesca, e il senso di abbandono, il matrimonio, la sofferta storia d’amore con Suzanne Lipinska, gli amici, il cinema e il teatro (con continue trasposizioni teatrali della propria vita, o forse è la drammatizzazione del sogno individuata da Freud?), le sfide letterarie, le parole crociate come forma della scrittura combinatoria e della vita, le case abitate e abbandonate. E infatti il libro, alla fine, è corredato da un indice d’autore per argomenti notabili; forma più banalmente comune, quest’ultima, del molto più polisemico “Riscontri e ripari” scelto dall’autore (repéres et repaires, ossia contrassegni e rifugi); una sorta di medievale “chiave dei sogni” à la Freud, anche (o se vogliamo), come un elenco alfabetico di oggetti onirici trasmutabili per tutte guise: spostamento, condensazione, simbolizzazione, elaborazione, dispersione.

E, ovunque, gatti. Che sporcano, insozzano, sbucano da tutte le parti, s’infiltrano sotto la porta, molti più di quanti si immaginasse. Perché dove c’è chat c’è le ça, in francese l’Es. Avevo ben detto che non avrei mai avuto gatti qui! dice al sogno 24; e forse invece c’è scritto Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui. Anzi, no, c’è scritto proprio "anche" Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui.

L’ermetismo magico di Perec, la sua inventività creativa, si rivelano infatti anche nella scelta di adottare soluzioni grafiche particolari per riprodurre i meccanismi, le dinamiche e il linguaggi del sogno. La più evidente è proprio la scelta di scrivere una frase che è più frasi: ad esempio, oltre alla frase sul gatto/inconscio, ritroviamo una altura abbastanza forte che però, grazie a un sistema di semi-lettere scalate, è anche una fessura abbastanza porta (nell’originale rispettivamente une pente assez forte e une fente assez porte), e che in alcuni casi potrebbe portare persino a combinazioni vertiginose. Vaghezza del ricordo del sogno? Condensazione freudiana? Proto-interpretazione del sogno?

D’altronde, la dimensione narrativa cosciente affiora nella stessa macrostruttura, aperta e chiusa da un sogno sull’olocausto. In una sorta di romanzo onirico del rimosso si snoda un percorso di tracce sfuggenti, cancellate e modellate dal sonno, che solo le sessanta ponderose e ricchissime pagine (a volte, per la verità, un po’ fastidiosamente ridondanti) del commento di Ferdinando Amigoni aiutano a decriptare. Come un trattato di oneirocritica nel labirinto dei s[e/o]gni.


E chi sa se David B. aveva in mente questo grande modello quando disegnò il suo Cavallo pallido.

venerdì 16 dicembre 2011

Lettera da un carcere di là dal mare qui va fleurant la menthe et le thym

Mia compagna,
mia amica,
mia metà,
mio tutto,
mio amore,
la madre di mio figlio,
il mio sostegno nella vita,

mi manchi. Ti amo.

L’unica ragione per cui posso sopportare di essere separato da te è il tuo sostegno. Ho appena ricevuto le fotografie: sono confuso su quello che provo, ma soprattutto sono felice.

È talmente ingiusto che io non possa essere con te a confortarti, è così ingiusto che io stia aspettando che tu ti riprenda e stia bene per tornare tu a confortare me, ed è oltre, oltre ogni ingiusto, che io non possa tenere in braccio Khaled, nostro figlio, per ore nello stesso modo in cui ho tenuto in braccio infiniti altri bambini. Ho dato tanto amore e attenzione ai figli e alle figlie degli amici e dei parenti, eppure non posso fare lo stesso con il mio stesso figlio.

Mi chiedo quanto sarà grande Khaled quando finalmente uscirò da qui e che cos’altro mi perderò. Mi perderò la prima volta che afferra le tue dita, il momento in cui capiremo che sta concentrando il suo sguardo su di te, o sarà ancora peggio, e mi perderò il suo primo sorriso.

Qual è la sensazione che provi a tenerlo in braccio? Di che cosa sa il suo profumo? E com’è il suo pianto? Mio figlio, nostro figlio, il nostro piccolo Khaled.

Ho mostrato le sue fotografie a tutti quelli che sono in cella con me: sono genuinamente felici per me, ma, come tutte le cose in questa cella, tutto è molto temperato, mi fa sentire ancora più solo. Ho pensato molto alla nostra vita in Sud-Africa, alla gioia di essere semplicemente insieme con una vita abbastanza facile, riuscendo comunque a fare un buon lavoro. Commentavamo spesso il fatto che i giovani Egiziani aspirassero soltanto ad avere una casa, una famiglia, un lavoro che li sostenesse. Viene fuori che come al solito che il giorno in cui potremo goderci il fatto di essere soltanto una famiglia in Egitto, sicuri del nostro futuro, soddisfatti nei nostro piccolo benessere, e soddisfatti dei nostri mestieri, sarà soltanto il giorno in cui la rivoluzione sarà completata. Fino ad allora dovremo quindi continuare ad arrangiarci, affrontando ciò che la vita ci getta davanti, sapendo che almeno finché siamo una cosa sola tutto va bene.

Mi manchi così tanto che fa male e credo che tu conosca la sensazione. Sono sopraffatto da quanto sia tutto ingiusto, e da quanto senza significato sia diventato tutto quanto a questo punto.

Ma io so che siamo entrambi in buone mani e che Khaled è benedetto dall’amore incondizionato non soltanto dei suoi genitori, ma di una larga famiglia allargata e centinaia di zii e di zie che non conosce. E spero che cresca e apprezzi tutto questo.

Alaa, 6 dicembre 2011,
dalla cella numero 6 della prigione di Torah.

Alaa Abd El Fatah, 30 anni, blogger egiziano per i diritti civili e attivista per la democrazia. Già arrestato nel 2006, in esilio in Sud-Africa, è tornato in Egitto durante la Primavera araba. Mentre si trovava negli Stati Uniti, è stato emesso in Egitto un mandato di arresto contro di lui per incitazione alla violenza durante gli scontri del 9 ottobre 2011, quando le forze dell’esercito attaccarono una manifestazione di Copti provocando 27 morti e oltre 200 feriti. Alaa Abd El Fatah, che in quell’occasione aveva documentato le violenze dell’esercito e, in quanto musulmano, si era prestato a fare da testimone esterno, scelse di rientrare volontariamente in patria per rispondere alle accuse.

In carcere dal 31 ottobre, è tuttora in attesa di giudizio. Nel frattempo è nato suo figlio, Khaled.

Certo non è letteratura.
D’altronde, quanto sia poroso il concetto di letteratura, quanto il canone letterario muti, si ampli, e si restringa, si sa. E pochi forse espungerebbero dal canone letterario le Lettere di condannati a morte della resistenza. E si sa quanto persino nelle forme più basse della comunicazione si riassorbano e riadattino, e riattualizzino, modelli letterari alti.
Poco importa, comunque.
Letteratura non è mai solo letteratura, anche quando non ambisca a essere la bonne aventure  éparse au vent crispé du matin, perché è tutto il resto a essere solo letteratura. 



venerdì 9 dicembre 2011

Era una vita buia e tempestosa

Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari, Torino, Einaudi, 2011

In uno dei più bei racconti italiani contemporanei, il narratore, ricercando tra otto amatissimi il grande autore d’avventure di mare, comincia, uno dopo l’altro, a stringere il cerchio. A ogni esclusione, i rimasti pronunciano sul partente ognuno una laconica sentenza, più o meno sferzante, che vale un’estetica. Non così accade all'addio del terzo tra loro.

Perché la sua infinita generosità non meritava che né io né altri giudicassimo i suoi libri, i suoi cento libri scritti tutti con la stessa cannuccia tenuta insieme da un filo di cotone. E infatti Poe rimase in silenzio con gli occhi bassi, e Melville spezzò la sua penna, e Stevenson venne con un ramoscello di erica in fiore, e Conrad portò un’alta onorificenza della Marina inglese, e London si levò il berretto e lo gettò in mare. E dietro di loro comparve un altro gruppo di persone, e con un brivido che era insieme di gioia e di pena riconobbi Sandokan, la Tigre della Malesia; e Yanez de Gomera, il portoghese; e Kammamuri e Tremal-Naik; e il Conte di Ventimiglia detto il Corsaro Nero; e Wan Guld, il fiammingo; e una delegazione di filibustieri della Tortuga; e ad una voce dissero: noi andiamo con lui, e io lo pensai in quel bosco alle porte di Torino, tutto solo con un rasoio in mano, e l’universo non mi sembrò mai così orrendo.

Questo è un romanzo per maschi. Per coloro che hanno passato infanzia e prima adolescenza a sentirsi frustare il vento sulla faccia sulla prora di un praho, o a immaginarsi come Sandokan ritti sulla scogliera, le braccia conserte, gli occhi di acciaio, l’inferno nel cuore e l’urlo dell’uragano attorno; e poi cresciuti – quando a quei libri si tornava quasi imbarazzati scrutandosi attorno e scostando un vocabolario di greco, quando ormai già si sapeva – hanno riletto con disagio, e con crescente senso di colpa per quella disperazione che aveva lenito la loro.

Il libro si apre il 25 aprile 1911, il giorno in cui tutto si conclude nel bosco della Val San Martino. Da lì il romanzo si snoda su due percorsi paralleli.

Il primo articolato su alcuni capitoli con narratore esterno, ognuno dedicato a episodi fondamentali della vita di Salgari, dal famoso unico viaggio per mare all’innamoramento per la cugina Ada poi trasposta nell’eroina vittima delle torve trame di Suyodhana; dal corteggiamento di Ida ai primi anni oscuri nei giornali; dal cavalierato concesso dalla Regina ai continui traslochi; dal sofferto rapporto con gli editori ai segni del declino; dalla depressione senile alla morte di un mondo antico di eroi suicidi sostituito dalla Nuova Italia dell’automobile, dell’Esposizione Universale, della volgarità furbetta dei pubblicitari e dei palazzinari, fino alla chiusura in manicomio della moglie.

Il secondo costituito da frammenti documentari come se fosse un’inchiesta, un moderno reportage giornalistico, a coprire gli ultimi due anni di vita del romanziere, collazionando le voci dei testimoni, dai figli Fathima e Omar e Nadir, al giornalista Casulli che lo intervistò nel 1909, alle lettere della moglie, al dottore, al direttore del manicomio. Tra questi un particolare ruolo hanno gli stralci dai quaderni di Angiolina, che costituiscono una sorta di romanzo nel romanzo in forma diaristica, esteso lungo tutto l’arco dell’opera.

Angiolina, l’unico personaggio di fantasia, è una lettrice salgariana ormai cresciuta che si affianca al vecchio e ormai stanco romanziere alla ricerca della vera identità di colui che, con le sue pagine, aveva spinto i ragazzini di tutta Italia a sognare di prendere e partire e perdersi in qualche giungla, in qualche oceano. Angiolina diventa una sorta di ghost-writer di Salgari, ma soprattutto l’indagatrice delle ombre di quell’uomo dalla vita misteriosa, che ha viaggiato in tutto il mondo e forse non è mai stato da nessuna parte, che ha trattato da pari con ribelli e maraja e vive tra facchini e lavandaie. Angiolina diventa progressivamente, forse troppo chiaramente, sempre più la proiezione dell’autore: il suo tentativo di comprendere la storia dell’uomo che ha di fronte, però non è solo la ricerca di Ferrero stesso, ma anche – soprattutto, persino – quella della narratrice del personaggio-uomo Salgari, della narratrice di fronte al proprio personaggio che, una volta definito nel fondo della sua personalità, dovrà essere portato alle estreme conseguenze della sua identità e della sua storia, e dovrà essere abbandonato (p. 129).

Mi è sempre sembrata la casa di un uomo solo, che si stordisce con il trovarobato di cui si circonda. Di un uomo disperato. Questo Sandokan è uno che non sta bene da nessuna parte. Chissà se è quello che accade anche al capitano.

A poco a poco nella figura di Salgari riaffiora quella di Sandokan, e di quei suoi personaggi che costeggiavano la morte per sentirsi vivi, che costeggiavano la vita per meglio sprofondare nel Nulla. Le sue fughe da una realtà sempre troppo asfittica e miserevole, verso un mondo dove si possa essere qualcosa, qualcosa di diverso, dove parole magiche come baniàn, mamplàm, paletuvieri, duriòn possano cancellare la fatica, l’umiliazione, il dolore.

E intanto, prosegue la lotta feroce di Sandokan-Salgari, in una vita segnata dall’odio; e l’odio di Salgari è per quel nemico chiuso nell’anima e che si fa strada sempre più, è l’odio per se stesso, per la propria tragedia.
Si è spolpato da solo. Si è lasciato spolpare peggio di un montone.

Questo è un romanzo facile e leggero. Non molto di più, ad onta della fascetta Premio Campiello. Selezione giura dei letterati. XLIX edizione.

Per chi bambino – nel breve giro di luce della lampada del comodino – ha sentito al collo la fascia di seta dei thugs, ha difeso un impero asserragliato su una collina dell’Assam, ha braccato il suo nemico fin nella Delhi assediata e prossima al massacro del 1857, è un libro che trova spazio nello scaffale dei dolori e delle insofferenze dell’infanzia.


Alcune note
Il passo citato in apertura è tratto da M. Mari, Otto scrittori in Tu, sanguinosa infanzia.
La “Rivista di Letteratura italiana” ha dedicato monograficamente il numero XXIX, 2-2, 2011 alla figura di Emilio Salgari nel centenario del suicidio.
Riporto qui, per particolare interesse, due soli link: 
Emilio Salgari: uno speciale per i 100 anni della morte dell'autore di Sandokan (all'inizio c'è un'intervista proprio con Ferrero).
L'ultima avventura di Salgari (un filmato di animazione) 

mercoledì 7 dicembre 2011

sabato 3 dicembre 2011

Il miglior anticoncezionale del mondo


Me l'ero perso... 
Raramente sono riuscito a trovare espressa con la stessa chiarezza l'idea che la cultura sia una funzione fondamentale del benessere economico e della civiltà di una nazione.


La biblioteca inutile

Sono passati pochi decenni dalla nascita del libro. E con il libro nasce la raccolta compulsiva di libri. Nasce la volgarità di un'editoria seriale, di un pubblico di massa. E nel 1550 Ortensio Lando, recuperando le critiche di Platone alla cultura scritta, quello stesso Platone che è il primo autore flagellato dalla sua Sferza, compone una paradossale invettiva sull'inutilità dei libri. Un'acre, e ambigua, polemica sullo stesso profilo dell'intellettuale nella nuova società culturale.


Tempo mi pare ormai, Signor Toso, d'ammonirvi nel vostro errore, poi che altro non fate né ad altro pensate giamai, che ad accozzar libri, et hor questo hor quello, senza risparmiar fatica, sossopra rivolgere. Credetelo a me che la molta copia de' libri confonde l'ingegno et indebolisce la memoria, non che l'aiti come altri pensa, o ver sollevi. Certo, se la moltitudine de' libri ci facesse doventare et più dotti et più facondi, non vi sarebbe stato per alcun tempo né il più dotto né il più facondo di Triphone librario o di Tirannione grammatico, che a' tempi di Pompeio il Magno n'hebbe più di tre mila volumi, o per meglio dire di Gordiano imperadore, di cui si legge ch'egli n'avesse più di sessanta mila- Ma che pensiero finalmente è il vostro? Volete per aventura empir tutta la casa de' libri? Hormai altro non ci si vede et tutte le pareti, non sol dello studio vostro, ma della sala altresì et della più interna camera, de' vari autori coperte si veggioni. Dovunque mi rivolgo, ne trovo in ogni lingua scritti, et a qualunque professione appartenenti, et non ve nìè però alcuno in cui non sieno mille diffetti. (Ortensio Lando, LA sferza de' scrittori antichi et moderni [1550], a cura di P. Procaccioli, Roma, Vignola, 1995)