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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

mercoledì 21 dicembre 2011

Eppure mi è sembrato di vedere un ES

Georges Perec, La bottega oscura [1973], Macerata, Quodlibet, 2011

La scrittura del sogno è uno dei territori più ambiziosi per un narratore; e, da Omero in poi, nel sogno si cristallizzano le forme più ardite della narrativa. Più o meno. E lì si sedimenta e prende forma l’ambiguo e mutevole rapporto di ogni cultura con il reale e l’immaginario.

Ed ecco che a uno dei più geniali e sperimentali autori del secondo Novecento europeo dobbiamo questo piccolo affascinante e singolare capolavoro, pubblicato per l’Italia nel marzo 2011 dal piccolo e curiosissimo editore marchigiano Quodlibet. Perec raccoglie 124 sogni, sognati tra il maggio 1968 e l’agosto 1972. Con estensioni che vanno dal frammento minimo e sfuggente, poco più che impressioni del risveglio, a quasi piccoli racconti surrealisti.


In epigrafe, la citazione di un tanka del monaco giapponese Saygiō (XII secolo): poiché io penso / che il reale / non sia per nulla reale / come potrei credere / che i sogni siano sogni. Nella coltissima epigrafe, debitrice alle traduzioni dell’amico J. Roubaud, c’è già il nodo più stretto di questa opera anomala e affascinante. Credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni. Quanto la dimensione onirica viene piegata all’esigenza stessa di narrazione di sé che ogni uomo ha? Il titolo stesso, La bottega oscura, è un sorprendente addensamento di sensi: officina nascosta dell’artista? materiali della costruzione del sé?

E questi materiali ripercorrono la vita di Perec, e l’analisi a cui si sottopose più volte. L’olocausto e la guerra, l’ombra dei genitori, una scomparsa ad Auschwitz e l’altro morto da volontario durante l’invasione tedesca, e il senso di abbandono, il matrimonio, la sofferta storia d’amore con Suzanne Lipinska, gli amici, il cinema e il teatro (con continue trasposizioni teatrali della propria vita, o forse è la drammatizzazione del sogno individuata da Freud?), le sfide letterarie, le parole crociate come forma della scrittura combinatoria e della vita, le case abitate e abbandonate. E infatti il libro, alla fine, è corredato da un indice d’autore per argomenti notabili; forma più banalmente comune, quest’ultima, del molto più polisemico “Riscontri e ripari” scelto dall’autore (repéres et repaires, ossia contrassegni e rifugi); una sorta di medievale “chiave dei sogni” à la Freud, anche (o se vogliamo), come un elenco alfabetico di oggetti onirici trasmutabili per tutte guise: spostamento, condensazione, simbolizzazione, elaborazione, dispersione.

E, ovunque, gatti. Che sporcano, insozzano, sbucano da tutte le parti, s’infiltrano sotto la porta, molti più di quanti si immaginasse. Perché dove c’è chat c’è le ça, in francese l’Es. Avevo ben detto che non avrei mai avuto gatti qui! dice al sogno 24; e forse invece c’è scritto Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui. Anzi, no, c’è scritto proprio "anche" Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui.

L’ermetismo magico di Perec, la sua inventività creativa, si rivelano infatti anche nella scelta di adottare soluzioni grafiche particolari per riprodurre i meccanismi, le dinamiche e il linguaggi del sogno. La più evidente è proprio la scelta di scrivere una frase che è più frasi: ad esempio, oltre alla frase sul gatto/inconscio, ritroviamo una altura abbastanza forte che però, grazie a un sistema di semi-lettere scalate, è anche una fessura abbastanza porta (nell’originale rispettivamente une pente assez forte e une fente assez porte), e che in alcuni casi potrebbe portare persino a combinazioni vertiginose. Vaghezza del ricordo del sogno? Condensazione freudiana? Proto-interpretazione del sogno?

D’altronde, la dimensione narrativa cosciente affiora nella stessa macrostruttura, aperta e chiusa da un sogno sull’olocausto. In una sorta di romanzo onirico del rimosso si snoda un percorso di tracce sfuggenti, cancellate e modellate dal sonno, che solo le sessanta ponderose e ricchissime pagine (a volte, per la verità, un po’ fastidiosamente ridondanti) del commento di Ferdinando Amigoni aiutano a decriptare. Come un trattato di oneirocritica nel labirinto dei s[e/o]gni.


E chi sa se David B. aveva in mente questo grande modello quando disegnò il suo Cavallo pallido.

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