Su questo Blog

Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

venerdì 9 dicembre 2011

Era una vita buia e tempestosa

Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari, Torino, Einaudi, 2011

In uno dei più bei racconti italiani contemporanei, il narratore, ricercando tra otto amatissimi il grande autore d’avventure di mare, comincia, uno dopo l’altro, a stringere il cerchio. A ogni esclusione, i rimasti pronunciano sul partente ognuno una laconica sentenza, più o meno sferzante, che vale un’estetica. Non così accade all'addio del terzo tra loro.

Perché la sua infinita generosità non meritava che né io né altri giudicassimo i suoi libri, i suoi cento libri scritti tutti con la stessa cannuccia tenuta insieme da un filo di cotone. E infatti Poe rimase in silenzio con gli occhi bassi, e Melville spezzò la sua penna, e Stevenson venne con un ramoscello di erica in fiore, e Conrad portò un’alta onorificenza della Marina inglese, e London si levò il berretto e lo gettò in mare. E dietro di loro comparve un altro gruppo di persone, e con un brivido che era insieme di gioia e di pena riconobbi Sandokan, la Tigre della Malesia; e Yanez de Gomera, il portoghese; e Kammamuri e Tremal-Naik; e il Conte di Ventimiglia detto il Corsaro Nero; e Wan Guld, il fiammingo; e una delegazione di filibustieri della Tortuga; e ad una voce dissero: noi andiamo con lui, e io lo pensai in quel bosco alle porte di Torino, tutto solo con un rasoio in mano, e l’universo non mi sembrò mai così orrendo.

Questo è un romanzo per maschi. Per coloro che hanno passato infanzia e prima adolescenza a sentirsi frustare il vento sulla faccia sulla prora di un praho, o a immaginarsi come Sandokan ritti sulla scogliera, le braccia conserte, gli occhi di acciaio, l’inferno nel cuore e l’urlo dell’uragano attorno; e poi cresciuti – quando a quei libri si tornava quasi imbarazzati scrutandosi attorno e scostando un vocabolario di greco, quando ormai già si sapeva – hanno riletto con disagio, e con crescente senso di colpa per quella disperazione che aveva lenito la loro.

Il libro si apre il 25 aprile 1911, il giorno in cui tutto si conclude nel bosco della Val San Martino. Da lì il romanzo si snoda su due percorsi paralleli.

Il primo articolato su alcuni capitoli con narratore esterno, ognuno dedicato a episodi fondamentali della vita di Salgari, dal famoso unico viaggio per mare all’innamoramento per la cugina Ada poi trasposta nell’eroina vittima delle torve trame di Suyodhana; dal corteggiamento di Ida ai primi anni oscuri nei giornali; dal cavalierato concesso dalla Regina ai continui traslochi; dal sofferto rapporto con gli editori ai segni del declino; dalla depressione senile alla morte di un mondo antico di eroi suicidi sostituito dalla Nuova Italia dell’automobile, dell’Esposizione Universale, della volgarità furbetta dei pubblicitari e dei palazzinari, fino alla chiusura in manicomio della moglie.

Il secondo costituito da frammenti documentari come se fosse un’inchiesta, un moderno reportage giornalistico, a coprire gli ultimi due anni di vita del romanziere, collazionando le voci dei testimoni, dai figli Fathima e Omar e Nadir, al giornalista Casulli che lo intervistò nel 1909, alle lettere della moglie, al dottore, al direttore del manicomio. Tra questi un particolare ruolo hanno gli stralci dai quaderni di Angiolina, che costituiscono una sorta di romanzo nel romanzo in forma diaristica, esteso lungo tutto l’arco dell’opera.

Angiolina, l’unico personaggio di fantasia, è una lettrice salgariana ormai cresciuta che si affianca al vecchio e ormai stanco romanziere alla ricerca della vera identità di colui che, con le sue pagine, aveva spinto i ragazzini di tutta Italia a sognare di prendere e partire e perdersi in qualche giungla, in qualche oceano. Angiolina diventa una sorta di ghost-writer di Salgari, ma soprattutto l’indagatrice delle ombre di quell’uomo dalla vita misteriosa, che ha viaggiato in tutto il mondo e forse non è mai stato da nessuna parte, che ha trattato da pari con ribelli e maraja e vive tra facchini e lavandaie. Angiolina diventa progressivamente, forse troppo chiaramente, sempre più la proiezione dell’autore: il suo tentativo di comprendere la storia dell’uomo che ha di fronte, però non è solo la ricerca di Ferrero stesso, ma anche – soprattutto, persino – quella della narratrice del personaggio-uomo Salgari, della narratrice di fronte al proprio personaggio che, una volta definito nel fondo della sua personalità, dovrà essere portato alle estreme conseguenze della sua identità e della sua storia, e dovrà essere abbandonato (p. 129).

Mi è sempre sembrata la casa di un uomo solo, che si stordisce con il trovarobato di cui si circonda. Di un uomo disperato. Questo Sandokan è uno che non sta bene da nessuna parte. Chissà se è quello che accade anche al capitano.

A poco a poco nella figura di Salgari riaffiora quella di Sandokan, e di quei suoi personaggi che costeggiavano la morte per sentirsi vivi, che costeggiavano la vita per meglio sprofondare nel Nulla. Le sue fughe da una realtà sempre troppo asfittica e miserevole, verso un mondo dove si possa essere qualcosa, qualcosa di diverso, dove parole magiche come baniàn, mamplàm, paletuvieri, duriòn possano cancellare la fatica, l’umiliazione, il dolore.

E intanto, prosegue la lotta feroce di Sandokan-Salgari, in una vita segnata dall’odio; e l’odio di Salgari è per quel nemico chiuso nell’anima e che si fa strada sempre più, è l’odio per se stesso, per la propria tragedia.
Si è spolpato da solo. Si è lasciato spolpare peggio di un montone.

Questo è un romanzo facile e leggero. Non molto di più, ad onta della fascetta Premio Campiello. Selezione giura dei letterati. XLIX edizione.

Per chi bambino – nel breve giro di luce della lampada del comodino – ha sentito al collo la fascia di seta dei thugs, ha difeso un impero asserragliato su una collina dell’Assam, ha braccato il suo nemico fin nella Delhi assediata e prossima al massacro del 1857, è un libro che trova spazio nello scaffale dei dolori e delle insofferenze dell’infanzia.


Alcune note
Il passo citato in apertura è tratto da M. Mari, Otto scrittori in Tu, sanguinosa infanzia.
La “Rivista di Letteratura italiana” ha dedicato monograficamente il numero XXIX, 2-2, 2011 alla figura di Emilio Salgari nel centenario del suicidio.
Riporto qui, per particolare interesse, due soli link: 
Emilio Salgari: uno speciale per i 100 anni della morte dell'autore di Sandokan (all'inizio c'è un'intervista proprio con Ferrero).
L'ultima avventura di Salgari (un filmato di animazione) 

Nessun commento:

Posta un commento