Mia compagna,
mia amica,
mia metà,
mio tutto,
mio amore,
la madre di mio figlio,
il mio sostegno nella vita,
mi manchi. Ti amo.
L’unica ragione per cui posso sopportare di essere separato da te è il tuo sostegno. Ho appena ricevuto le fotografie: sono confuso su quello che provo, ma soprattutto sono felice.
È talmente ingiusto che io non possa essere con te a confortarti, è così ingiusto che io stia aspettando che tu ti riprenda e stia bene per tornare tu a confortare me, ed è oltre, oltre ogni ingiusto, che io non possa tenere in braccio Khaled, nostro figlio, per ore nello stesso modo in cui ho tenuto in braccio infiniti altri bambini. Ho dato tanto amore e attenzione ai figli e alle figlie degli amici e dei parenti, eppure non posso fare lo stesso con il mio stesso figlio.
Mi chiedo quanto sarà grande Khaled quando finalmente uscirò da qui e che cos’altro mi perderò. Mi perderò la prima volta che afferra le tue dita, il momento in cui capiremo che sta concentrando il suo sguardo su di te, o sarà ancora peggio, e mi perderò il suo primo sorriso.
Qual è la sensazione che provi a tenerlo in braccio? Di che cosa sa il suo profumo? E com’è il suo pianto? Mio figlio, nostro figlio, il nostro piccolo Khaled.
Ho mostrato le sue fotografie a tutti quelli che sono in cella con me: sono genuinamente felici per me, ma, come tutte le cose in questa cella, tutto è molto temperato, mi fa sentire ancora più solo. Ho pensato molto alla nostra vita in Sud-Africa, alla gioia di essere semplicemente insieme con una vita abbastanza facile, riuscendo comunque a fare un buon lavoro. Commentavamo spesso il fatto che i giovani Egiziani aspirassero soltanto ad avere una casa, una famiglia, un lavoro che li sostenesse. Viene fuori che come al solito che il giorno in cui potremo goderci il fatto di essere soltanto una famiglia in Egitto, sicuri del nostro futuro, soddisfatti nei nostro piccolo benessere, e soddisfatti dei nostri mestieri, sarà soltanto il giorno in cui la rivoluzione sarà completata. Fino ad allora dovremo quindi continuare ad arrangiarci, affrontando ciò che la vita ci getta davanti, sapendo che almeno finché siamo una cosa sola tutto va bene.
Mi manchi così tanto che fa male e credo che tu conosca la sensazione. Sono sopraffatto da quanto sia tutto ingiusto, e da quanto senza significato sia diventato tutto quanto a questo punto.
Ma io so che siamo entrambi in buone mani e che Khaled è benedetto dall’amore incondizionato non soltanto dei suoi genitori, ma di una larga famiglia allargata e centinaia di zii e di zie che non conosce. E spero che cresca e apprezzi tutto questo.
Alaa, 6 dicembre 2011,
dalla cella numero 6 della prigione di Torah.
Alaa Abd El Fatah, 30 anni, blogger egiziano per i diritti civili e attivista per la democrazia. Già arrestato nel 2006, in esilio in Sud-Africa, è tornato in Egitto durante la Primavera araba. Mentre si trovava negli Stati Uniti, è stato emesso in Egitto un mandato di arresto contro di lui per incitazione alla violenza durante gli scontri del 9 ottobre 2011, quando le forze dell’esercito attaccarono una manifestazione di Copti provocando 27 morti e oltre 200 feriti. Alaa Abd El Fatah, che in quell’occasione aveva documentato le violenze dell’esercito e, in quanto musulmano, si era prestato a fare da testimone esterno, scelse di rientrare volontariamente in patria per rispondere alle accuse.
In carcere dal 31 ottobre, è tuttora in attesa di giudizio. Nel frattempo è nato suo figlio, Khaled.
Certo non è letteratura.
D’altronde, quanto sia poroso il concetto di letteratura, quanto il canone letterario muti, si ampli, e si restringa, si sa. E pochi forse espungerebbero dal canone letterario le Lettere di condannati a morte della resistenza. E si sa quanto persino nelle forme più basse della comunicazione si riassorbano e riadattino, e riattualizzino, modelli letterari alti.
Poco importa, comunque.
Letteratura non è mai solo letteratura, anche quando non ambisca a essere la bonne aventure éparse au vent crispé du matin, perché è tutto il resto a essere solo letteratura.
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