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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

sabato 24 dicembre 2011

Ché troppo stanco sono e troppo stanca sei

Jon Fosse, Insonni [2007], Roma, Fandango, 2011

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

                                               Il campanile scocca
                                               lentamente le dieci.

Quando da ragazzino scoprii che quell’odiata filastrocca delle elementari era dell’amatissimo Gozzano, ebbi una mezza sincope. Anche se, in effetti, ero ormai in grado di comprendere quanto quella sensazione di facilità, di leggerezza, di “melologo popolare” fosse il risultato di una impressionante perizia metrico-prosodica.


E quella poesia mi è tornata in mente inesorabile già solo a vedere la copertina di questo libricino. Che mentre parla di cose tragiche, con il tipico accumulo di sfighe delle fiabe, delle fiabe conserva anche la leggerezza. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, il babbo di uno morto in mare, il babbo dell’altra scappato lontano, la mamma di uno morta di dolore, la mamma dell’altra con i tutti i tratti della matrigna cattiva che privilegia l’altra sorella, quella bionda e bella, rispetto a lei, che è nera e brutta come suo padre. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, che scappano di casa, e vagano per la notte per le strade di Bergen, un violino sulle spalle, poche cose da salvare. Asle e Aida, diciassette anni entrambi, che cercano un riparo, mentre piove e tira vento e l’inverno si fa rigido, da tutti rifiutati. Aida che presto, molto presto, partorirà, e porta in giro il segno dello scandalo per quelle strade fredde e umide. Quel figlio concepito il giorno che Asle si era svegliato orfano, e aveva solo Alida, e Alida aveva solo Asle.

Tutto il racconto, un racconto lungo (che solo i caratteri di grande dimensione riescono a portare alle 70 pagine necessarie per farne un volumetto autonomo), si svolge nell’arco di poche ore. Poche ore che si dilatano fino all’infanzia ormai lontana attraverso l’analessi del sogno e del ricordo. Una prosa continua e ininterrotta, senza punti per pagine, riproduce il trascorrere dei pensieri, incorporando dialoghi e impressioni, in un linguaggio di un narratore esterno basso che riproduce il linguaggio semplice di due ragazzini incerti di speranze e di paure (... poi Asle scioglie gli ormeggi e rema un pezzo e dice che il tempo è buono, la luna brilla, le stelle luccicano chiare, è una notte fredda e nitida, e c’è il vento propizio per navigare verso sud, dice lui, quindi adesso possono dirigersi verso Bjørgvin e va bene così, duce lui, e Alida non vuole domandargli se sa dove dirigere la rotta ...); poi, improvvisamente, una serie di a capo irrazionali, come fossero versi e emistichi.

Ma tu hai me, gli dice Alida
         E tu hai me, le dice Asle
        e allora Asle si mette a sventolare la mano avanti e indietro come in un cenno di saluti
        Saluti i tuoi genitori, chiede Alida
        Sì, la loro presenza qui, fa lui
        e Asle abbassa la mano e la appoggia su Alida per accarezzarle la guancia poi mette la mano nella sua e restano così
        T’immagini, dice Alida
        e si appoggia l’altra mano sulla pancia
        Già, pensa, dice Asle
       e allora si sorridono e s’incamminano, mano nella mano, giù lungo il Pendio e poi Alida vede che Asle è davanti a lei in solaio e ha i capelli bagnati e c’è come del dolore sul suo volto e ha un’aria stanca e smarrita
       Dove sei stato, chiede Alida
       No, niente, dice Asle
       Ma sei così bagnato e infreddolito, fa lei
       e gli dice di venire a sdraiarsi ora ma lui resta lì dov’è

Una scelta grafica e mimetica che è forma dell’emozione e dei ricordi e dei presentimenti che si infiltrano negli attimi. In cui un ricordo si insinua nel sogno. Come il bellissimo addio monti.

... e la barca comincia a scivolare via da Dylgija e Alida si volta a guardare, tanto è luminosa quella notte di tardo autunno, la casa là sul Pendio, e la casa ha un’aria così sinistra, e vede la Cima dove lei e Asle avevano preso l’abitudine di trovarsi e dove è rimasta incinta, dove ha cominciato a esistere il bimbo che presto partorirà, è il suo posto quello, è casa sua e Alida guarda la Capanna dove lei e Asle hanno vissuto per qualche mese e poi la barca oltrepassa quella striscia di terra e lei vede montagne, isole e isolotti mentre la barca veleggia piano sul mare. ... così resta sdraiata ad ascoltare il mare sbattere contro la barca e sprofonda in quel dondolio leggero e si sente bene lì accoccolata al tepore, in quella sera fredda, e guarda su le stelle limpide e la luna che illumina tutt’intorno.
Adesso comincia la vita, dice
Adesso veleggeremo dentro la nostra vita



E la vita verso cui veleggiano è una vita di adulti anonimi, l’uomo con la barba, la levatrice, la madrina. E che vadano a cercare una stanza in affitto nel paese da dove vengono, non qui a Bjørgvin, qui non c’è nessun bisogno di gente in più. Asle a Alida attraversano tutto questo sognando, sogno dopo sogno ricostruendo la propria vita, il proprio dolore e la propria speranza, sogno che cede a sogno, e a volte – nelle forme narrative di questa novella, dove tutto ha la malinconia delle nebbie dei fiordi norvegesi – non si capisce che cosa sia sogno e cosa realtà. Questa favola dolorosamente lieve, favola di amore e speranza, si chiude nella gioia.

Il campanile scocca / La Mezzanotte Santa.

Eppure anche in questa fiaba c’è ombra; l’ombra di un’immagine che Alida vede per l’ultima volta attraverso una porta. E di cui non osa più parlare.


Domanda per il traduttore e, ancor più, l’editor: perché cavolo avete scelto di mantenere la forma Bjørgvin anziché adottare la forma invalsa Bergen? Per coerenza, quindi, i vostri romanzi si svolgono a London, Paris, Athína, Beijīng, al-Qāhira?

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