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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 25 dicembre 2011

Bosna, mon amour – 3. Versione Sretan Božić

Ci voleva un post natalizio, ed è una bellissima favola.

Proprio per Natale si è conclusa la TransuManza della Pace. Trentuno manze trentine, dopo le quarantotto dell’anno scorso, sono state consegnate a piccoli contadini di Srebrenica. Srebrenica èil buco nero d’Europa, e il memoriale di Srebrenica-Potočari per il genocidio (8372 cadaveri identificati) è il centro della cattiva coscienza di tutto l’Occidente.



In un’economia di sussistenza come quella di Srebrenica, con il 40% di disoccupazione, una mucca vuol dire latte e formaggio, e possibilità di scambiare prodotti con i vicini. E possibilità di ricominciare.

Che cosa c’entra la letteratura?

Ad esempio che la TransuManza è nata da un’idea di Roberta Biagiarelli, autrice di A come Srebrenica.

D’accordo, motivazione assolutamente pretestuosa. Però tutta la Bosnia è letteratura. Tutto quello che è successo è letteratura. E questo è un racconto bellissimo.

Sretan Božić!


Per saperne di più:




sabato 24 dicembre 2011

Ché troppo stanco sono e troppo stanca sei

Jon Fosse, Insonni [2007], Roma, Fandango, 2011

- Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
- Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci...

                                               Il campanile scocca
                                               lentamente le dieci.

Quando da ragazzino scoprii che quell’odiata filastrocca delle elementari era dell’amatissimo Gozzano, ebbi una mezza sincope. Anche se, in effetti, ero ormai in grado di comprendere quanto quella sensazione di facilità, di leggerezza, di “melologo popolare” fosse il risultato di una impressionante perizia metrico-prosodica.


E quella poesia mi è tornata in mente inesorabile già solo a vedere la copertina di questo libricino. Che mentre parla di cose tragiche, con il tipico accumulo di sfighe delle fiabe, delle fiabe conserva anche la leggerezza. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, il babbo di uno morto in mare, il babbo dell’altra scappato lontano, la mamma di uno morta di dolore, la mamma dell’altra con i tutti i tratti della matrigna cattiva che privilegia l’altra sorella, quella bionda e bella, rispetto a lei, che è nera e brutta come suo padre. Asle e Alida, diciassette anni entrambi, che scappano di casa, e vagano per la notte per le strade di Bergen, un violino sulle spalle, poche cose da salvare. Asle e Aida, diciassette anni entrambi, che cercano un riparo, mentre piove e tira vento e l’inverno si fa rigido, da tutti rifiutati. Aida che presto, molto presto, partorirà, e porta in giro il segno dello scandalo per quelle strade fredde e umide. Quel figlio concepito il giorno che Asle si era svegliato orfano, e aveva solo Alida, e Alida aveva solo Asle.

Tutto il racconto, un racconto lungo (che solo i caratteri di grande dimensione riescono a portare alle 70 pagine necessarie per farne un volumetto autonomo), si svolge nell’arco di poche ore. Poche ore che si dilatano fino all’infanzia ormai lontana attraverso l’analessi del sogno e del ricordo. Una prosa continua e ininterrotta, senza punti per pagine, riproduce il trascorrere dei pensieri, incorporando dialoghi e impressioni, in un linguaggio di un narratore esterno basso che riproduce il linguaggio semplice di due ragazzini incerti di speranze e di paure (... poi Asle scioglie gli ormeggi e rema un pezzo e dice che il tempo è buono, la luna brilla, le stelle luccicano chiare, è una notte fredda e nitida, e c’è il vento propizio per navigare verso sud, dice lui, quindi adesso possono dirigersi verso Bjørgvin e va bene così, duce lui, e Alida non vuole domandargli se sa dove dirigere la rotta ...); poi, improvvisamente, una serie di a capo irrazionali, come fossero versi e emistichi.

Ma tu hai me, gli dice Alida
         E tu hai me, le dice Asle
        e allora Asle si mette a sventolare la mano avanti e indietro come in un cenno di saluti
        Saluti i tuoi genitori, chiede Alida
        Sì, la loro presenza qui, fa lui
        e Asle abbassa la mano e la appoggia su Alida per accarezzarle la guancia poi mette la mano nella sua e restano così
        T’immagini, dice Alida
        e si appoggia l’altra mano sulla pancia
        Già, pensa, dice Asle
       e allora si sorridono e s’incamminano, mano nella mano, giù lungo il Pendio e poi Alida vede che Asle è davanti a lei in solaio e ha i capelli bagnati e c’è come del dolore sul suo volto e ha un’aria stanca e smarrita
       Dove sei stato, chiede Alida
       No, niente, dice Asle
       Ma sei così bagnato e infreddolito, fa lei
       e gli dice di venire a sdraiarsi ora ma lui resta lì dov’è

Una scelta grafica e mimetica che è forma dell’emozione e dei ricordi e dei presentimenti che si infiltrano negli attimi. In cui un ricordo si insinua nel sogno. Come il bellissimo addio monti.

... e la barca comincia a scivolare via da Dylgija e Alida si volta a guardare, tanto è luminosa quella notte di tardo autunno, la casa là sul Pendio, e la casa ha un’aria così sinistra, e vede la Cima dove lei e Asle avevano preso l’abitudine di trovarsi e dove è rimasta incinta, dove ha cominciato a esistere il bimbo che presto partorirà, è il suo posto quello, è casa sua e Alida guarda la Capanna dove lei e Asle hanno vissuto per qualche mese e poi la barca oltrepassa quella striscia di terra e lei vede montagne, isole e isolotti mentre la barca veleggia piano sul mare. ... così resta sdraiata ad ascoltare il mare sbattere contro la barca e sprofonda in quel dondolio leggero e si sente bene lì accoccolata al tepore, in quella sera fredda, e guarda su le stelle limpide e la luna che illumina tutt’intorno.
Adesso comincia la vita, dice
Adesso veleggeremo dentro la nostra vita



E la vita verso cui veleggiano è una vita di adulti anonimi, l’uomo con la barba, la levatrice, la madrina. E che vadano a cercare una stanza in affitto nel paese da dove vengono, non qui a Bjørgvin, qui non c’è nessun bisogno di gente in più. Asle a Alida attraversano tutto questo sognando, sogno dopo sogno ricostruendo la propria vita, il proprio dolore e la propria speranza, sogno che cede a sogno, e a volte – nelle forme narrative di questa novella, dove tutto ha la malinconia delle nebbie dei fiordi norvegesi – non si capisce che cosa sia sogno e cosa realtà. Questa favola dolorosamente lieve, favola di amore e speranza, si chiude nella gioia.

Il campanile scocca / La Mezzanotte Santa.

Eppure anche in questa fiaba c’è ombra; l’ombra di un’immagine che Alida vede per l’ultima volta attraverso una porta. E di cui non osa più parlare.


Domanda per il traduttore e, ancor più, l’editor: perché cavolo avete scelto di mantenere la forma Bjørgvin anziché adottare la forma invalsa Bergen? Per coerenza, quindi, i vostri romanzi si svolgono a London, Paris, Athína, Beijīng, al-Qāhira?

mercoledì 21 dicembre 2011

Di uomini e di fiamme

Il vento, da forte era divenuto più leggero, e fu sventura, perché forte avrebbe forse spento le scintille, leggero le trasportava eccitandole, e con loro faceva volteggiare nell’aria brandelli di pergamena, resi esili da una interna face. A quel punto si udì uno schianto: il pavimento del labirinto aveva ceduto in qualche punto precipitando le sue travi infuocate al piano inferiore, perché ora vidi lingue di fiamma alzarsi dallo scriptorium, anch’esso popolato di libri e di armadi, e di carte sciolte, distese sui tavoli, pronte alla sollecitazione delle scintille. Udii delle grida di disperazione provenire da un gruppo di scrivani che si mettevano le mani nei capelli e ancora divisavano di salire eroicamente, per ricuperare le loro pergamene amatissime. Invano, ché la cucina e il refettorio erano ormai un incrocio di anime perdute agitantesi in tutte le direzioni, dove ciascuno ostacolava gli altri.

E come l’angelo mi parlò Guglielmo appoggiandosi esausto allo stipite della porta: “È impossibile, non ce la faremo mai, neppure con tutti i monaci dell’abbazia. La biblioteca è perduta.” Diversamente dall’angelo, Guglielmo piangeva. (U. Eco, Il nome della rosa)


Nella notte del 17 dicembre, brucia, in seguito agli scontri, la biblioteca dell’Accademia scientifica d’Egitto al Cairo. Nelle immagini, purtroppo solo in arabo, il tentativo degli studenti e dei dimostranti di salvare parte del patrimonio librario.


Eppure mi è sembrato di vedere un ES

Georges Perec, La bottega oscura [1973], Macerata, Quodlibet, 2011

La scrittura del sogno è uno dei territori più ambiziosi per un narratore; e, da Omero in poi, nel sogno si cristallizzano le forme più ardite della narrativa. Più o meno. E lì si sedimenta e prende forma l’ambiguo e mutevole rapporto di ogni cultura con il reale e l’immaginario.

Ed ecco che a uno dei più geniali e sperimentali autori del secondo Novecento europeo dobbiamo questo piccolo affascinante e singolare capolavoro, pubblicato per l’Italia nel marzo 2011 dal piccolo e curiosissimo editore marchigiano Quodlibet. Perec raccoglie 124 sogni, sognati tra il maggio 1968 e l’agosto 1972. Con estensioni che vanno dal frammento minimo e sfuggente, poco più che impressioni del risveglio, a quasi piccoli racconti surrealisti.


In epigrafe, la citazione di un tanka del monaco giapponese Saygiō (XII secolo): poiché io penso / che il reale / non sia per nulla reale / come potrei credere / che i sogni siano sogni. Nella coltissima epigrafe, debitrice alle traduzioni dell’amico J. Roubaud, c’è già il nodo più stretto di questa opera anomala e affascinante. Credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni. Quanto la dimensione onirica viene piegata all’esigenza stessa di narrazione di sé che ogni uomo ha? Il titolo stesso, La bottega oscura, è un sorprendente addensamento di sensi: officina nascosta dell’artista? materiali della costruzione del sé?

E questi materiali ripercorrono la vita di Perec, e l’analisi a cui si sottopose più volte. L’olocausto e la guerra, l’ombra dei genitori, una scomparsa ad Auschwitz e l’altro morto da volontario durante l’invasione tedesca, e il senso di abbandono, il matrimonio, la sofferta storia d’amore con Suzanne Lipinska, gli amici, il cinema e il teatro (con continue trasposizioni teatrali della propria vita, o forse è la drammatizzazione del sogno individuata da Freud?), le sfide letterarie, le parole crociate come forma della scrittura combinatoria e della vita, le case abitate e abbandonate. E infatti il libro, alla fine, è corredato da un indice d’autore per argomenti notabili; forma più banalmente comune, quest’ultima, del molto più polisemico “Riscontri e ripari” scelto dall’autore (repéres et repaires, ossia contrassegni e rifugi); una sorta di medievale “chiave dei sogni” à la Freud, anche (o se vogliamo), come un elenco alfabetico di oggetti onirici trasmutabili per tutte guise: spostamento, condensazione, simbolizzazione, elaborazione, dispersione.

E, ovunque, gatti. Che sporcano, insozzano, sbucano da tutte le parti, s’infiltrano sotto la porta, molti più di quanti si immaginasse. Perché dove c’è chat c’è le ça, in francese l’Es. Avevo ben detto che non avrei mai avuto gatti qui! dice al sogno 24; e forse invece c’è scritto Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui. Anzi, no, c’è scritto proprio "anche" Avevo ben detto che non avrei mai avuto inconscio qui.

L’ermetismo magico di Perec, la sua inventività creativa, si rivelano infatti anche nella scelta di adottare soluzioni grafiche particolari per riprodurre i meccanismi, le dinamiche e il linguaggi del sogno. La più evidente è proprio la scelta di scrivere una frase che è più frasi: ad esempio, oltre alla frase sul gatto/inconscio, ritroviamo una altura abbastanza forte che però, grazie a un sistema di semi-lettere scalate, è anche una fessura abbastanza porta (nell’originale rispettivamente une pente assez forte e une fente assez porte), e che in alcuni casi potrebbe portare persino a combinazioni vertiginose. Vaghezza del ricordo del sogno? Condensazione freudiana? Proto-interpretazione del sogno?

D’altronde, la dimensione narrativa cosciente affiora nella stessa macrostruttura, aperta e chiusa da un sogno sull’olocausto. In una sorta di romanzo onirico del rimosso si snoda un percorso di tracce sfuggenti, cancellate e modellate dal sonno, che solo le sessanta ponderose e ricchissime pagine (a volte, per la verità, un po’ fastidiosamente ridondanti) del commento di Ferdinando Amigoni aiutano a decriptare. Come un trattato di oneirocritica nel labirinto dei s[e/o]gni.


E chi sa se David B. aveva in mente questo grande modello quando disegnò il suo Cavallo pallido.

venerdì 16 dicembre 2011

Lettera da un carcere di là dal mare qui va fleurant la menthe et le thym

Mia compagna,
mia amica,
mia metà,
mio tutto,
mio amore,
la madre di mio figlio,
il mio sostegno nella vita,

mi manchi. Ti amo.

L’unica ragione per cui posso sopportare di essere separato da te è il tuo sostegno. Ho appena ricevuto le fotografie: sono confuso su quello che provo, ma soprattutto sono felice.

È talmente ingiusto che io non possa essere con te a confortarti, è così ingiusto che io stia aspettando che tu ti riprenda e stia bene per tornare tu a confortare me, ed è oltre, oltre ogni ingiusto, che io non possa tenere in braccio Khaled, nostro figlio, per ore nello stesso modo in cui ho tenuto in braccio infiniti altri bambini. Ho dato tanto amore e attenzione ai figli e alle figlie degli amici e dei parenti, eppure non posso fare lo stesso con il mio stesso figlio.

Mi chiedo quanto sarà grande Khaled quando finalmente uscirò da qui e che cos’altro mi perderò. Mi perderò la prima volta che afferra le tue dita, il momento in cui capiremo che sta concentrando il suo sguardo su di te, o sarà ancora peggio, e mi perderò il suo primo sorriso.

Qual è la sensazione che provi a tenerlo in braccio? Di che cosa sa il suo profumo? E com’è il suo pianto? Mio figlio, nostro figlio, il nostro piccolo Khaled.

Ho mostrato le sue fotografie a tutti quelli che sono in cella con me: sono genuinamente felici per me, ma, come tutte le cose in questa cella, tutto è molto temperato, mi fa sentire ancora più solo. Ho pensato molto alla nostra vita in Sud-Africa, alla gioia di essere semplicemente insieme con una vita abbastanza facile, riuscendo comunque a fare un buon lavoro. Commentavamo spesso il fatto che i giovani Egiziani aspirassero soltanto ad avere una casa, una famiglia, un lavoro che li sostenesse. Viene fuori che come al solito che il giorno in cui potremo goderci il fatto di essere soltanto una famiglia in Egitto, sicuri del nostro futuro, soddisfatti nei nostro piccolo benessere, e soddisfatti dei nostri mestieri, sarà soltanto il giorno in cui la rivoluzione sarà completata. Fino ad allora dovremo quindi continuare ad arrangiarci, affrontando ciò che la vita ci getta davanti, sapendo che almeno finché siamo una cosa sola tutto va bene.

Mi manchi così tanto che fa male e credo che tu conosca la sensazione. Sono sopraffatto da quanto sia tutto ingiusto, e da quanto senza significato sia diventato tutto quanto a questo punto.

Ma io so che siamo entrambi in buone mani e che Khaled è benedetto dall’amore incondizionato non soltanto dei suoi genitori, ma di una larga famiglia allargata e centinaia di zii e di zie che non conosce. E spero che cresca e apprezzi tutto questo.

Alaa, 6 dicembre 2011,
dalla cella numero 6 della prigione di Torah.

Alaa Abd El Fatah, 30 anni, blogger egiziano per i diritti civili e attivista per la democrazia. Già arrestato nel 2006, in esilio in Sud-Africa, è tornato in Egitto durante la Primavera araba. Mentre si trovava negli Stati Uniti, è stato emesso in Egitto un mandato di arresto contro di lui per incitazione alla violenza durante gli scontri del 9 ottobre 2011, quando le forze dell’esercito attaccarono una manifestazione di Copti provocando 27 morti e oltre 200 feriti. Alaa Abd El Fatah, che in quell’occasione aveva documentato le violenze dell’esercito e, in quanto musulmano, si era prestato a fare da testimone esterno, scelse di rientrare volontariamente in patria per rispondere alle accuse.

In carcere dal 31 ottobre, è tuttora in attesa di giudizio. Nel frattempo è nato suo figlio, Khaled.

Certo non è letteratura.
D’altronde, quanto sia poroso il concetto di letteratura, quanto il canone letterario muti, si ampli, e si restringa, si sa. E pochi forse espungerebbero dal canone letterario le Lettere di condannati a morte della resistenza. E si sa quanto persino nelle forme più basse della comunicazione si riassorbano e riadattino, e riattualizzino, modelli letterari alti.
Poco importa, comunque.
Letteratura non è mai solo letteratura, anche quando non ambisca a essere la bonne aventure  éparse au vent crispé du matin, perché è tutto il resto a essere solo letteratura. 



venerdì 9 dicembre 2011

Era una vita buia e tempestosa

Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari, Torino, Einaudi, 2011

In uno dei più bei racconti italiani contemporanei, il narratore, ricercando tra otto amatissimi il grande autore d’avventure di mare, comincia, uno dopo l’altro, a stringere il cerchio. A ogni esclusione, i rimasti pronunciano sul partente ognuno una laconica sentenza, più o meno sferzante, che vale un’estetica. Non così accade all'addio del terzo tra loro.

Perché la sua infinita generosità non meritava che né io né altri giudicassimo i suoi libri, i suoi cento libri scritti tutti con la stessa cannuccia tenuta insieme da un filo di cotone. E infatti Poe rimase in silenzio con gli occhi bassi, e Melville spezzò la sua penna, e Stevenson venne con un ramoscello di erica in fiore, e Conrad portò un’alta onorificenza della Marina inglese, e London si levò il berretto e lo gettò in mare. E dietro di loro comparve un altro gruppo di persone, e con un brivido che era insieme di gioia e di pena riconobbi Sandokan, la Tigre della Malesia; e Yanez de Gomera, il portoghese; e Kammamuri e Tremal-Naik; e il Conte di Ventimiglia detto il Corsaro Nero; e Wan Guld, il fiammingo; e una delegazione di filibustieri della Tortuga; e ad una voce dissero: noi andiamo con lui, e io lo pensai in quel bosco alle porte di Torino, tutto solo con un rasoio in mano, e l’universo non mi sembrò mai così orrendo.

Questo è un romanzo per maschi. Per coloro che hanno passato infanzia e prima adolescenza a sentirsi frustare il vento sulla faccia sulla prora di un praho, o a immaginarsi come Sandokan ritti sulla scogliera, le braccia conserte, gli occhi di acciaio, l’inferno nel cuore e l’urlo dell’uragano attorno; e poi cresciuti – quando a quei libri si tornava quasi imbarazzati scrutandosi attorno e scostando un vocabolario di greco, quando ormai già si sapeva – hanno riletto con disagio, e con crescente senso di colpa per quella disperazione che aveva lenito la loro.

Il libro si apre il 25 aprile 1911, il giorno in cui tutto si conclude nel bosco della Val San Martino. Da lì il romanzo si snoda su due percorsi paralleli.

Il primo articolato su alcuni capitoli con narratore esterno, ognuno dedicato a episodi fondamentali della vita di Salgari, dal famoso unico viaggio per mare all’innamoramento per la cugina Ada poi trasposta nell’eroina vittima delle torve trame di Suyodhana; dal corteggiamento di Ida ai primi anni oscuri nei giornali; dal cavalierato concesso dalla Regina ai continui traslochi; dal sofferto rapporto con gli editori ai segni del declino; dalla depressione senile alla morte di un mondo antico di eroi suicidi sostituito dalla Nuova Italia dell’automobile, dell’Esposizione Universale, della volgarità furbetta dei pubblicitari e dei palazzinari, fino alla chiusura in manicomio della moglie.

Il secondo costituito da frammenti documentari come se fosse un’inchiesta, un moderno reportage giornalistico, a coprire gli ultimi due anni di vita del romanziere, collazionando le voci dei testimoni, dai figli Fathima e Omar e Nadir, al giornalista Casulli che lo intervistò nel 1909, alle lettere della moglie, al dottore, al direttore del manicomio. Tra questi un particolare ruolo hanno gli stralci dai quaderni di Angiolina, che costituiscono una sorta di romanzo nel romanzo in forma diaristica, esteso lungo tutto l’arco dell’opera.

Angiolina, l’unico personaggio di fantasia, è una lettrice salgariana ormai cresciuta che si affianca al vecchio e ormai stanco romanziere alla ricerca della vera identità di colui che, con le sue pagine, aveva spinto i ragazzini di tutta Italia a sognare di prendere e partire e perdersi in qualche giungla, in qualche oceano. Angiolina diventa una sorta di ghost-writer di Salgari, ma soprattutto l’indagatrice delle ombre di quell’uomo dalla vita misteriosa, che ha viaggiato in tutto il mondo e forse non è mai stato da nessuna parte, che ha trattato da pari con ribelli e maraja e vive tra facchini e lavandaie. Angiolina diventa progressivamente, forse troppo chiaramente, sempre più la proiezione dell’autore: il suo tentativo di comprendere la storia dell’uomo che ha di fronte, però non è solo la ricerca di Ferrero stesso, ma anche – soprattutto, persino – quella della narratrice del personaggio-uomo Salgari, della narratrice di fronte al proprio personaggio che, una volta definito nel fondo della sua personalità, dovrà essere portato alle estreme conseguenze della sua identità e della sua storia, e dovrà essere abbandonato (p. 129).

Mi è sempre sembrata la casa di un uomo solo, che si stordisce con il trovarobato di cui si circonda. Di un uomo disperato. Questo Sandokan è uno che non sta bene da nessuna parte. Chissà se è quello che accade anche al capitano.

A poco a poco nella figura di Salgari riaffiora quella di Sandokan, e di quei suoi personaggi che costeggiavano la morte per sentirsi vivi, che costeggiavano la vita per meglio sprofondare nel Nulla. Le sue fughe da una realtà sempre troppo asfittica e miserevole, verso un mondo dove si possa essere qualcosa, qualcosa di diverso, dove parole magiche come baniàn, mamplàm, paletuvieri, duriòn possano cancellare la fatica, l’umiliazione, il dolore.

E intanto, prosegue la lotta feroce di Sandokan-Salgari, in una vita segnata dall’odio; e l’odio di Salgari è per quel nemico chiuso nell’anima e che si fa strada sempre più, è l’odio per se stesso, per la propria tragedia.
Si è spolpato da solo. Si è lasciato spolpare peggio di un montone.

Questo è un romanzo facile e leggero. Non molto di più, ad onta della fascetta Premio Campiello. Selezione giura dei letterati. XLIX edizione.

Per chi bambino – nel breve giro di luce della lampada del comodino – ha sentito al collo la fascia di seta dei thugs, ha difeso un impero asserragliato su una collina dell’Assam, ha braccato il suo nemico fin nella Delhi assediata e prossima al massacro del 1857, è un libro che trova spazio nello scaffale dei dolori e delle insofferenze dell’infanzia.


Alcune note
Il passo citato in apertura è tratto da M. Mari, Otto scrittori in Tu, sanguinosa infanzia.
La “Rivista di Letteratura italiana” ha dedicato monograficamente il numero XXIX, 2-2, 2011 alla figura di Emilio Salgari nel centenario del suicidio.
Riporto qui, per particolare interesse, due soli link: 
Emilio Salgari: uno speciale per i 100 anni della morte dell'autore di Sandokan (all'inizio c'è un'intervista proprio con Ferrero).
L'ultima avventura di Salgari (un filmato di animazione) 

mercoledì 7 dicembre 2011

sabato 3 dicembre 2011

Il miglior anticoncezionale del mondo


Me l'ero perso... 
Raramente sono riuscito a trovare espressa con la stessa chiarezza l'idea che la cultura sia una funzione fondamentale del benessere economico e della civiltà di una nazione.


La biblioteca inutile

Sono passati pochi decenni dalla nascita del libro. E con il libro nasce la raccolta compulsiva di libri. Nasce la volgarità di un'editoria seriale, di un pubblico di massa. E nel 1550 Ortensio Lando, recuperando le critiche di Platone alla cultura scritta, quello stesso Platone che è il primo autore flagellato dalla sua Sferza, compone una paradossale invettiva sull'inutilità dei libri. Un'acre, e ambigua, polemica sullo stesso profilo dell'intellettuale nella nuova società culturale.


Tempo mi pare ormai, Signor Toso, d'ammonirvi nel vostro errore, poi che altro non fate né ad altro pensate giamai, che ad accozzar libri, et hor questo hor quello, senza risparmiar fatica, sossopra rivolgere. Credetelo a me che la molta copia de' libri confonde l'ingegno et indebolisce la memoria, non che l'aiti come altri pensa, o ver sollevi. Certo, se la moltitudine de' libri ci facesse doventare et più dotti et più facondi, non vi sarebbe stato per alcun tempo né il più dotto né il più facondo di Triphone librario o di Tirannione grammatico, che a' tempi di Pompeio il Magno n'hebbe più di tre mila volumi, o per meglio dire di Gordiano imperadore, di cui si legge ch'egli n'avesse più di sessanta mila- Ma che pensiero finalmente è il vostro? Volete per aventura empir tutta la casa de' libri? Hormai altro non ci si vede et tutte le pareti, non sol dello studio vostro, ma della sala altresì et della più interna camera, de' vari autori coperte si veggioni. Dovunque mi rivolgo, ne trovo in ogni lingua scritti, et a qualunque professione appartenenti, et non ve nìè però alcuno in cui non sieno mille diffetti. (Ortensio Lando, LA sferza de' scrittori antichi et moderni [1550], a cura di P. Procaccioli, Roma, Vignola, 1995)

martedì 29 novembre 2011

Autoscatti esotici dalla villeggiatura piccolo-borghese

Arno Schmidt, Paesaggio lacustre con Pocahontas [1959], Rovereto, Zandonai, 2011


Due amici, ex reduci, – nella Germania adenaueriana della ricostruzione industrial-cristiana – passano qualche giorno sul lago Dümmer. Qui si spupazzano due giovani dattilografe. Non che ci fosse altro da pretendere. Quella dell’io narrante, romanziere e intellettuale, viene ribattezzata Pocahontas dall’amante.  E l’aura di Pocahontas, per quanto ancora sconosciuta in Europa prima che Disney ne facesse un pupazzetto, esercitava il fascino di una fugace e intensa libertà, un sogno perduto e vissuto per essere rimpianto. E basta ripensare a certe immagini di The New World di Terrence Malick per capire cosa volessero essere quei giorni. E, naturalmente, questo libro finì sotto processo per blasfemia e pornografia. Il che fa supporre che i censori dell’epoca dovessero essere dotati di strumenti ermeneutici di primissimo livello perché la Pocahontas è un testo di tale complessità e rivoluzionario sperimentalismo per struttura, linguaggio, punteggiatura, strumenti narrativi, da rasentare in taluni casi una fertile oscurità.

Nei Calcoli che accompagnano la Pocahontas Arno Schmidt riconosce che, se ogni argomento ha un genere privilegiato, per il diario di viaggio quel genere dovrebbe essere l’album di foto. La Pocahontas, per Schmidt, è proprio un album di foto; di più, l’esemplificazione di come debba essere un “album di foto” per esperienze “con personaggi a curva di movimento ipocicloide e velocità lenta” in piccoli mondi (paradisi o inferni in sé conchiusi: soggiorni estivi; infanzie)”.



E se album di foto deve essere,allora la Pocahontas deve riflettere i moti di coscienza che si sviluppano di fronte a un albo di foto: prima le immagini testuali che si presentano, poi i ricordi che ne sorgono. Coerentemente, la forma testuale della Pocahontas non può restare ancorata a un linguaggio classico. I diciotto capitoli sono quindi rigidamente bipartiti. Prima una immagine, atti e scena, un groviglio caotico di sensazioni e impressioni. Il mio capo nel suo grembo (tra l’erba alta delle sue dita) : e aveva chiazze verdi alla coscia, nerazzurre con orlo giallo, tutte per il tirarsi su nella canoa, attorno a parecchie si vedevano perfino archi dentali, e rabbrividii ipocritamente empatico. Nella ragnatela di parole sussurrate, tra brillii d’acqua e di piombo. / Quasi ferma una vela, davanti all’albero la figura in duepezzi traforato, verde come una piscina coperta; alzò alla fronte un binocolo nero, assai distinta, e occhieggiò più volte verso noi : : (dopo però apparì sgualcita come la madre dei Gracchi, occhi pettegoli, e man-worn). Dopo, il ricordo, il racconto, lo sviluppo.



I giorni si snodano in un flusso di coscienza intercalato da squarci, impressioni, interiezioni, sinestesie, retropensieri, sensazioni, accumuli di immagini, oggetti; e tutto con un linguaggio insieme immaginifico e scientifico, di strenua inventività, verbi secchi all’infinito, segni matematici, punteggiatura espressiva e scompositiva, effetti fonici, pastiche letterario-materiale. Ad esempio, questa bellissima alba.
/ (Treno lontano : la sua barra del suono era pazientemente orizzontale; fresò un solco nel nostro dormiveglia; si ritrasse a mo’ di biella). / ((Il gallo gridò in triangoli grandi quanto pescecani sul muro del sonno; più lontani vi stavano appesi spaghi con cipree)). / (((Quando ? Tetti avevano cominciato a bisbigliare grigio pietra ))).

Questo bellissimo romanzo breve, però, va ben oltre lo sperimentalismo. Proprio le sue forme linguistico-narrative portate all’estrema tensione sono la forma di un inno alla vita. Non interpretate : studiate e descrivete. Non futurate : siate. E morite senza ambizioni : siete stati. Al più, pieni di curiosità.


E quando le nebbie si chiuderanno definitivamente su un primissimo mattino lacustre, un’ultima immagine ritornerà agli occhi. (((((((E poi : sarà malinconia)))))))




Alcune chicche interessanti su Satisfiction

venerdì 25 novembre 2011

Bosna, mon amour - 2

In fondo al mercato di Travnik, sotto la sorgente fresca e gorgogliante del fiume Šumeć, è sempre esistito, da che mondo è mondo, il picco Caffè di Lutvo. Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo, il suo proprietario; da almeno cento anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio. Nel giardino del caffè, proprio sotto la parete rocciosa del colle, vi è un angolino appartato e fresco, leggermente rialzato, dove cresce un vecchio tiglio. Intorno fra pietre e zolle erbose, sono sistemate alcune panchine basse, di forma irregolare, sulle quali è un piacere sedersi e da cui è una fatica rialzarsi. Consumate e imbarcate per gli anni e il lungo uso, sono ormai diventate tutt’uno con l’albero, la terra e le pietre. (trad di D. Badnjević)

La Cronaca di Travnik [1945] comincia l’ultimo venerdì di ottobre del 1806, quando alla Plava Voda di Travnik, il sistema di vasche e salti d'acqua attorno al quale ancora oggi si affollano i bar e i ristoranti della città, si diffonde la notizia che in città arriverà un console francese. 

Plava voda, Travnik


E il romanzo, che termina con la caduta del potere napoleonico, è imperniato proprio sul rapporto tra il console francese e quello austriaco, figure ottuse, meschine, decadenti, "occidentali". Lo sfondo, quello bosniaco, in cui il tempo è eterno e lento, immerso in una saggezza spirituale che sa ricondurre a un senso superiore. Lo sfondo bosniaco, in cui è ambientato il romanzo, e che ancora è possibile riconoscere, era qualcosa di molto simile a questo.

Vista dal forte


Il forte di Travnik

Il forte di Travnik


La Šarena Dzamija (Moschea colorata)
E proprio a Travnik si trova la casa natale (rodna kuća) di Ivo Andrić (Ive Andrića).



In realtà in questa casa Andrić visse pochissimo , e si trasferì, a circa due anni di età, a Višegrad. Ad ogni modo il primo piano è stato trasformato in un museo (nel cortile interno, c'è un locale). Nel museo, si trovano vari documenti, dai materiali utilizzati da Andrić per le sue ricerche sulla città proto-ottocentesca, alle edizioni di Andrić, a foto antiche, al diploma per il Nobel per la Letteratura.


La motivazione per il Nobel

Edizioni in lingua italiana 

Interno



Bosna,mon amour - 1

lunedì 21 novembre 2011

De te vita narratur

John Barth, La vita è un’altra storia. Racconti scelti, Roma, Minimum Fax, 2010

Una copertina come questa è tanto facile, quanto significativa. Un cappello da prestigiatore dal quale esce un libro, il nostro libro, il quale in copertina ha un cappello da prestigiatore dal quale etc. [E questo etc. sarebbe tipico della scrittura di John Barth] [[E una quadra per dire che questo etc. sarebbe tipico della scrittura di John Barth, è molto John Barth] [E questa ulteriore osservazione metabarthiana, anch’essa è molto etc]]. La mise en abyme è uno degli elementi più propri di questo padre longevo e radicale della narrativa postmoderna nel solco riconosciuto di Borges e Calvino. Ma l’ultimo dei cappelli della sequenza en abyme non contiene un altro libro ad infinitum, ma, finalmente, un coniglio. Perché in fondo ai racconti di smontaggi, rispecchiamenti, meta e ipertestualità, c’è ancora quella vita che è un’altra storia. Irriducibilità di vita e letteratura o vita come plot nel mai finito insieme dei plot?

Dodici racconti, estrapolati da varie raccolte lungo la parabola autoriale di Barth, da Lost in the Funhouse ([La Casa dell’Allegria] 1968), a On with the Story (1996), a The Book of Ten Nights and a Night (2004), a The Development (2008). Titoli che, di per sé, fanno capire come Barth si muova sul filo sottile della citazione, dell’indagine metaletteraria, dell’ambiguità tra fabula e vita, dei processi di scrittura, di come la vita segua trame letterarie, e la letteratura sia il riflesso dell’esistenza, e ancora di come noi stesso raccontiamo la nostra vita. Racconti nel racconto e esistenze in cornice, come nell’amato Decameron, e nell’amatissimo Le mille e una notte, al quale The Book of Ten Nights and a Night è un esplicito tributo. E che dire del fatto che Verso l’occidente l’impero dirige il suo corso (l’ultimo racconto di La ragazza con i capelli strani di un certo DFW, autore anti-barthiano iper-barthiano giunto invece al tragico punto di rottura tra vita e letteratura), è proprio la cornice-espansione-riscrittura di Perso nella casa stregata, il racconto eponimo di Lost in the Funhouse? L’autore metaletterario che, nel grande gioco narrativo, diviene personaggio di altro autore.

E, proprio in Lost in the Funhouse, Ambrose, il piccolo Ambrose, smarritosi all’interno della casa dei fantasmi di un Luna Park e incapace di ritrovare l’uscita, morì raccontando storie a se stesso, e raccontando a se stesso la propria storia di bambino incapace di vivere e destinato a vivere tutto attraverso una chiave narrativa. È solo un bambino, va da sé, e quindi non morirà, ma per lui quella casa stregata in cui si è smarrito è il mondo, è un libro, è l’esistenza che è solo narrazione. Vorrebbe essere morto. Ma è vivo. Perciò costruirà case stregate per gli altri, e sarà il loro manovratore segreto – anche se preferirebbe essere uno degli innamorati per cui le case stregate vengono costruite.

E così uno dei temi dominanti della raccolta, è l’elemento principale della vita umana, il tempo. Come nel bellissimo, e misteriosamente tragico, Ad infinitum: un racconto breve, attuazione del paradosso di Zenone, in cui la donna latrice di un tragico messaggio non raggiungerà mai il marito per distruggere con tale messaggio quel che resta delle felicità a causa del tempo narrativo dilatato e dei rallentamenti del racconto. E così, Avanti con la storia è un gioco di rispecchiamenti, di incastri en abyme: una lettrice che legge la sua storia accanto all’autore della storia che sta leggendo. Due vite concentriche, all’interno di un sistema di anelli concentrici seguiti fino agli estremi confini dell’universo. E dove accade la lettura? Su un aereo in volo, cellula e frammento che non ha spazio né tempo.

Ma se a volte può sembrare che la metaletteratura stanchi, e che tutto si possa ridurre a un gioco sterile, segno del fallimento di raccontare storie, così non è. Sia perché sempre forte è il rapporto tra complessità del vivere e complessità dello scrivere – come persino nel complicatissimo Click, in cui “Mark il velocizzatore” e “Valerie la ritoccatrice”, personaggi dell’ipertesto “Ipertestualità della vita quotidiana” letto da Fred e Irma, sono forme del carattere, della vita, e ancora delle tecniche narrative e la loro integrazione è il segreto della felicità di coppia e di quella della narrazione – sia perché altri racconti hanno forza naturale propria, come Toga party (bellissima tragedia della vecchiaia) o il meraviglioso primo racconto della raccolta Viaggio nel mare della notte: una potente cosmologia, in cui – quando ormai flebile è la speranza che esista davvero quella riva promessa verso la quale sta nuotando – uno stremato io narrante rivive la lunga traversata in quel mare notturno che è tutta la sua esistenza, ricordando i compagni con cui aveva cominciato il viaggio quasi tutti annegati o lasciatisi annegare, e tutti i pensieri nati sul senso di quella traversata. Chi li ha creati. Quale il loro destino. Che cosa sia quel “mare della notte”. Che cosa sia quella riva promessa, riformulando genialmente le grandi concezioni della filosofia occidentale, dalla monadologia di Leibniz al manicheismo, dal concetto di ciclicità infinità a Berkeley. Chi sono quei nuotatori? Uomini? Pesci? Metafore? Mare enim in figura dicitur saeculum hoc, falsitate amarum, procellis turbulentum (Agostino, Enarr. in Ps. LXIV 9). E il sesso, terminato il racconto, sarà tragedia.

lunedì 14 novembre 2011

Tra gli scaffali di notte...

Che cosa fa una ragazzina tanto fuori moda da leggere Antonia Byatt e Chaucer e ascoltare Puccini? Che cosa fa una ragazzina talmente faccia smorta da lavorare in biblioteca? Fa una delle cose più seducenti che si possano trovare in rete!

giovedì 10 novembre 2011

Prendete, e bevetene tutti

Walter Tevis, L’uomo che cadde sulla terra [1963], Roma, Minimum Fax, 2006

Ci sono libri che non sono nemmeno belli. Rudimentali, semplici, artigianali. Forse persino grossolani. Eppure sono libri che vorresti avere scritto tu. L’uomo che cadde sulla terra dovrebbe essere soltanto un libro di science-fiction; un’evoluzione dello schema dell’invasione aliena: il sedicente Thomas Jerome Newton attraversa il sistema solare per sbarcare in un paesino del Kentuky, dove si mescola agli umani imitandone le fattezze; qui, progressivamente, attraverso le sue conoscenze scientifiche dovute all’enormemente superiore tecnologia del pianeta di provenienza, Newton arriva a diventare un ricchissimo industriale, accumulando un colossale capitale economico. Grazie alla sua abnorme ricchezza, l’alieno avvia la costruzione di un progetto d’avanguardia, che si rivelerà un traghetto spaziale per trasportare gli altri abitanti del pianeta Anthea sul pianeta Terra, in cui si infiltreranno nelle posizioni di potere. Un  canovaccio non particolarmente rivoluzionario, insomma.
Però Tevis non è stato solo un autore di fantascienza, ed è anzi ben più noto per Lo spaccone e Il colore dei soldi, di cui sono state fatte celebri trasposizioni filmiche. Anche L’uomo che cadde sulla terra ha avuto una bellissima trasposizione, con un David Bowie al suo primo film da attore.
E ciò che rende questo romanzo un piccolo capolavoro è proprio che, come tutti i grandi libri di fantascienza, è ben più che solo questo.  Thomas Jerome Newton, infatti, non “scende”, non “arriva”, non “atterra”. Thomas Jerome Newton cadde.
La vicenda dell’antheano ha un correlativo oggettivo nella tavola di Bruegel il Vecchio, Paesaggio con caduta di Icaro, posseduto da uno dei personaggi. Nel dipinto, mentre – sulla fedele sinopia delle Metamorfosi di Ovidio (VIII 152-235) – la vita ferve, e gli uomini, ignari, attendono ai lavori quotidiani, in un angolo, sottratto anche allo sguardo dello spettatore frettoloso, il pennello afferra la tragedia sconosciuta, l’ultimo istante prima che le gambe di Icaro, al termine del volo, sprofondino per sempre nelle acque. E la prima sezione del romanzo si intitola proprio La discesa di Icaro.

Perché sotto l’involucro della fantascienza si snoda un romanzo polisemico e doloroso. Un grande apologo sulla solitudine e il fallimento, l’alienazione di chi attraversa un’esistenza disgustosa e fuori-posto: un’anatra sola in mezzo al lago, un migratore stanco.

Thomas Jerome Newton, alto uno e novanta, magrissimo, senza peli e capezzoli, senza unghie, quattro dita dei piedi, niente sterno niente denti del giudizio niente traspirazione niente appendice niente midollo niente coccige niente costole mobili, deve vivere camuffato, negando se stesso, per confondersi tra gli uomini; per lui, abituato a una gravità pari a un terzo di quella terrestre, e a un pianeta molto più freddo, ogni movimento è una terribile sofferenza, costretto ad assumere continue misteriose medicine per sopravvivere. Costretto a vivere in un mondo ripugnante, tra gli uomini come un uomo potrebbe vivere in un branco di scimmie.
Si sentì disgustato e stanco di quel popolo dozzinale ed estraneo, di quella cultura sfacciata, chiassosa, sensuale e priva di radici, di quell’aggregato di scimmie intelligenti, pruriginose ed egoiste, volgari e spensierate, mentre la loro effimera civiltà, come il ponte di Londra della canzoncina dei bambini, stava crollando insieme a tutti gli altri ponti.
La stanca nausea di chi non si riconosce nella propria vita, esule nella propria esistenza, lottando contro la nostalgia, la paura, il tempo. Perché il suo popolo, lassù, sta morendo, in un deserto freddo sconvolto dalle guerre atomiche; senza energia, materiali, cibo, i trecento antheani rimasti, e sua moglie e i suoi figli, muoiono poco a poco. E muore il pianeta Terra, precipitando rapinoso verso la catastrofe nucleare. L’unica speranza, per antheani e terrestri, è che lui riesca a costruire quel traghetto che possa trasportare tra gli umani gli ultimi antheani, sottraendoli alla morte per inedia e permettendo loro di salvare la Terra, quando ne avranno assunto la guida, dal suo destino. Ma Newton – cognome che ha in sé la legge inesorabile e naturale della gravità – non potrà infine che cadere.
Newton assurge infatti a figura cristologica, come quel crocifisso dai tratti antheani visto in una delle primissime pagine. Uno Jesus Patibilis, prigioniero della cecità di un mondo rozzo e impuro. Henri-Charles Puech, in Sul manicheismo, scrive: «Questo Gesù cosmico e atemporale è crocifisso sulla Materia cui la sua anima luminosa è “mescolata”. Il mondo intero è la “Croce della Luce”». Newton, che come tutti gli antheani, conosce il senso di colpa e di espiazione, sarà allora tradito, imprigionato, vilipeso, torturato, sconfitto. Così si segna il destino di Newton, la morte di due mondi, nella cecità, non più solo metaforica, in cui lo stesso antheano infine sprofonderà.
La fuga dalla paura, dalla malinconia, dallo sconforto, dalla tragedia, da una vita stupida e tremenda, può essere solo l’alcool. Tevis, alcolista cronico e doloroso, raffigura, in tutti i suoi personaggi, il rifugio e il sollievo nell’opacità donata dal gin. Questa storia di solitudine affonda nei lineamenti incerti del liquore e delle lacrime, da cui, quando tutto sarà compiuto, si alzerà una poesia triste, liquida, a lunghe vocali, con strane curve di tono levata verso un pianeta lontano, nella speranza che qualcuno possa ancora ascoltare il suo addio, là da qualche parte tra le stelle. Lama sabachtani.

Nell’Icaro di Bruegel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.
(W.H. Auden, Musée des Beaux Arts, 1938)