Su questo Blog

Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 29 gennaio 2012

Esule figlie di Irlanda

Colm Tóibín, Sud [1990], Roma, Fazi, 1999

Molti anni fa un’amica mi disse che da grande avrebbe fatto la scrittrice di romanzi rosa. “Che ci vuole: ambientazione esotica, magari anche con un fondale storico, la donna forte e fragile, l’uomo affascinante e straniante, qualche fantasma che non se ne vuole andare, un dramma da superare anche se ovviamente senza esagerare con l’analisi psicologica, qualche frase poetica”. D’accordo: un po’ meccanicistica come ricetta, e un po’ troppa fiducia nella prevedibilità del successo editoriale.

Debbo dire che non sono riuscito però a non pensare a quell’osservazione leggendo quest’opera prima di Tóibín. Katherine Proctor, bel nome protestante, fugge, un bel giorno del 1950, dalla sua benestante famiglia Anglo-Irish della contea di Wexford, da un matrimonio infelice, dal marito Tom, il figlio Richard, i possedimenti di famiglia, la propria storia. E dove andare? Che cosa di più esotico della Spagna? Per non dire, di Barcellona? Perché poi una protestante irlandese debba finire nella iper-cattolica Spagna del Franchismo trionfante, non è così lineare (il fatto che Tóibín ci fosse vissuto, ha il suo valore, ma certo non tanto all’interno del romanzo). E qui, smarrita e alla ricerca di se stessa, Katherine incontra l’affascinante Miguel. Pittore ed ex-combattente anarchico della guerra civile. Anche Katherine ha un certo penchant per la pittura. E diventano amanti, e questo è davvero un gran colpo di scena.
E a breve ai due si aggiunge Michael Graves. Bel cognome cattolico irlandese. Bel nome che è forma anglofona di Miguel. E anche qui, attenzione che il colpo di scena si avvicina, magari protraendolo alquanto. E tra l’altro, anche Michael Graves fa il pittore. Che va bene che Barcellona era città capitale della pittura, però, quando si dice le coincidenze...

Insomma, l’impianto del romanzo è decisamente forzato. Lo sviluppo, invece, riguarda uno di quelli che poi saranno i temi costanti di Tóibín, ossia lo sviluppo dell’identità. Dal 1950 al 1976, il romanzo si snoda ripercorrendo, ad anello, la vita di Katherine, fino al ritorno in Irlanda e il ricongiungimento con il figlio Richard (di solo dieci anni al momento dell’abbandono, e allora forse suona un po’ irrealistica la pacifica normalità dell’incontro), sempre con Michael Graves appresso.

Non c’è più Miguel, invece. Non per scelta. Perché la storia ha onde lunghe ma inesorabili, e la violenza della guerra civile continua a braccare i vivi e i morti. La violenza del passato di Miguel torna nelle forme dei ricordi, della tortura, della pazzia, dei sensi di colpa. E Katherine potrà ricordare i ricordi della propria infanzia, quei giorni violenti del 1920 della guerra d’indipendenza quando la loro casa fu bruciata dai cattolici, tra cui i parenti di Michael Graves. E qui abbiamo un secondo elemento caratteristico di Tóibín, la riflessione sulla storia e sull’identità irlandese. E se le pagine dedicate ai reduci della guerra civile spagnola riservano alcuni dei momenti migliori del libro, non aspettatevi però nulla di Omaggio alla Catalogna o I grandi cimiteri sotto la luna; e non vale dire che si tratta di altri generi.

È qui il problema; uno dei problemi maggiori del romanzo. A un certo punto, la guerra civile spagnola scompare. Scompare dal personaggio; scompare dal lettore. Un tratto negativo di fluidità dei personaggi: le più grandi tragedie, le grandi vicende, non sembrano realmente sedimentarsi nel vissuto, e questo al di là di alcuni passaggi in cui si cerca il virtuosismo doloroso, il lamento poetico e un po’ facile. A tratti, non c’è nemmeno la percezione che Katherine, alla fine del romanzo, sia una donna ormai prossima alla vecchiaia: certo, ce lo ricordano la nipotina, la madre ormai vecchissima, alcune osservazioni quasi scontate. Ma i pensieri, le reazioni, l’immaginazione, sono ancora quelli della donna che, trentenne, era partita per Barcellona. Katherine resta un personaggio indefinibile, non detto (e preferisco evitare la via di fuga che tutto ciò avvenga perché il personaggio sarebbe in realtà "indefinito a se stesso").

La stessa pittura dovrebbe essere un percorso del personaggio: i suoi studi, i suoi quadri, la sua ricerca figurativa, dovrebbe essere un sottotesto del suo sviluppo, della sua identità in evoluzione. Invece le ampie descrizioni dei suoi lavori, delle sue tecniche, delle sue esposizioni, non si integrano mai nel racconto, facendone quasi delle isole narrative, spesso noiose, sempre irrelate.

Insomma, certo non è un Harmony. Ne ha però molte movenze anche stilistiche, nella ricerca di un linguaggio forse troppo immaginoso, e un po’ stucchevole e pretenzioso nelle sue ventate liriche. L’amore che provava per lui, pensò, non era che un altro piccolo disegno di dolore e di felicità. L’amore che provava per lui era come un respiro sul vetro.
E l’esperimento di narratologia a cui avevo accennato, l’addebito alla traduttrice.

In questi casi si suol dire, “È un’opera prima”.

venerdì 27 gennaio 2012

Esperimento di esame di narratologia

Nella quarta facciata di un romanzo la cui scheda è in preparazione, mi imbatto in questo capoverso. Leggo e rileggo, e qualcosa non funziona.

Per una settimana ebbi la sensazione di essere saltata oltre una barriera di vetro, che ogni piccolo pezzetto del mio essere fosse ferito, o rotto, o pesto. Vagai come una rimbambita per Barcellona la mattina presto: i negozi che alzavano le saracinesche all’ora di apertura, i bambini che andavano a scuola. Notai la luce grigio-azzurra che addolciva la pietra. Giunsi in un angolo, questo angolo, l’angolo da cui sto guardando ora, e vidi una donna grassa con i capelli neri con la permanente che mi fissava da un balcone. L’insegna diceva «Pensión», al che le mandai una voce, indicando la mia valigia. Mi fece cenno con le mani di aspettare e subito il piccoletto, suo marito, scese di corsa per portare la valigia al primo piano. Le diedi il mio passaporto, e lei mi condusse in questa stanza.

Dopo il narratore esterno, quello interno, quello intradiegetico ed extradiegetico, abbiamo il narratore ubiquo.

lunedì 23 gennaio 2012

Dove sono i miei libri di ieri?

Stefan Zweig, Mendel dei libri [1976], Milano, Adelphi, 2008

Tragico cantore del “mondo di ieri”, della Austria Felix che ne era l’ipostasi, e di quei valori che vi si incarnavano, Stefan Zweig si suicidò dall’altro lato dell’oceano, in fuga dal Nazismo e da un mondo che rappresentava la negazione di tutto ciò che per Zweig erano civiltà e cultura. E su una nave diretta verso un esilio americano è ambientato il suo ultimo, e forse più famoso romanzo: isolati nel nulla della acque, da parte opposta di una scacchiera, emblema della lotta, si affrontano due uomini opposti e non conciliabili, e a soccombere sarà colui per il quale gli scacchi sono l’assoluto astratto, l’essenza e ragione di vita, la concentrazione abissale, la sofferenza, l’immagine stessa della dignità.

Anche in questo breve, brevissimo, racconto (cinquantatre pagine nel formato della “Biblioteca minima” adelphiana), incontriamo un personaggio astratto, totalitario, ossessivo. Ci arriviamo attraverso un preambolo lungo, forse apparentemente, fastidiosamente lungo: quell’io narrante che trova rifugio in un caffè viennese e si intestardisce a rievocare il remoto ricordo di una precedente visita. Pagine forse un po’ lunghe, sì, e che pure vogliono essere il tributo alla memoria, alla sua dolorosa labilità, alla stessa colpa dell’oblio di ciò che fu. Un tributo a quel tavolo che era tutto il mondo di Jacob Mendel, quel piccolo rivendugliolo galiziano che, per l’ancora giovane io narrante che entrava nella vita, fu simbolo della concentrazione assoluta, che rende tali l’artista e lo studioso, il vero saggio e il perfetto monomane, la tragica ventura e sventura della piena possessione.

Jacob Mendel non leggeva i suoi libri; li vendeva; ma soprattutto leggeva cataloghi e repertori, e da lì si formava il suo mondo: per lui tutti i fenomeni dell’esistenza acquistavano realtà solo dopo la fusione in caratteri da stampa. Una memoria prodigiosa, una concentrazione assoluta, portavano ogni riga letta a essere integrata nel mondo, e mai più rimossa. Jacob Mendel, giunto a Vienna da un shtetl per studiare alla scuola talmudica, valuta i libri secondo un rituale religioso, e legge ondeggiando come un giunco, come un vecchio ebreo nel shokelin, così come prescrive la Bibbia: “tutte le mie ossa canteranno le tue lodi”. E forse anche con quell’ondeggiare che è proprio degli autistici, ninna nanna e rassicurazione.

Ma un giorno scoppia la Grande Guerra. E Jacob non si chiama Jacob, ma Jainkeff, ed è nato a Petrikau, oltre confine. Quest’uomo, che ricorda ogni frontespizio anche solo intravisto, ogni xilografia menzionata in un catalogo, ogni prezzo di asta, non sa nulla della guerra. Per lui c’era solo l’eterno sapere e voler sempre più sapere. Un giorno – mentre Zweig alza il suo lamento sull’abbrutimento e la miseria intellettuale germinati nelle guerre – Jacob Mendel cederà di schianto anche lui, come lo scacchista de la Novella degli scacchi, alla ferocia cieca delle nuove leggi del nuovo mondo.

Il finale, nella sua facilità, ha la dolcezza confortante di un’epigrafe: i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio.

giovedì 19 gennaio 2012

And my ending is despair

Philip Roth, L’umiliazione, Torino, Einaudi, 2010

Una delle copertine più intense e pregnanti che io ricordi; una sedia vuota, file di poltroncine vuote, il buio di sala e pochi fogli di copione abbandonati a terra. Simon Axler aveva perso la sua magia. Il grande Simon Axler, ultimo erede del grande teatro classico americano, non sa più recitare. Il fiasco. Il ridicolo. A poco più di sessant’anni, non è rimasto nulla. L’addio alle scene. La depressione. Le pulsioni al suicidio. Il ricovero.

L’umiliazione non ha riscosso esattamente critiche univoche e entusiastiche. Roth scrive troppo. Si tratta ormai solo dei vaneggiamenti erotici di un vecchio. Un romanzetto caotico e disordinato, senza logica e senza verosimiglianza. Roth ormai è vecchio.

E di sicuro Roth non sarà ricordato per questo breve romanzo; di sesso, in effetti, ce n’è alquanto, declinato nelle sue varie combinazioni e applicazioni, ma cominciare un romanzo di Roth pretendendo l’illibatezza della pagina mi pare un po’ ingenuo; non siamo di fronte a un mirabile organismo narrativo naturale, anche questo è piuttosto evidente; la struttura interna è decisamente disequilibrata, con attriti marcati tra le parti. Senz’altro: però Philip Roth è Philip Roth è Philip Roth. E qualcosa, Philip Roth sa sempre dire.

Il romanzo si presenta chiaramente come un dramma in tre atti (e il titolo del terzo capitolo, L’ultimo atto, è fin troppo rivelatore); il secondo capitolo, La trasformazione, è senz’altro il meno riuscito. Quella relazione con Pegeen, quarantenne lesbica, che sembra essere per Simon Axler un nuovo inizio, una compensazione, tutto sommato, dà l’impressione, con i suoi toni un po’ forzati, di essere quasi un lungo pretesto per il finale. Anche l’analisi della vecchiaia in sé, malanni e paure, tutto sommato, è abbastanza piatta, e da un grande narratore ultra-settantenne ci si potrebbe aspettare ben altro. La parte decisamente più cupa e affascinante è il primo capitolo, In aria sottile, esplicita citazione da La Tempesta di Shakespeare, il dramma di Prospero, duca spodestato e mago imprigionato senza più poteri. Sono finiti i nostri giochi. Quegli attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono sciolti in aria, in aria sottile. Tutta la vita di Simon – è qui il nucleo del romanzo – è rivissuta nel segno del teatro, nel rapporto tra vita e parte, naturalezza e finzione paradossalmente scambiate e per lui ormai tragicamente confuse, o meglio, tragicamente incapaci di scambiarsi. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva, e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai. La tragedia di Simon Axler è di non potere più essere poiché non sa più recitare. L’unica parte disponibile per lui era quella di uno che interpreta una parte. L’involuzione di vedersi vivere, porta al vedersi recitare il proprio fiasco. La mattina se ne stava nascosto a letto per ore ma, invece di nascondersi da quel ruolo, recitava quel ruolo.

Il suo psichiatra in fondo vede giusto. Andare in scena e scoprire di essere incapaci di recitare faceva parte del repertorio classico dei sogni che un giorno o l’altro quasi tutti i pazienti riferivano. Non saper recitare, è la forma del non saper più vivere. E non saper più recitare, è non saper più essere, non avere più identità. Ma allora forse, almeno in parte, anche la relazione con Pegeen, anche tutto quel sesso vario e forse per molti fastidioso, ha un senso. Perché il sesso stesso è l’assunzione di un ruolo e di una natura, e perché Pegeen, con i suoi switch, le sue pratiche e la sua panoplia pornografica, in fondo, è quasi simbolo e allegoria della ricerca di un’identità (Era come se portasse una maschera sui genitali, una misteriosa maschera totemica che la trasformava in ciò che non era e non doveva essere). E perché quella relazione per Simon Axler, nuovamente, è questione di identità per lei (Non voleva per caso obbligarla a fingere di essere diversa da quella che era?) e per sé (attore? padre? marito?).

E allora nell’ultimo atto tutto torna al teatro, a quel rifiuto del ruolo di James Tyrone del Lungo viaggio verso la notte di O’Neill (altra tragedia dell’attore), a il Gabbiano di Cechov (tragedia di teatro). Ottaviano Augusto morendo disse “La commedia è finita. Applaudite”; un altro imperatore, “Quale artista muore con me”. L’ultima esibizione dovrà essere la più perfetta, perché si andrà in scena una volta sola. La magia del teatro può esistere anche in un solaio quando si ha un buon copione da seguire.

domenica 15 gennaio 2012

Tolle et nemini legere

Poco si sa della vita di Ugo di San Vittore, uno dei più geniali e creativi intellettuali del Medioevo; se giusti sono i pochi dati della sua scarna biografia, poco più che ventenne compose il Didascalicon, un impressionante compendio metodologico per lo studio, una guida ragionata rivolta ai suoi allievi all’abbazia di San Vittore, e a quelli a ogni distanza di tempo e di spazio. Nondimeno, Ugo di San Vittore, la cui potenza intellettuale lo fece posporre dai contemporanei al solo Agostino di Ippona, deposita nella sua pagina l’ammonimento per chi sia portato a perdersi nella fuga ad infinitum della lettura (V viii).

Bisogna tener presente che le letture possono diventare noiose ed affliggere lo spirito in due modi: per la loro qualità, se sono di difficile comprensione, e per la loro quantità, se sono protratte troppo nel tempo. Riguardo a questi due pericoli è necessario sapersi regolare con grande moderazione, affinché il cibo che abbiamo voluto per nostro nutrimento non abbia a soffocarci. Vi sono alcuni che vogliono leggere ogni scritto; tu non gareggiare con costoro, abbi il senso della misura. Non importa affatto che tu non riesca a leggere tutti i libri. Il numero dei libri è illimitato, tu non cercare l’infinito. (trad. di V. Liccaro)

martedì 10 gennaio 2012

Shall we dance?

Bastien Vivès, Polina [2011], Firenze, Black Velvet, 2011, euro 19

Vivès, uno dei più promettenti autori della scena francese del fumetto, si è già segnalato per il suo gusto per la ricerca formale. Dopo l’instabilità della camera e le tinte chimiche di Il gusto del cloro e dopo le soggettive pastello di Nei miei occhi, Vivès sperimenta una nuova forma grafica. Una rigorosissima tricromia, bianco, nero, grigio tabacco. Anche il respiro dell’opera muta profondamente: dopo i due precedenti brevi volumetti, storie lievi o dolorose di giovinezza vissute sull’arco di pochi giorni, Polina ambisce a essere un vero graphic-novel, con le sue duecento e rotte pagine, con il racconto complesso di una vita, con un argomento che va ben oltre l’innamoramento adolescenziale. Insomma, il primo opus maius.

Polina, infatti, è la storia di Polina Oulinov e della sua formazione come ballerina. Dal giorno della prima audizione a sei anni per entrare nella scuola di danza del maestro Bojinski fino al successo internazionale. Una vita fatta di rinunce e sconfitte, fughe e sconfitte, amori perduti e delusioni. Tutto, sempre, alla ricerca del concetto di arte; dell’equilibrio fragile tra espressione e forma; e alla ricerca, in fondo, della forma più alta del sé, quella di un maestro da abbandonare e ritrovare. Non serve a niente andare più in alto possibile se non ci si prende il tempo di contemplarlo. Allora quando è in alto prenda tempo.

L’opera è ambiziosa, senz’altro, soprattutto da un punto di vista grafico. Però, mentre le scelte (punto di vista, taglio, tecniche, cromatismo) dei due primi lavori erano davvero coerenti con il racconto, qui forse così non è; certo l’abilità grafica di Vivès è evidentissima nella sua capacità– con soli vuoti e pieni, nero e bianco, tratti e movimenti e fughe di linee – di tracciare plastici abbozzi: in alcuni casi sono tavole da guardare e studiare, come in questo allenamento di due amanti nella camera da letto. 




A volte, pur perdendosi un po’ la pagina, il monocromatismo dominante permette di far emergere uno dei tratti tipici dello stile di Vivès, ossia il racconto muto senza battute, quasi a ricostruire un piano-sequenza come in questa tavola in cui l’ancora giovanissima Polina si muove incerta per corridoi affollati di speranze e timori e gremite solitudini.





Nel complesso, però, questa grafica stanca, e l’occhio tende un po’ a perdersi, senza essere ridestato da innovativi movimenti grafici. La storia stessa, nel complesso, non è particolarmente avvincente, né concettualmente o emotivamente approfondita. Non che si pretendesse un Ritratto della ballerina da cucciola, naturalmente. L’impressione, un po’ sgradevole, è quello di uno dei tanti talent-show fatto fumetto: amore, audizioni, allenamenti, ribellione contro il giudice che non capisce il genio; sofferenze varie e assortite; ma alla fine il giovane vince. Insomma, qualcosa di non necessario.

giovedì 5 gennaio 2012

Il delitto fuori dalla camera chiusa

Georges Simenon, La camera azzurra [1964], Milano, Adelphi, 2008

Ogni romanzo poliziesco è, a più livelli, una sfida di intelligenza e capacità ermeneutico-narrativa: il lettore deve riuscire a ricostruire il caso giudiziario prima dell’investigatore, ossia prima che sia l’autore stesso a rivelare la soluzione; questi, viceversa, deve fornire al suo lettore gli indizi necessari al disvelamento del mistero, in maniera tale però che la realtà venga colta il più tardi possibile, o potenzialmente occorra l’intervento del narratore stesso, mantenendo così lo scopo della lettura. Sfida di abilità, dunque, è anche quella dell’autore con se stesso: riuscire a modellare la forma narrativa in modo che il massimo di chiarezza si combini con il massimo di complessità e ambiguità.

La Camera azzurra tocca i virtuosismi del genere: anche qui sono presenti tutti gli elementi del giallo; delitto : indagine : soluzione. Qui, però, il romanzo coincide con l’indagine, e la sfida tra autore e lettore riguarda la natura del delitto stesso, e con esso la soluzione. Solo alle ultimissime pagine del romanzo si capisce quale sia il delitto, e chi sia la vittima. Non solo: l’indagine non è nemmeno una vera indagine, che è avvenuta anteriormente al tempo della storia, e a cui sono fatti solo brevi accenni facendone emergere uno a uno gli elementi come dati di realtà ormai inevitabili. L’indagine è in realtà l’interrogatorio, o piuttosto gli interrogatori a cui è sottoposto il sospetto.

Questo totale ribaltamento, questa estrema dilazione del delitto che origina il romanzo, è ben altro, però, che un caso di ricerca del limite della forma romanzo poliziesco; nessun Assassinio di Roger Ackroyd in circolazione. La forma romanzo poliziesco serve per andare oltre il genere. E per produrre un capolavoro il cui centro è una riflessione sul destino, sulla responsabilità, sulla distanza tra apparenza e verità interiore. L’indagine, infatti, più che far emergere la verità da un sospetto è quanto serve a quest’ultimo per far emergere da se stesso e per se stesso la propria verità.

E infatti l’interrogatorio di Tony trapassa in continuazione dal fitto dialogo con il magistrato inquirente al ricordo silenzioso; e con un ricordo silenzioso comincia il romanzo, con quanto accaduto nell’ultimo incontro con la sua amante Andrée nella “camera azzurra” dell’Hotel des Voyageurs. «Ti ho fatto male?». «No». «Ce l’hai con me?». «No». Da qui il narratore continua a spostarsi tra passato e presente, tra ricordo e interrogatorio, in una sofferta ricostruzione degli eventi. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d’animo diverso, da un punto di vista diverso... Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l’avrebbero costretto a farlo. Solo a questo punto il lettore comprende che ciò che ha letto fino ad ora non è semplice narratore onnisciente, un ricordo. Ma un ricordo provocato da precise domande dell’inquirente; forma memoriale di dichiarazioni a verbale. E frammenti di dialoghi e battute con l’amante tornano in continuazione lungo il romanzo, in forme diverse, con fini e sensi sempre diversi nella procedura della ricostruzione giudiziaria, ma soprattutto nel percorso di svelamento di Tony a se stesso. Era questo che stava pensando in quel momento? L’avrebbe capito soltanto dopo.

E in tale percorso ciò che Tony realmente comprende è come sia diversa la vita nel momento in cui la si vive e quando la si analizza a distanza di tempo. E come esista uno scarto che separa il suo linguaggio da quello dell’inquirente, e una distanza tra da una parte i suoi pensieri e quanto accaduto nella “camera azzurra” con le sue logiche proprie e la sua leggerezza (Non c’era niente di reale nella camera azzurra. O piuttosto si trattava di una realtà diversa, impossibile da comprendere altrove), e dall'altra l’immagine che tutti si sono creati su quanto accaduto. Vero e falso, come tutto il resto. E Tony comprende la propria incapacità di dare peso a eventi e parole: Davvero c’è gente che passa la vita a guardarsi allo specchio e a interrogarsi su se stessa? Tony comprende la tragica distanza tra leggerezza e noncuranza del vivere e responsabilità individuale (p. 140). Perché quanto accaduto è davvero una tragedia greca, in cui responsabilità e innocenza, colpa e disgrazia si annodano nell’errore inconsapevole. E tutto quanto ne verrà, sarà solo l’inevitabile inarrestabile tragedia: Il 17 febbraio segnava la fine, la fine di tutto, una fine che lui non aveva previsto ... e che tuttavia , adesso che non c’era più niente da fare, gli sembrava logica e inevitabile.

Il giudice Diem in fondo non è altro che il corifeo; e gli stessi paesani che vorrebbero linciare Tony sono solo il coro greco, voce della cittadinanza e del diritto normato. L’eroe tragico è solo in scena.

domenica 1 gennaio 2012

Assassini d’Argentina

Ernesto Sabato, Il tunnel [1948], Milano, Feltrinelli, 2010

Sarà sufficiente dire che sono Juan Pablo Castel, il pittore che ha ucciso María Iribarne, e così comincia questo piccolo romanzo – subito riconosciuto come un capolavoro (Camus, Mann e Greene, per dire) – nella forma di un memoriale scritto dal carcere. E con questo incipit è sistemato chi legge un libro per sapere come va a finire.  E figuriamoci, poi, se il libro in questione è un giallo.

E Il tunnel può essere un contro-giallo. J.P. Castel nel suo memoriale ricorda una sgradevolmente vacua ed elegante cena in cui Hunter, il suo nemesi-rivale che lo porterà alla gelosia e all’omicidio, espone una propria teoria sul romanzo poliziesco: questo, come il romanzo cavalleresco nel Seicento, è divenuto una forma del mondo contemporaneo, e ormai resta solo da attendere un nuovo Chisciotte, ossia un romanzo che costituisca la parodia e lo svuotamento del genere giallo. Un’opera in cui un uomo che ha passato la vita a leggere romanzi gialli sia arrivato alla follia di credere che il mondo funziona come un romanzo di Nicholas Blake o di Ellery Queen, e si muova quindi nella vita reale come il detective di un romanzo giallo. Credo che ne potrebbe venir fuori qualcosa di divertente, tragico, simbolico, satirico e accattivante.

Una teoria che costituisce in un certo senso il prisma di rifrazione dell’intero romanzo, dell’esistenza intera di J.P. Castel. L’io narrante-omicida infatti affronta ogni aspetto della sua esistenza come se fosse un’indagine poliziesca, crocifiggendosi a una logica straziante e raggelante, estenuando ogni spinta vitale nell’asfissia di un ragionamento induttivo implacabile e soffocante. Castel ha bisogno di sapere, sapere della sincerità e totalità dell’amore di María per lui. Ma l’incapacità di aderire alla vita, alla sua naturalezza, lo porta a ipotizzare scenari che cerchino disperatamente di esaurire l’intero spettro delle possibili realtà, e a ingessare il flusso della vita in lucidi e rigorosi percorsi in cui tutto sia già calcolato e previsto: Tornavo dunque a immaginare dialoghi il più possibile efficaci e rapidi che partissero dalla frase: “Dov’è la posta centrale?” fino alla discussione su certi aspetti dell’espressionismo o del surrealismo. Non era affatto facile.

Castel arriva così a elaborare una superfetazione di ipotesi, a costruzioni immaginarie ... presuntuose quanto la ricostruzione di un dinosauro realizzata a partire da una vertebra rotta (p. 30). Ogni parola si trasforma in sospetto, ogni sguardo in incubo: ragionamenti tanto estremi e paradossali e consequenziali, da essere sillogismi della paranoia: María e la prostituta avevano avuto un’espressione simile; la prostituta simulava piacere; María, dunque, simulava piacere; María è una prostituta (p. 130)

Nella famosa cena in cui si discute di romanzi gialli, Hunter si diletta di comunicare una sua geniale idea di poliziesco, quella di un uomo a cui, uno a uno, vengono uccisi tutti i parenti e allora, fattosi detective, arriva induttivamente e logicamente a scoprire che l’assassino colpirà ancora in un dato luogo e in un dato momento. Recatosi sulla scena del delitto per cogliere in flagranza il colpevole, si ritrova solo, e viene colto dalla tragica rivelazione che è stato lui ad avere ucciso tutti suoi cari. Logica feroce e omicidio coincidono, sovrapponendosi in una forma di pazzia. E la parola “pazzo” è una delle isoglosse di questo breve romanzo.

Una pazzia che nasce dalla solitudine, dallo straniamento, dal bisogno disperato di uscire dal tunnel esistenziale che Castel è costretto a percorrere. Castel è un pittore, e un giorno, a un’esposizione, una donna osserva un particolare minimo di un suo quadro, sfuggito a tutti gli altri: in un interno, si apre sulla sinistra una finestrella, attraverso la quale si vede una donna, in una spiaggia deserta, che guarda verso il mare. La scena suggeriva, secondo me, una solitudine angosciata e assoluta. Da lì comincia la rabbiosa ricerca di quella donna, María, che sola sembra avere capito l’elemento essenziale del quadro, e avere capito l’anima del pittore, e poterlo amare, e esserne amata. Quella donna è la stessa finestra, il varco, da cui fuggire, la promessa di qualcosa remoto.

Ma María forse è molto diversa da quanto promesso. Forse è soltanto viva. Comincia così anche la ricerca della verità, una ricerca che non può essere esaudita, perché ciò che viene percorso è il tunnel dell’ossessione, pronta al tormento di ogni particolare, fino all’inevitabile esito. E al riguardo la sequenza degli incipit dei capitoli (e qualcosa si potrebbe dire anche degli explicit) è magistrale: a Sarà sufficiente dire che sono Juan Pablo Castel, il pittore che ha ucciso María Iribarne (cap. 1) segue Come dicevo, mi chiamo Juan Pablo Castel (cap. 2), e ancora Tutti sanno che ho ucciso María Iribarne Hunter (cap. 3), e infine, Un giorno finalmente la vidi per strada (cap. 4), e ancora Ma sono andato fuori strada (cap. 5), e poi Quando la vidi camminare sul marciapiede opposto, tutte le varianti si mescolarono e cominciarono a turbinare nella mia testa (cap. 6). L’ossessione costante di un tema, di un motivo, di un pensiero.

Il mondo sotterraneo della tragedia e della sofferenza umane danno vita alla metafora di un moderno mito platonico della caverna (Fu come se le immagini di un incubo sfilassero vertiginosamente sotto la luce di un mostruoso riflettore, p. 131 e Sentii che una nera caverna andava ingrandendosi dentro di me, p. 147), in cui l’uomo è relegato nel tunnel della propria vita: in ogni caso, c’era un solo tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita (p. 141). In questo tunnel dell’incomunicabilità, l’uomo potrà soltanto ogni tanto, attraverso un varco fugace, sperare di poter vedere, con il viso schiacciato contro il muro di cristallo, la donna. E a volte, invece, la donna non sarà là, in quel breve pertugio che connette il tunnel e il mondo esterno: e allora sentivo che il mio destino era infinitamente più solitario di quanto avessi immaginato (p. 142).

Con la morte di María si è chiusa la finestrella del quadro, la vista sul mare sconfinato, l’attesa. La caverna sigillata. E i muri di questo inferno saranno, così, sempre più ermetici. Così finisce il romanzo; tutto già detto dalla prima riga; tutto già scritto nella logica della disperazione.