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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

lunedì 23 gennaio 2012

Dove sono i miei libri di ieri?

Stefan Zweig, Mendel dei libri [1976], Milano, Adelphi, 2008

Tragico cantore del “mondo di ieri”, della Austria Felix che ne era l’ipostasi, e di quei valori che vi si incarnavano, Stefan Zweig si suicidò dall’altro lato dell’oceano, in fuga dal Nazismo e da un mondo che rappresentava la negazione di tutto ciò che per Zweig erano civiltà e cultura. E su una nave diretta verso un esilio americano è ambientato il suo ultimo, e forse più famoso romanzo: isolati nel nulla della acque, da parte opposta di una scacchiera, emblema della lotta, si affrontano due uomini opposti e non conciliabili, e a soccombere sarà colui per il quale gli scacchi sono l’assoluto astratto, l’essenza e ragione di vita, la concentrazione abissale, la sofferenza, l’immagine stessa della dignità.

Anche in questo breve, brevissimo, racconto (cinquantatre pagine nel formato della “Biblioteca minima” adelphiana), incontriamo un personaggio astratto, totalitario, ossessivo. Ci arriviamo attraverso un preambolo lungo, forse apparentemente, fastidiosamente lungo: quell’io narrante che trova rifugio in un caffè viennese e si intestardisce a rievocare il remoto ricordo di una precedente visita. Pagine forse un po’ lunghe, sì, e che pure vogliono essere il tributo alla memoria, alla sua dolorosa labilità, alla stessa colpa dell’oblio di ciò che fu. Un tributo a quel tavolo che era tutto il mondo di Jacob Mendel, quel piccolo rivendugliolo galiziano che, per l’ancora giovane io narrante che entrava nella vita, fu simbolo della concentrazione assoluta, che rende tali l’artista e lo studioso, il vero saggio e il perfetto monomane, la tragica ventura e sventura della piena possessione.

Jacob Mendel non leggeva i suoi libri; li vendeva; ma soprattutto leggeva cataloghi e repertori, e da lì si formava il suo mondo: per lui tutti i fenomeni dell’esistenza acquistavano realtà solo dopo la fusione in caratteri da stampa. Una memoria prodigiosa, una concentrazione assoluta, portavano ogni riga letta a essere integrata nel mondo, e mai più rimossa. Jacob Mendel, giunto a Vienna da un shtetl per studiare alla scuola talmudica, valuta i libri secondo un rituale religioso, e legge ondeggiando come un giunco, come un vecchio ebreo nel shokelin, così come prescrive la Bibbia: “tutte le mie ossa canteranno le tue lodi”. E forse anche con quell’ondeggiare che è proprio degli autistici, ninna nanna e rassicurazione.

Ma un giorno scoppia la Grande Guerra. E Jacob non si chiama Jacob, ma Jainkeff, ed è nato a Petrikau, oltre confine. Quest’uomo, che ricorda ogni frontespizio anche solo intravisto, ogni xilografia menzionata in un catalogo, ogni prezzo di asta, non sa nulla della guerra. Per lui c’era solo l’eterno sapere e voler sempre più sapere. Un giorno – mentre Zweig alza il suo lamento sull’abbrutimento e la miseria intellettuale germinati nelle guerre – Jacob Mendel cederà di schianto anche lui, come lo scacchista de la Novella degli scacchi, alla ferocia cieca delle nuove leggi del nuovo mondo.

Il finale, nella sua facilità, ha la dolcezza confortante di un’epigrafe: i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio.

5 commenti:

  1. L'ho letto ieri, anche invogliata da te. I temi della memoria e dell'identità mi prendono sempre molto, e direi che qui ci potevano essere gli ingredienti giusti ed essenziali (compreso lo scenario storico-geografico) per svilupparli. Ma non ti sembra che alla fine si rimanga un po' a bocca asciutta? Per Mendel la memoria consiste nel custodire dati bibliografici, e non contenuti. E poiché la sua identità coincide con il suo lavoro, mi chiedo se non sia più l'identità di un ragioniere che quella di un devoto alla conoscenza. Spiegami, per favore. Perché, voglio dire, le parole non sono numeri: sono pezzi di anima racchiusi nei libri, e i libri non sono oggetti (anche rari, preziosi, commercialmente interessanti) ma veicoli del pensiero lungo la Storia.

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  3. Guarda, concordo che senz'altro è un racconto minore, e nemmeno perfettamente riuscito. Poi, francamente, spiegare, non spetta a me. Credo però che, trattandosi di Zweig, in lui ci sia sempre la consapevolezza che il mondo che rimpiange è un mondo superiore proprio perché malato. Cioè che era eccezionale in Mendel era la sua unicità, la sua anomalia, il suo essere memoria, di qualsiasi cosa lo fosse. Per Zweig il nuovo mondo, fosse l'Austria repubblicana o il nazismo, secondo me, è un mondo cupo anche perché omogeneo, in cui non c'è più posto per scacchisti nevrotici, bibliomani astratti, storie culturali differenti, o piccole minoranze etnico-religiose. Un mondo in cui, per la stessa ragione, dominano economia ed efficienza: e non a caso Mendel viene massacrato dalla puntigliosità burocratica.
    Insomma, in un certo senso, forse Mendel avrebbe potuto anche raccogliere bambole di ceramica, e non sarebbe stato diverso. Poi, ripeto, sono d'accordo con te che, nel racconto, qualche ambiguità sul concetto di cultura, c'è.
    Così, mie fragili impressioni.

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  4. Ti ringrazio, tenevo molto a confrontare questa mia perplessità con te. Leggerti, ascoltarti e magari scambiare qualche volta un punto di vista o un interrogativo è per me un piacere e una scoperta. Hai un tono pacato che favorisce la riflessione e fa bene allo spirito, soprattutto quando questo è in conflitto con la fretta materiale del quotidiano.

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  5. Grazie, ma bada che tendo a imbarazzarmi. E' comunque sempre un piacere avere un confronto di letture, né pensavo di poter davvero indurre qualcuno a prendere in mano uno dei miei libri schedati.

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