Ernesto Sabato, Il tunnel [1948], Milano, Feltrinelli, 2010
Sarà sufficiente dire che sono Juan Pablo Castel, il pittore che ha ucciso María Iribarne, e così comincia questo piccolo romanzo – subito riconosciuto come un capolavoro (Camus, Mann e Greene, per dire) – nella forma di un memoriale scritto dal carcere. E con questo incipit è sistemato chi legge un libro per sapere come va a finire. E figuriamoci, poi, se il libro in questione è un giallo.
E Il tunnel può essere un contro-giallo. J.P. Castel nel suo memoriale ricorda una sgradevolmente vacua ed elegante cena in cui Hunter, il suo nemesi-rivale che lo porterà alla gelosia e all’omicidio, espone una propria teoria sul romanzo poliziesco: questo, come il romanzo cavalleresco nel Seicento, è divenuto una forma del mondo contemporaneo, e ormai resta solo da attendere un nuovo Chisciotte, ossia un romanzo che costituisca la parodia e lo svuotamento del genere giallo. Un’opera in cui un uomo che ha passato la vita a leggere romanzi gialli sia arrivato alla follia di credere che il mondo funziona come un romanzo di Nicholas Blake o di Ellery Queen, e si muova quindi nella vita reale come il detective di un romanzo giallo. Credo che ne potrebbe venir fuori qualcosa di divertente, tragico, simbolico, satirico e accattivante.
Una teoria che costituisce in un certo senso il prisma di rifrazione dell’intero romanzo, dell’esistenza intera di J.P. Castel. L’io narrante-omicida infatti affronta ogni aspetto della sua esistenza come se fosse un’indagine poliziesca, crocifiggendosi a una logica straziante e raggelante, estenuando ogni spinta vitale nell’asfissia di un ragionamento induttivo implacabile e soffocante. Castel ha bisogno di sapere, sapere della sincerità e totalità dell’amore di María per lui. Ma l’incapacità di aderire alla vita, alla sua naturalezza, lo porta a ipotizzare scenari che cerchino disperatamente di esaurire l’intero spettro delle possibili realtà, e a ingessare il flusso della vita in lucidi e rigorosi percorsi in cui tutto sia già calcolato e previsto: Tornavo dunque a immaginare dialoghi il più possibile efficaci e rapidi che partissero dalla frase: “Dov’è la posta centrale?” fino alla discussione su certi aspetti dell’espressionismo o del surrealismo. Non era affatto facile.
Castel arriva così a elaborare una superfetazione di ipotesi, a costruzioni immaginarie ... presuntuose quanto la ricostruzione di un dinosauro realizzata a partire da una vertebra rotta (p. 30). Ogni parola si trasforma in sospetto, ogni sguardo in incubo: ragionamenti tanto estremi e paradossali e consequenziali, da essere sillogismi della paranoia: María e la prostituta avevano avuto un’espressione simile; la prostituta simulava piacere; María, dunque, simulava piacere; María è una prostituta (p. 130)
Nella famosa cena in cui si discute di romanzi gialli, Hunter si diletta di comunicare una sua geniale idea di poliziesco, quella di un uomo a cui, uno a uno, vengono uccisi tutti i parenti e allora, fattosi detective, arriva induttivamente e logicamente a scoprire che l’assassino colpirà ancora in un dato luogo e in un dato momento. Recatosi sulla scena del delitto per cogliere in flagranza il colpevole, si ritrova solo, e viene colto dalla tragica rivelazione che è stato lui ad avere ucciso tutti suoi cari. Logica feroce e omicidio coincidono, sovrapponendosi in una forma di pazzia. E la parola “pazzo” è una delle isoglosse di questo breve romanzo.
Una pazzia che nasce dalla solitudine, dallo straniamento, dal bisogno disperato di uscire dal tunnel esistenziale che Castel è costretto a percorrere. Castel è un pittore, e un giorno, a un’esposizione, una donna osserva un particolare minimo di un suo quadro, sfuggito a tutti gli altri: in un interno, si apre sulla sinistra una finestrella, attraverso la quale si vede una donna, in una spiaggia deserta, che guarda verso il mare. La scena suggeriva, secondo me, una solitudine angosciata e assoluta. Da lì comincia la rabbiosa ricerca di quella donna, María, che sola sembra avere capito l’elemento essenziale del quadro, e avere capito l’anima del pittore, e poterlo amare, e esserne amata. Quella donna è la stessa finestra, il varco, da cui fuggire, la promessa di qualcosa remoto.
Ma María forse è molto diversa da quanto promesso. Forse è soltanto viva. Comincia così anche la ricerca della verità, una ricerca che non può essere esaudita, perché ciò che viene percorso è il tunnel dell’ossessione, pronta al tormento di ogni particolare, fino all’inevitabile esito. E al riguardo la sequenza degli incipit dei capitoli (e qualcosa si potrebbe dire anche degli explicit) è magistrale: a Sarà sufficiente dire che sono Juan Pablo Castel, il pittore che ha ucciso María Iribarne (cap. 1) segue Come dicevo, mi chiamo Juan Pablo Castel (cap. 2), e ancora Tutti sanno che ho ucciso María Iribarne Hunter (cap. 3), e infine, Un giorno finalmente la vidi per strada (cap. 4), e ancora Ma sono andato fuori strada (cap. 5), e poi Quando la vidi camminare sul marciapiede opposto, tutte le varianti si mescolarono e cominciarono a turbinare nella mia testa (cap. 6). L’ossessione costante di un tema, di un motivo, di un pensiero.
Il mondo sotterraneo della tragedia e della sofferenza umane danno vita alla metafora di un moderno mito platonico della caverna (Fu come se le immagini di un incubo sfilassero vertiginosamente sotto la luce di un mostruoso riflettore, p. 131 e Sentii che una nera caverna andava ingrandendosi dentro di me, p. 147), in cui l’uomo è relegato nel tunnel della propria vita: in ogni caso, c’era un solo tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita (p. 141). In questo tunnel dell’incomunicabilità, l’uomo potrà soltanto ogni tanto, attraverso un varco fugace, sperare di poter vedere, con il viso schiacciato contro il muro di cristallo, la donna. E a volte, invece, la donna non sarà là, in quel breve pertugio che connette il tunnel e il mondo esterno: e allora sentivo che il mio destino era infinitamente più solitario di quanto avessi immaginato (p. 142).
Con la morte di María si è chiusa la finestrella del quadro, la vista sul mare sconfinato, l’attesa. La caverna sigillata. E i muri di questo inferno saranno, così, sempre più ermetici. Così finisce il romanzo; tutto già detto dalla prima riga; tutto già scritto nella logica della disperazione.
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