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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

giovedì 19 gennaio 2012

And my ending is despair

Philip Roth, L’umiliazione, Torino, Einaudi, 2010

Una delle copertine più intense e pregnanti che io ricordi; una sedia vuota, file di poltroncine vuote, il buio di sala e pochi fogli di copione abbandonati a terra. Simon Axler aveva perso la sua magia. Il grande Simon Axler, ultimo erede del grande teatro classico americano, non sa più recitare. Il fiasco. Il ridicolo. A poco più di sessant’anni, non è rimasto nulla. L’addio alle scene. La depressione. Le pulsioni al suicidio. Il ricovero.

L’umiliazione non ha riscosso esattamente critiche univoche e entusiastiche. Roth scrive troppo. Si tratta ormai solo dei vaneggiamenti erotici di un vecchio. Un romanzetto caotico e disordinato, senza logica e senza verosimiglianza. Roth ormai è vecchio.

E di sicuro Roth non sarà ricordato per questo breve romanzo; di sesso, in effetti, ce n’è alquanto, declinato nelle sue varie combinazioni e applicazioni, ma cominciare un romanzo di Roth pretendendo l’illibatezza della pagina mi pare un po’ ingenuo; non siamo di fronte a un mirabile organismo narrativo naturale, anche questo è piuttosto evidente; la struttura interna è decisamente disequilibrata, con attriti marcati tra le parti. Senz’altro: però Philip Roth è Philip Roth è Philip Roth. E qualcosa, Philip Roth sa sempre dire.

Il romanzo si presenta chiaramente come un dramma in tre atti (e il titolo del terzo capitolo, L’ultimo atto, è fin troppo rivelatore); il secondo capitolo, La trasformazione, è senz’altro il meno riuscito. Quella relazione con Pegeen, quarantenne lesbica, che sembra essere per Simon Axler un nuovo inizio, una compensazione, tutto sommato, dà l’impressione, con i suoi toni un po’ forzati, di essere quasi un lungo pretesto per il finale. Anche l’analisi della vecchiaia in sé, malanni e paure, tutto sommato, è abbastanza piatta, e da un grande narratore ultra-settantenne ci si potrebbe aspettare ben altro. La parte decisamente più cupa e affascinante è il primo capitolo, In aria sottile, esplicita citazione da La Tempesta di Shakespeare, il dramma di Prospero, duca spodestato e mago imprigionato senza più poteri. Sono finiti i nostri giochi. Quegli attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono sciolti in aria, in aria sottile. Tutta la vita di Simon – è qui il nucleo del romanzo – è rivissuta nel segno del teatro, nel rapporto tra vita e parte, naturalezza e finzione paradossalmente scambiate e per lui ormai tragicamente confuse, o meglio, tragicamente incapaci di scambiarsi. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva, e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai. La tragedia di Simon Axler è di non potere più essere poiché non sa più recitare. L’unica parte disponibile per lui era quella di uno che interpreta una parte. L’involuzione di vedersi vivere, porta al vedersi recitare il proprio fiasco. La mattina se ne stava nascosto a letto per ore ma, invece di nascondersi da quel ruolo, recitava quel ruolo.

Il suo psichiatra in fondo vede giusto. Andare in scena e scoprire di essere incapaci di recitare faceva parte del repertorio classico dei sogni che un giorno o l’altro quasi tutti i pazienti riferivano. Non saper recitare, è la forma del non saper più vivere. E non saper più recitare, è non saper più essere, non avere più identità. Ma allora forse, almeno in parte, anche la relazione con Pegeen, anche tutto quel sesso vario e forse per molti fastidioso, ha un senso. Perché il sesso stesso è l’assunzione di un ruolo e di una natura, e perché Pegeen, con i suoi switch, le sue pratiche e la sua panoplia pornografica, in fondo, è quasi simbolo e allegoria della ricerca di un’identità (Era come se portasse una maschera sui genitali, una misteriosa maschera totemica che la trasformava in ciò che non era e non doveva essere). E perché quella relazione per Simon Axler, nuovamente, è questione di identità per lei (Non voleva per caso obbligarla a fingere di essere diversa da quella che era?) e per sé (attore? padre? marito?).

E allora nell’ultimo atto tutto torna al teatro, a quel rifiuto del ruolo di James Tyrone del Lungo viaggio verso la notte di O’Neill (altra tragedia dell’attore), a il Gabbiano di Cechov (tragedia di teatro). Ottaviano Augusto morendo disse “La commedia è finita. Applaudite”; un altro imperatore, “Quale artista muore con me”. L’ultima esibizione dovrà essere la più perfetta, perché si andrà in scena una volta sola. La magia del teatro può esistere anche in un solaio quando si ha un buon copione da seguire.

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