Colm Tóibín, Sud [1990], Roma, Fazi, 1999
Molti anni fa un’amica mi disse che da grande avrebbe fatto la scrittrice di romanzi rosa. “Che ci vuole: ambientazione esotica, magari anche con un fondale storico, la donna forte e fragile, l’uomo affascinante e straniante, qualche fantasma che non se ne vuole andare, un dramma da superare anche se ovviamente senza esagerare con l’analisi psicologica, qualche frase poetica”. D’accordo: un po’ meccanicistica come ricetta, e un po’ troppa fiducia nella prevedibilità del successo editoriale.
Debbo dire che non sono riuscito però a non pensare a quell’osservazione leggendo quest’opera prima di Tóibín. Katherine Proctor, bel nome protestante, fugge, un bel giorno del 1950, dalla sua benestante famiglia Anglo-Irish della contea di Wexford, da un matrimonio infelice, dal marito Tom, il figlio Richard, i possedimenti di famiglia, la propria storia. E dove andare? Che cosa di più esotico della Spagna? Per non dire, di Barcellona? Perché poi una protestante irlandese debba finire nella iper-cattolica Spagna del Franchismo trionfante, non è così lineare (il fatto che Tóibín ci fosse vissuto, ha il suo valore, ma certo non tanto all’interno del romanzo). E qui, smarrita e alla ricerca di se stessa, Katherine incontra l’affascinante Miguel. Pittore ed ex-combattente anarchico della guerra civile. Anche Katherine ha un certo penchant per la pittura. E diventano amanti, e questo è davvero un gran colpo di scena.
E a breve ai due si aggiunge Michael Graves. Bel cognome cattolico irlandese. Bel nome che è forma anglofona di Miguel. E anche qui, attenzione che il colpo di scena si avvicina, magari protraendolo alquanto. E tra l’altro, anche Michael Graves fa il pittore. Che va bene che Barcellona era città capitale della pittura, però, quando si dice le coincidenze...
Insomma, l’impianto del romanzo è decisamente forzato. Lo sviluppo, invece, riguarda uno di quelli che poi saranno i temi costanti di Tóibín, ossia lo sviluppo dell’identità. Dal 1950 al 1976, il romanzo si snoda ripercorrendo, ad anello, la vita di Katherine, fino al ritorno in Irlanda e il ricongiungimento con il figlio Richard (di solo dieci anni al momento dell’abbandono, e allora forse suona un po’ irrealistica la pacifica normalità dell’incontro), sempre con Michael Graves appresso.
Non c’è più Miguel, invece. Non per scelta. Perché la storia ha onde lunghe ma inesorabili, e la violenza della guerra civile continua a braccare i vivi e i morti. La violenza del passato di Miguel torna nelle forme dei ricordi, della tortura, della pazzia, dei sensi di colpa. E Katherine potrà ricordare i ricordi della propria infanzia, quei giorni violenti del 1920 della guerra d’indipendenza quando la loro casa fu bruciata dai cattolici, tra cui i parenti di Michael Graves. E qui abbiamo un secondo elemento caratteristico di Tóibín, la riflessione sulla storia e sull’identità irlandese. E se le pagine dedicate ai reduci della guerra civile spagnola riservano alcuni dei momenti migliori del libro, non aspettatevi però nulla di Omaggio alla Catalogna o I grandi cimiteri sotto la luna; e non vale dire che si tratta di altri generi.
È qui il problema; uno dei problemi maggiori del romanzo. A un certo punto, la guerra civile spagnola scompare. Scompare dal personaggio; scompare dal lettore. Un tratto negativo di fluidità dei personaggi: le più grandi tragedie, le grandi vicende, non sembrano realmente sedimentarsi nel vissuto, e questo al di là di alcuni passaggi in cui si cerca il virtuosismo doloroso, il lamento poetico e un po’ facile. A tratti, non c’è nemmeno la percezione che Katherine, alla fine del romanzo, sia una donna ormai prossima alla vecchiaia: certo, ce lo ricordano la nipotina, la madre ormai vecchissima, alcune osservazioni quasi scontate. Ma i pensieri, le reazioni, l’immaginazione, sono ancora quelli della donna che, trentenne, era partita per Barcellona. Katherine resta un personaggio indefinibile, non detto (e preferisco evitare la via di fuga che tutto ciò avvenga perché il personaggio sarebbe in realtà "indefinito a se stesso").
La stessa pittura dovrebbe essere un percorso del personaggio: i suoi studi, i suoi quadri, la sua ricerca figurativa, dovrebbe essere un sottotesto del suo sviluppo, della sua identità in evoluzione. Invece le ampie descrizioni dei suoi lavori, delle sue tecniche, delle sue esposizioni, non si integrano mai nel racconto, facendone quasi delle isole narrative, spesso noiose, sempre irrelate.
Insomma, certo non è un Harmony. Ne ha però molte movenze anche stilistiche, nella ricerca di un linguaggio forse troppo immaginoso, e un po’ stucchevole e pretenzioso nelle sue ventate liriche. L’amore che provava per lui, pensò, non era che un altro piccolo disegno di dolore e di felicità. L’amore che provava per lui era come un respiro sul vetro.
E l’esperimento di narratologia a cui avevo accennato, l’addebito alla traduttrice.
In questi casi si suol dire, “È un’opera prima”.
Ah ho capito: è la tipa dell'angolo.
RispondiEliminaDal tuo riassunto e soprattutto dalle tue note, non escludo che potrebbe non dico piacermi ma invogliarmi all'assaggio, però dubito fortemente che sarebbe il mio genere. Il brano da te citato nell'altro post non conteneva quel quid stilistico che fa perdonare un contenuto stucchevole.
Ho una cosa da chiederti: come mai non hai usato l'aggettivo "romantico/a"? Eppure per quest'eroina alla ricerca di se stessa, divisa fra due uomini (artisti maledetti, forse?) più - non dimentichiamolo - un marito e un figlio, me lo sarei aspettato.
Guarda, quanto allo stile, penso che la traduzione un po' abbia penalizzato l'opera. Ogni tanto mi sono infastidito per alcuni cascami che secondo me non erano geniali trasposizioni dell'idioletto narrativo. Ma potrei sbagliarmi.
RispondiEliminaQuanto al romantico/a: sì, è vero, Katherine ha indubbiamente alcuni elementi di certe ben note eroine. Perché non ho usato tale aggettivo? Potrei cavarmela dicendo che non mi era venuto in mente, e forse non mentirei; anche, però, la protagonista mi sembra piuttosto riconducibile a una certa serialità molto più moderna e commercial-psicologica.
Potrei citare un caro amico. "Fa veramente, ma veramente schifo, ma che non suoni come un giudizio di valore". In realtà credo che sia un romanzo troppo distante dai miei gusti e i miei interessi.
Grazie comunque davvero per il contributo.