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Non si tratta di recensioni. Non si tratta di novità editoriali. Solo le mie note di letture casuali e ritardatarie, da un giorno in cui ho sentito di averne bisogno, a uno in cui non me ne importerà più.

domenica 28 novembre 2010

Sicché, questa è la vita?

La Minimun fax  vanta nella collana Filigrana alcuni titoli che sono florilegi di osservazioni, annotazioni e consigli per la scrittura da parte di grandi opere (tra gli altri Raymond Carver, Flannery O’Connor, Henry Miller, Jack London). Cito un consiglio tratto dall’antologia di Anton Čechov, Senza trama e senza finale. 99 consigli di scrittura, rivolto al povero Aleksandr Čechov,  fratello massacrato in ogni suo lavoro; e, sempre al fratello, un’annotazione sul rapporto tra vivere e scrivere. E i due aforismi sono più legati di quanto paia.

È un errore voler mettere in scena un gran numero di personaggi. Centro di gravità debbono esser due soli: lui e lei. (1886)

Non ho voglia di scrivere, e poi è difficile unir la voglia di vivere con la voglia di scrivere. (1894)

venerdì 26 novembre 2010

Nati sotto il segno di Quetzalcoatl

David B. [Pierre-François Beauchard], Il Grande Male [1997-2003], Bologna – Roma – Parigi, Coconino Press, 2010, euro 22

Esce finalmente in unico volume (dopo alcune edizioni in varia forma parziali nel 1999 e 2003- 2004) uno dei più grandi capolavori della graphic novel. Un autore che è una negazione di se stesso, fin dal nome; un cognome eliso all’iniziale; un nome abbandonato per un altro, e proprio qui ne troviamo la spiegazione. Una vita che è continua morte e nascita, volti che si alternano per l’eternità. La meravigliosa copertina, cinque figure, una famiglia, i cui corpi sono impastati in un’unica macchia nera da cui affiorano i visi. Un campo giallo incorniciato da un corpo, spezzato e contorto, chiuso al vertice basso sinistro da un viso sgradevolmente adolescenziale, peluria e labbra rigonfie. Occhi spersi e dolorosi aperti in una testa sorretta da una mano in primo piano che protegge il fuori dal dentro e il dentro dal fuori. Nella pagina di prologo, 1994, in un bagno normale e quotidiano, entra una figura deforme e ripugnante. Le parole faticose Sono io. Comincia così il viaggio nel ricordo del dolore, una famiglia aggrumata nel Grande Male di Jean-Christophe, quando ancora era solo Tito. Quando ancora Pierre-François ignora che in suo fratello si cela e cresce la “crisi tonico-clonico”. In pagine dominate dal nero, sfondi e ombre e corpi stessi neri, fuoriescono, quasi ne fossero minacciate, bianche masse plastiche: contorni netti e recisi, senza toni intermedi; un disegno quasi violento nella sua apparente ingenuità, un universo scisso, due emisferi in lotta cosmica l’uno con l’altro. Un lettering corsivo e nervoso guida nella tragedia della famiglia Beauchard; due storie parallele, quelle di due fratelli, Tito, nel suo rifugiarsi nella malattia per negarsi e non esserci, una vita che si contrae lentamente, e Fafou, la sua lotta per essere se stesso, per scoprire chi è, per difendersi dal male che li fagocita. Due fratelli costretti a crescere odiandosi, nel dolore ognuno della propria solitaria disperazione, per ciò che è negato, per ciò che è tolto. Ma Fafou disegna; i suoi fogli si addensano di battaglie feroci, e la storia si riversa nella sua infanzia, i mongoli, gli aztechi, i beduini, i samurai, gli opliti. Immagini del caos e del disordine che per Fafou è ciò che, incomprensibile, si annida vorace nel cervello del fratello; quella ferocia della storia che per il bambino si condensa nelle crisi e nello straniamento di Tito, e che cerca di ricostruire nelle cronache famigliari d’Algeria, Indocina, Grande Guerre. E le forme sulla pagina sono metamorfiche, campi di fuga di un bambino che fissa sul biancore della carta un mondo sconvolto, per dargli distanza estetica, mappa emotiva: così d’improvviso abbiamo stile dei thangka, tz’ib’al, Lydos ed Exekias, arte precolombiana, ceramica a figure nere, pittura cinese e giapponese. E mentre la famiglia passa da medici pazzi a santoni orientali, da cerretani a psicopatici, dal gomasio a terapie sperimentali, in un calvario di speranze, delusioni, spossatezza e isolamento, trasfigurati dalla giocosa ingenuità di Fafou bambino e poi dalla ora rabbiosa ora dolorosa adolescenza di Pierre-François e poi ancora – ultimata la metamorfosi – di David B., le pagine, dense, gremite, oniriche e allucinate, trascolorano da Grosz e Dix a Kirby, dal surrealismo alla tribale africana, dalla Biblia pauperum a Picasso. Il cosmo del dolore assume la forma grafica delle pagine alchemiche di Raimond Lull, di Cornelio Agrippa, del Mutus Liber, in cui sistemi misteriosofici e universali degli arcani maggiori disegnano il labirinto in cui si addentra la ricerca di un senso. E tutto è simbolo: mentre gli uomini volano e i sogni affiorano, corpi teratomorfi e incubi antropomorfi si mescolano. Tra Jung e il ricordo del nonno, silenzioso Ibis incravattato sempre presente nel momento del dolore, continua la lotta di Fafou e la resa di Tito contro il male, figurato in quel serpente Quetzalcoatl, vomitato dalle crisi di Tito, le cui spire percorrono e legano e avviluppano le pagine del libro e degli anni che passano. Fino all’ultima pagina, che improvvisa si allarga e respira nella conciliazione, nell’accettazione, nella rinunzia. Un capolavoro.

venerdì 19 novembre 2010

L’aula vuota del professor Bartleby

G. Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini [2001], Torino, Einaudi, 2010, euro 13

Il duca, quando la sera scende, può solo constatare “Quando la vita suona l’ora della raccolta, si sentono, senza aver fatto troppo di male, mille piccoli disgusti di se stesso, il cui totale non fa un rimorso pieno ma un malessere oscuro. E il mantello del duca trascina sicuro, scalando degli onori i gradini rampanti, un crepitio di illusioni secche e di rimpianti”. A volte può accadere anche percorrendo i chiostri universitari. Eppure, Preferirei di no racconta di qualcuno che seppe risparmiarsi quel malessere oscuro. L’8 ottobre 1931 oltre milleduecento professori universitari sono chiamati a giurare fedeltà al re e al regime fascista, impegnandosi a esercitare “l’ufficio di insegnante” per formare cittadini “devoti alla patria e al Regime Fascista”. Solo dodici rifiutano.
Un rifiuto minoritario; meno della percentuale dei malati rispetto ai sani, dei deficienti rispetto agli intelligenti, dei disonesti rispetto ai virtuosi, sarà lo scherno fascista. Ma un rifiuto che arriva al termine di un lento stillicidio di minacce, repressioni, violenze, norme, episodi, provvedimenti, che hanno già soffocato e stremato il mondo accademico; nei primi due capitoli Boatti ripercorre questo lento dissanguarsi, di energie e di anima, tra ritirate e resistenze: gli attacchi nel 1923-24 a Gaetano Salvemini, costretto l’anno successivo, dopo aver sperimentato anche il carcere, all’esilio; il decreto legge del dicembre ’25 che prevede il licenziamento per quei professori che fossero “in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo” (una legge che provocò l’abbandono di Silvio Trentin e F.S. Nitti, ma spazzò via professori di ogni ordine e grado, come Umberto Cosmo, e piace ricordare che sarà un suo allievo, Leone Ginzburg, l’ultimo a rifiutare il giuramento fascista, quando, arrivato in cattedra nel 1934, notificò sobriamente al suo Preside di non essere interessato alla carriera accademica); e così un primo giuramento (ancora solo al re) imposto ai professori nel 1924; lo scontro tra Manifesto fascista e antifascista del 1925; gli attacchi in Senato a Croce, “imboscato della storia”; fino all’intervento dei carabinieri che sospendono il congresso della Società Filosofica Italiana nel 1926. Una marea che culminerà con l’espulsione degli ebrei dall’università nel 1938 (97 di ruolo, 133 aiuti, 160 liberi docenti).
Mentre un mondo crolla, e l’afa livida e cupa preannuncia la tempesta, dolorosamente solitari, non rispondono all’appello Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco Ruffini, Edoardo Ruffini Avondo, Lionello Venturi, Vito Volterra. Lungo le pagine grandi e piccole della storia e della cultura italiana, dal terremoto di Messina (in cui Salvemini perse moglie e cinque figli) alla nascita del “Corrierino dei piccoli”, dall’infamia della Pascendi dominici gregis agli accoltellamenti tra reduci garibaldini in Romagna, dall’arroganza dei vincenti del maggio radioso alle lotte, di pensiero e di meschinità, nei Senati accademici e nelle anticamere ministeriali, si disegna un denso e affascinante affresco italiano in cui le storie dei dodici si propongono come romanzi ricchi di echi, incontri e battaglie. Attraverso le loro lettere di rifiuto al ministro Giuliano, le loro memorie, e quelle di grandi protagonisti della vita culturale e civile del Novecento italiano (Galante Garrone, Bobbio, N. Ginzburg, V. Foa, tra gli altri), Boatti segue la parabola di questi uomini che si trovarono a fare i conti con la propria storia personale e il senso di una vita scelta molti anni prima. Laici e razionalisti intellettuali ebrei, come Errera, Volterra e Levi Della Vida, o ascetici filosofi cristiani, come Martinetti, panteista e schopenaueriano. Cattolici osservanti e conservatori come De Sanctis, che rifiuta le scappatoie gesuitiche della “riserva interiore” proposta da un tale, omonimo a una piazza davanti a un certo ateneo milanese; oppure scomunicati e sacerdoti sospesi a divinis, come Buonaiuti, schiacciato dalla morsa della repressione fascista e della persecuzione cattolica antimodernista, tanto che persino l’Italia repubblican-democristiana gli negherà il ritorno in cattedra. Uomini per cui il rifiuto era consequenziale a una storia personale e persino famigliare, come il libero pensatore romagnolo Nigrisoli, o protagonisti inattesi, come Venturi, che aveva invece firmato il manifesto degli intellettuali fascisti. Membri della grande aristocrazia intellettuale italiana o montanari e figli di pizzicagnoli. Matematici, giuristi, semitisti, chimici, medici, storici dell’arte, filosofi, storici dell’antichità o del cristianesimo.
Certo, molti erano al termine di una carriera ricca di prestigio, pubblicazioni e soddisfazioni, ma vi fu anche chi come Edoardo Avondo Ruffini aveva solo trent’anni, e ne ebbe la carriera spezzata; certo, molti erano rassicurati dal loro benessere economico, ma altri, come Ernesto Buonaiuti che dovette vendere pezzo a pezzo la sua biblioteca, patirono maggiori o minori disagi economici; certo, alcuni erano intoccabili per la loro risonanza internazionale, ma altri patirono in seguito il confino, il carcere, o preferirono per sicurezza l’esilio. In tutti, però, insieme alla proclamazione della propria dignità, al rifiuto di subire il sigillo ideologico fascista, alla rivendicazione dell’autonomia della propria coscienza e della ricerca scientifica, c’è la drammatica sofferenza per l’abbandono della cattedra e la rinunzia a quell’insegnamento che dava senso, scopo e orizzonte a tutta una vita. Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente.

mercoledì 17 novembre 2010

Non mangiate i frontespizi

Di Saba, si conservano dal liceo tre cose. Il suo stupore alla scoperta che la moglie s’era offesa per essersi presa versoliberamente della vacca e della cagna. Che aveva scritto sonetti sul calcio (Come Leopardi! No, caro: quello era un altro pallone, ma in effetti per saperlo bisogna essere nati un po’ balzani, oppure a Treia e dintorni, che poi non è così diverso). E che a Trieste aveva una libreria antiquaria, la Mayländer. E quindi chi meglio di lui per scrivere Consigli ai bibliofili? E davvero è per bibliofili questo libricino, edizione numerata per i tipi Henry Beyle, su carta Zerkall-Bütten, che segue a R. Carrieri, Il sabato del bibliofilo e G. Papini, Il libraio inverosimile. Libello esile, nella materia e nel contenuto. Ma che ha tutta la lieve piacevolezza di una tranquilla chiacchierata con un vecchio amico in una sala foderata di libri. E l’aneddoto finale – con l’episodio di colui che prima di vendere i libri appena ereditati strappa i frontespizi firmati dal parente perché non si sappia in giro che in famiglia si vendono i libri, che “tanto, questi valgono per il contenuto e non per il frontespizio” – vale davvero il libretto.

venerdì 12 novembre 2010

Amalek, Amalek!

B. Vian, Sputerò sulle vostre tombe [1946], Milano, Marcos y  Marcos, 1998, euro 13

Non è facile scrivere opere sgradevoli senza essere ridicoli. Non è facile scrivere libri da bancarella di stazione ferroviaria che non siano abbandonati sul sedile al termine del viaggio. Sputerò sulle vostre tombe, ad esempio. Vernon Sullivan, come ricostruisce il traduttore Boris Vian nella prefazione del traduttore, negro-bianco americano, bianco nell’apparenza e per la burocrazia, e negro nella memoria e nella rabbia, affida all’editore francese il suo manoscritto rifiutato dal sistema editoriale USA. Rifiutato per pornografia, se non per pedofilia, per violenza, per immoralità. Ma più perché il protagonista, ed io narrante, è un negro-bianco lui stesso, e la storia è un esorcismo, allo stesso modo in cui gli uomini del neolitico dipingevano bisonti colpiti dalle frecce per attirare la loro preda nella trappola; allora è ben più che un esorcismo, è un vaticinio, un giuramento di odio fino allo sterminio. Vendetta, rivalsa, rabbia, del negro sul bianco, insinuandosi nel mondo bianco, scopando ragazze bianche, ammazzando ragazze bianche dopo essersi rivelato per negro. Solo sei anni dopo, Frantz Fanon, psichiatra francese-martinicano, nel bellissimo Pelle nere. Maschere bianche indagherà l’alienazione del nero che cerca di essere bianco. La negazione di sé, il complesso di inferiorità. Il suo desiderio della donna bianca come compensazione. Ma tutto, in Sputerò sulle vostre tombe è ancora più ambiguo, nell’urlo di Lee Anderson, il negro-bianco, che vuole gridare chi è davvero; con quell’incipit fulminante Nessuno mi conosceva a Buckton, che non è fuga e nascondimento, ma come si scopre poco a poco, occultamento, preparazione necessaria alla vendetta di sangue e sesso. Per placare l’ombra di quel ragazzo due metri sottoterra, la cui identità affiora lentamente, per sottrarsi a quella paura e a quel tremore e a quella disperazione inoculate scientemente per secoli, come ricorderà Aimé Césaire, uno dei padri della négritude. Già, qui è tutto più complicato, perché Vernon Sullivan non esiste. E questo romanzo breve-racconto lungo esce dalla pena di quel mostro poliedrico di Boris Vian. Ne esce per soldi, ne esce per sfida, gioco, scommessa. Un romanzo scritto ricorrendo a tutto l’armamentario di un genere che dilagava in Europa con le cicche e le Marlboro. Un po’ come quel certo personaggio della nostra storia letteraria che un giorno abbandona tutto, e si mette a scrivere romanzi commerciali americani, tanto bene, da saper creare l’effetto di frettolose e impacciate traduzioni dall’inglese. E sì che un bell’indizio, c’era nella prefazione, quando Vian intravede nel romanzo l’influsso di James M. Cain, padre dell’hard boiled, e di James Hadley Chase. Che però era inglese, e le sue ambientazioni americane le otteneva con le guide geografiche e vocabolari e lessici di slang. E allora questo romanzaccio a effetto, operazione commerciale delle più bieche, non lo si abbandona sul treno. Perché, nel gioco di proiezioni e assunzioni di identità, caso limite della sequenza autore - autore fittizio - autore implicito - narratore, è una denuncia dura e feroce di ogni razzismo e ogni società, con lo scarto inatteso e finale tra narratore in prima e in terza persona, dalla pianificazione lucida tracimata in un’ordalia spasmodica di sangue, alle asettiche e descrittive pagine conclusive, fino al brevissimo capitolo epigrafico dove si raccolgono indignazione e irridente fedeltà alla propria rabbia. Perché non tutti, quando il giorno s’impaluda in una moria schiumosa, restano sempre in attesa del passaggio delle undici ragazzine cieche dell’orfanatrofio di Giulio l’Apostolico.

mercoledì 10 novembre 2010

Venticinque piccoli lettori

Sotto il segno della Scuola Holden, all’interno del progetto “Save the Story”, mi è arrivata tra le mani La storia de I Promessi Sposi, raccontata da Umberto Eco, a cui ha collaborato un certo Alessandro Manzoni. Posto che ci credo pochino che ci sia davvero la penna dell’Umberto, la lettura è davvero piacevole, a tratti molto divertente. Ho comunque un po’ l’impressione che sia piuttosto un libro per adulti che vogliono tornare bambini, che davvero per giovani lettori. E anche le illustrazioni di Marco Lorenzetti, marchigiano di terra di illustratori, lo suggeriscono. Certo che c’è un piglio molto personale, nell’Epilogo sul sugo della storia di quel vecchio signore dalla “faccia buona di un cavallo triste”, e così nel capitolo finale Da dove viene questa storia, brioso racconto della storia editoriale e della fortuna dell’opera. Mi resta sempre un dubbio, se questa “scialuppa che porta in salvo, nel nostro millennio, qualcosa che sta naufragando nel passato” sia davvero quanto serve. Da bambino mi regalarono un Chisciotte ad usum tructae. Forse, se non avessi creduto allora che mi sarebbe bastato, avrei scoperto prima com’è tutta la vita e il suo travaglio nel malinconico testamento di Alonso Quijano il Buono. Ciò detto, preferivo Eco quando nella sua My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni, ci insegnava a tenerci lontani dalla falsa albagia scientifica e dalla superfetazione ermeneutica di chi vuole leggere nel romanzo la storia di un matrimonio osteggiato, per gustare invece, con primitiva ingenuità, il legame tra sintassi e struttura dell’universo secondo lo Zohar, piuttosto che le evidenti tracce antropologiche nel solco sapientemente indicatoci da Kerenyi e Bachofen.

lunedì 8 novembre 2010

Marziani e Archeologia fascista

Festival di Sanremo. Gianni Morandi «Non facciamo e non vogliamo fare politica». Gianmarco Mazzi: «Giovinezza è passata alla storia come inno del ventennio ma nacque come canzone della “goliardia” toscana nei primi del '900».

Nel 121° anno matematico, al IV Congresso intergalattico di Studi Archeologici, il Ch.mo prof. Anouk Ooma (Centro Universitario Archeologico della Terra del Principe Giuseppe), tiene una comunicazione destinata a sconvolgere la disciplina dell’Archeologia terrestre. L’illustre relatore confuta in particolare la strampalata tesi del prof. Ixptt Adonis che non ci sia arrivata alcuna testimonianza della cultura italiana non perché, come ritiene il prof. Aakon-Sturg, il bacino mediterraneo fu lo scenario più devastato dalla guerra atomica o perché, secondo l’ipotesi del prof. Ugum-Noa Noa elaborata sulla base dei documenti degli incontri internazionali, in realtà non esistette mai un’entità italiana, ma perché una disastrosa situazione economica della cultura italiana, tra crolli e tarme, avrebbe impedito anche solo di pensare a tramandare il sapere alle generazioni future. Teoria davvero a-scientifica e vagamente razzista da parte di uno studioso della stella nana Altair quale il Ixptt Adonis, che immaginerebbe i terrestri come un popolo che si bea mangiando e suonando l’arpa mentre tutto attorno brucia.
Il Ch.mo prof. Anouk Ooma apporta invece la prova definitiva a smentita: il ritrovamento, in collaborazione con il Ch.mo prof. Baaka B.B. Baaka A.S.P.Z. (Reale Istituto di Letteratura di Isola degli Orsi), di alcuni frammenti cartacei di un codex ampiamente mutilo titolato Ritmi e Canzoni d’oggi o, come l’illustre relatore si pregia di definirlo, Quaternulus Pompeianus. Restano purtroppo poco più che alcuni incipit di ciò che è riconoscibile come una raccolta di primitivi testi poetici delle Origini, come ricostruibile sulla base della voce Canzone o Canzona dell’Encyclopaedia Britannica o dell’ Essai sur le rythme del Matila Ghyka.
Grazie a questo insperato ritrovamento, il Ch.mo prof. Anouk Ooma ci insegna a riconoscere le voci del passato che ancora ci parlano con la loro sorgiva forza primitiva. Vola Colomba bianca vola, inno in lode dello spirito santo. È morto un bischero, traduzione incompleta dallo spagnolo di una poesia del poeta Federico Garcia o Federico Lorca, del XIX o XX secolo. Lo sai che i papaveri son alti alti alti, in cui affiorano i fremiti di angoscia e l’umana fragilità di fronte al mistero della natura.
E infine Giovinezza giovinezza primavera di bellezza, canto di giovinette, al cui suono la fantasia vola a fanciulle avvolte in bianchi veli, danzanti nel plenilunio di qualche magico pervigilium.

L’impressione è che il Diario minimo di Eco avesse sbagliato di circa 121 anni matematici. Per tutto il resto, direi che purtroppo già ci siamo.

domenica 7 novembre 2010

Verrà la morte e avrà i tuoi denti

Evgenij Zamjatin, Noi [1924], Milano, Lupetti, 2009, euro 14


Sono passati mille anni. E l’umanità è felice. 


Sembrano solo coincidenze: nel 1921 esce il fondamentale Storia dell’utopia di Lewis Mumford, in cui sulle società ideali già si addensa un fosco monolitismo; nel 1920 Josef Čapek scrive R.U.R., precursore della vita meccanica, con i suoi robot/androidi; nel 1918 Esenin canta la sua Inonia, utopia edenica contadina il cui collasso lo porterà alla disperazione e forse oltre; e solo un anno prima Vladimir Kirillov, nel suo poema Noi, intona “Noi, infinite, minacciose legioni del Lavoro. / Abbiamo vinto distese di mari, d’oceani, di terre, / della luce di soli artificiali abbiamo illuminato le città”. 


Negli stessi anni, tra il 1919 e il 1921, anche Zamjatin dà lo stesso titolo, Noi, al suo romanzo fantascientifico (marchiato dalla cultura ufficiale sovietica come “un miserabile libello sul futuro del socialismo” e pubblicato in patria solo nel 1988). Nello Stato Unico, il grammo dell’io si annulla nella tonnellata del Noi; felicità è dimenticare di essere un grammo e sentirsi la milionesima parte della tonnellata. Felicità e moralità meccaniche e matematiche: la vita è scandita dalla Tavola delle Ore, dalla funzionalizzazione al benessere dello Stato, dalla logica tayloristica e molecolare, dai riti collettivi. 


In un universo asettico e indefinito (macroisola? stato universale?), in cui la natura è asservita e annichilita, e tutto è solo vetro e acciaio, visibilità e controllo, un panopticon totale che si espande alle pareti trasparenti della case; una vita sessuale centralizzata burocraticamente e contrattualizzata tra pari, scientifica, stabilita nelle cadenze, medicalmente e igienicamente; la letteratura che ha saputo andare oltre anche il grande capolavoro delle epoche antiche, l’Orario delle Ferrovie, per essere finalmente utile, per contribuire alla felicità e alla compattezza dello stato, con la tragedia Colui che arrivò tardi al lavoro, con i Fiori delle condanne giudiziarie, e su tutto con le Odi quotidiane al benefattore, Colui che è il Numero dei Numeri, l’ipostasi dello Stato, acclamato nel Giorno dell’Unanimità (e in fondo J. Benda comincia il suo Tradimento dei chierici nel 1924). 


Certo gli archetipi della distopia si rintracciano fin dai Mondi celesti, terrestri, et infernali del  Doni (1562), dalla Favola delle api di Bernard de Mandeville (1714), o i Viaggi di Gulliver, l’Histoire des Galligènes di Tiphaigne de la Roche (1765), o il reame di Butua nell’Aline e Valcour di de Sade. Per non dire di Erewhon di Samuel Butler, per chi ha saputo leggerlo prima di altri. La distopia moderna, però, nasce solo con Noi, nel sovrapporsi di tecnicismo, totalitarismo, igienismo, depersonalizzazione. E il solco sarà segnato, fino a Mondo nuovo di Huxley, che pure negherà sempre di esserne stato a conoscenza, e fino a 1984 di Orwell, che invece recensì il romanzo di Zamjatin due anni prima di comporre il suo capolavoro, e ancora fino alla geniale tesi di laurea alla School of Cinematic Arts di George Lucas, nel 1967, poi riprodotto nel meraviglioso THX 1138


E lettere e numeri sono i nomi nello Stato Unico di Noi. D-503 (D per gli amici, che ovviamente abita nel blocco D, appartamento 503) appartiene all’élite dello stato; ingegnere, costruttore di quella nave spaziale Integrale che porterà la Felicità della Tavola delle Leggi sugli altri pianeti. E D-503 stende le sue note, intitolate Noi, orgogliosamente e convintamente felici, rivolte a quegli abitanti di pianeti lontani ma ormai prossimi, rimasti legati a modi di vivere irrazionali e arcaici, antenati a cui spiegare la bellezza morale della Felicità, tanto da trovarsi di fronte all’ardua sfida di scrivere non per lettori del futuro, ma del passato. 


Ma D-503, matematico, è tormentato fin dall’infanzia da √-1, fonte dei numeri immaginari e dell’inquietudine. E oltre il Muro Verde, asettico confine della perfezione dello stato, ignoti ai Numeri, vivono uomini rifugiatisi nel disordine del primitivismo naturale. E D-503 ha le mani odiosamente villose, un residuo di atavismo nella nuova asettica e glabra società. O forse frutto di relazioni criminali tra donne di qua dal Muro con uomini dell’oscuro di là. E proprio quelle mani pelose attraggono I-330, donna dai denti aguzzi e luminosi, al cui passaggio che fa tremar di claritate l’are D-503 precipita nel non-euclideo. 


E le note quotidiane di D-503 sono allora in realtà il diario dello sconvolgimento provocato da questa donna, dall’entusiasmo per lo stato e la propria missione, alla crisi, la passione, la scoperta rabbiosa e rapinosa delle pretese dell’io e del desiderio. Al riconoscimento della contrapposizione termodinamica tra energia, ribelle ed eretica e salvifica, ed entropia, che ossifica e sopisce. All’accettazione dell’infinito matematico. Fino all’adesione alla rivolta contro il Benefattore, di cui proprio I-330 è la guida. 


Ma se 1984 è una storia d’amore tradita dall’orrore dell’umano, a qualcosa si è ispirato. Perché la fantasia e la libertà sono solo un misero nodo centrale nella regione del Pons Varolii, snidabili in qualche voluta del cervello. E ciò che D-503 potrà annotare nell’ultima pagina del suo diario è come fosse bello che quella donna avesse i denti aguzzi e molto bianchi. Poi sarà entropia.

mercoledì 3 novembre 2010

Quel che Dante non vide

Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka [1944], Milano, Adelhpi, 2010, euro 6

Ci sono alcune esistenze eccezionali, tragicamente eccezionali. Berdyčiv sorge nel mezzo del pianoro ucraino; poco più di ottantamila abitanti; forse non il luogo migliore per nascere, e probabilmente nemmeno per sposarsi, come invece fece Balzac. Soprattutto, però, Berdyčiv fino alla Shoah era costituita all’ottanta per cento da ebrei e vantava la seconda più grande comunità dell’impero zarista; uno Shtetl spazzato via dall’Olocausto. E da Berdyčiv veniva Vasilij Grossman, reduce di tutti i campi, fedi, storie, tragedie. Romanziere sovietico (Per una giusta causa) e poi antisovietico con un destino di censure, sequestri e fortunose pubblicazioni (Vita e destino e Tutto scorre), Grossman visse la dolorosa esperienza del corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale; la sua diretta esperienza del fronte, con la risalita, fin da Stalingrado, attraverso le devastazioni del genocidio, lo portò, con Il’ja Erenburg (colui che poi conierà il termine “disgelo”), alla stesura del Libro nero dei crimini del nazismo nei territori sovietici. E proprio alla sua testimonianza diretta di giornalista entrato per primo nel campo di Treblinka si deve questo reportage pubblicato nel novembre 1944 su rivista. Il reportage, che servì da documento al processo di Norimberga, è costituito da due parti: la prima segue il percorso delle tradotte fino al campo, rivivendo attraverso gli occhi dei condannati il raggelante disvelamento della verità, l’atterrita lettura degli indizi sul proprio destino, l’incertezza tra speranze e timori, la privazione di memorie, capelli, nomi, dignità, abiti, fino all’orrore delle camere a gas; la seconda è dedicata agli inceneritori, al tentativo di cancellare la realtà del campo di fronte all’avanzata sovietica, alla rivolta finale dell’agosto 1943. Non so quanto il reportage sia davvero attendibile, a così poca distanza dagli eventi, e che cosa sia stato confermato dalla ricerca storica, per quanto già le note a piè di pagina dell’edizione Adelphi, in cui si correggono i nomi dei vari nazisti operanti al campo, siano rassicuranti. Ma in fondo non è ciò che è più importante. Più è il senso di orrore, di indignazione, di appello alla dignità umana, il lamento su vite dissipate nel niente mentre “la luna, incallita prostituta, passeggiava su e giù lungo le notti / e le stelle ammiccavano schifose, facevano occhiolino come i topi” (I. Katzenelson, Canto del popolo yiddish messo a morte).

lunedì 1 novembre 2010

La verità, vi prego, sull'amore dei litterati

Se ordinariamente ogni simile appetisce il suo simile, io mi maraviglio, come voi altre belle et giudiciose donne possiate comportare di vedere, non che di far degni della gratia vostra, gli huomini litterati, i quali per lo più sono brutti, et sparuti, con certi visi pallidi e affumicati, che farebbono paura a’ bambini: maninconichi, severi, et pensosi: di poche parole, bizarri, fantastichi, et noiosi, che è una morte a vederglisi intorno.


Ludovico Domenichi, Dialogo amoroso, in Dialoghi di M. Lodovico Domenichi, cioè D’Amore, Della vera Nobiltà, De Remedi d’amore, Delle imprese, Dell’amor fraterno, Della Corte, Della Fortuna, Et della stampa, al molto magnifico et nobilissimo signore, M. Vincentio Arnolfini gentilhuomo lucchese, in Vinegia, appresso Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1562