Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka [1944], Milano, Adelhpi, 2010, euro 6
Ci sono alcune esistenze eccezionali, tragicamente eccezionali. Berdyčiv sorge nel mezzo del pianoro ucraino; poco più di ottantamila abitanti; forse non il luogo migliore per nascere, e probabilmente nemmeno per sposarsi, come invece fece Balzac. Soprattutto, però, Berdyčiv fino alla Shoah era costituita all’ottanta per cento da ebrei e vantava la seconda più grande comunità dell’impero zarista; uno Shtetl spazzato via dall’Olocausto. E da Berdyčiv veniva Vasilij Grossman, reduce di tutti i campi, fedi, storie, tragedie. Romanziere sovietico (Per una giusta causa) e poi antisovietico con un destino di censure, sequestri e fortunose pubblicazioni (Vita e destino e Tutto scorre), Grossman visse la dolorosa esperienza del corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale; la sua diretta esperienza del fronte, con la risalita, fin da Stalingrado, attraverso le devastazioni del genocidio, lo portò, con Il’ja Erenburg (colui che poi conierà il termine “disgelo”), alla stesura del Libro nero dei crimini del nazismo nei territori sovietici. E proprio alla sua testimonianza diretta di giornalista entrato per primo nel campo di Treblinka si deve questo reportage pubblicato nel novembre 1944 su rivista. Il reportage, che servì da documento al processo di Norimberga, è costituito da due parti: la prima segue il percorso delle tradotte fino al campo, rivivendo attraverso gli occhi dei condannati il raggelante disvelamento della verità, l’atterrita lettura degli indizi sul proprio destino, l’incertezza tra speranze e timori, la privazione di memorie, capelli, nomi, dignità, abiti, fino all’orrore delle camere a gas; la seconda è dedicata agli inceneritori, al tentativo di cancellare la realtà del campo di fronte all’avanzata sovietica, alla rivolta finale dell’agosto 1943. Non so quanto il reportage sia davvero attendibile, a così poca distanza dagli eventi, e che cosa sia stato confermato dalla ricerca storica, per quanto già le note a piè di pagina dell’edizione Adelphi, in cui si correggono i nomi dei vari nazisti operanti al campo, siano rassicuranti. Ma in fondo non è ciò che è più importante. Più è il senso di orrore, di indignazione, di appello alla dignità umana, il lamento su vite dissipate nel niente mentre “la luna, incallita prostituta, passeggiava su e giù lungo le notti / e le stelle ammiccavano schifose, facevano occhiolino come i topi” (I. Katzenelson, Canto del popolo yiddish messo a morte).
Nessun commento:
Posta un commento