David B. [Pierre-François Beauchard], Il Grande Male [1997-2003], Bologna – Roma – Parigi, Coconino Press, 2010, euro 22
Esce finalmente in unico volume (dopo alcune edizioni in varia forma parziali nel 1999 e 2003- 2004) uno dei più grandi capolavori della graphic novel. Un autore che è una negazione di se stesso, fin dal nome; un cognome eliso all’iniziale; un nome abbandonato per un altro, e proprio qui ne troviamo la spiegazione. Una vita che è continua morte e nascita, volti che si alternano per l’eternità. La meravigliosa copertina, cinque figure, una famiglia, i cui corpi sono impastati in un’unica macchia nera da cui affiorano i visi. Un campo giallo incorniciato da un corpo, spezzato e contorto, chiuso al vertice basso sinistro da un viso sgradevolmente adolescenziale, peluria e labbra rigonfie. Occhi spersi e dolorosi aperti in una testa sorretta da una mano in primo piano che protegge il fuori dal dentro e il dentro dal fuori. Nella pagina di prologo, 1994, in un bagno normale e quotidiano, entra una figura deforme e ripugnante. Le parole faticose Sono io. Comincia così il viaggio nel ricordo del dolore, una famiglia aggrumata nel Grande Male di Jean-Christophe, quando ancora era solo Tito. Quando ancora Pierre-François ignora che in suo fratello si cela e cresce la “crisi tonico-clonico”. In pagine dominate dal nero, sfondi e ombre e corpi stessi neri, fuoriescono, quasi ne fossero minacciate, bianche masse plastiche: contorni netti e recisi, senza toni intermedi; un disegno quasi violento nella sua apparente ingenuità, un universo scisso, due emisferi in lotta cosmica l’uno con l’altro. Un lettering corsivo e nervoso guida nella tragedia della famiglia Beauchard; due storie parallele, quelle di due fratelli, Tito, nel suo rifugiarsi nella malattia per negarsi e non esserci, una vita che si contrae lentamente, e Fafou, la sua lotta per essere se stesso, per scoprire chi è, per difendersi dal male che li fagocita. Due fratelli costretti a crescere odiandosi, nel dolore ognuno della propria solitaria disperazione, per ciò che è negato, per ciò che è tolto. Ma Fafou disegna; i suoi fogli si addensano di battaglie feroci, e la storia si riversa nella sua infanzia, i mongoli, gli aztechi, i beduini, i samurai, gli opliti. Immagini del caos e del disordine che per Fafou è ciò che, incomprensibile, si annida vorace nel cervello del fratello; quella ferocia della storia che per il bambino si condensa nelle crisi e nello straniamento di Tito, e che cerca di ricostruire nelle cronache famigliari d’Algeria, Indocina, Grande Guerre. E le forme sulla pagina sono metamorfiche, campi di fuga di un bambino che fissa sul biancore della carta un mondo sconvolto, per dargli distanza estetica, mappa emotiva: così d’improvviso abbiamo stile dei thangka, tz’ib’al, Lydos ed Exekias, arte precolombiana, ceramica a figure nere, pittura cinese e giapponese. E mentre la famiglia passa da medici pazzi a santoni orientali, da cerretani a psicopatici, dal gomasio a terapie sperimentali, in un calvario di speranze, delusioni, spossatezza e isolamento, trasfigurati dalla giocosa ingenuità di Fafou bambino e poi dalla ora rabbiosa ora dolorosa adolescenza di Pierre-François e poi ancora – ultimata la metamorfosi – di David B., le pagine, dense, gremite, oniriche e allucinate, trascolorano da Grosz e Dix a Kirby, dal surrealismo alla tribale africana, dalla Biblia pauperum a Picasso. Il cosmo del dolore assume la forma grafica delle pagine alchemiche di Raimond Lull, di Cornelio Agrippa, del Mutus Liber, in cui sistemi misteriosofici e universali degli arcani maggiori disegnano il labirinto in cui si addentra la ricerca di un senso. E tutto è simbolo: mentre gli uomini volano e i sogni affiorano, corpi teratomorfi e incubi antropomorfi si mescolano. Tra Jung e il ricordo del nonno, silenzioso Ibis incravattato sempre presente nel momento del dolore, continua la lotta di Fafou e la resa di Tito contro il male, figurato in quel serpente Quetzalcoatl, vomitato dalle crisi di Tito, le cui spire percorrono e legano e avviluppano le pagine del libro e degli anni che passano. Fino all’ultima pagina, che improvvisa si allarga e respira nella conciliazione, nell’accettazione, nella rinunzia. Un capolavoro.
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